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IN SEMICERCHIO, RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXV (2021/2) pp. 121-122 (scarica il pdf)

JEAN FLAMINIEN, Della bontà, traduzione e cura di Fabio Scotto, Book Editore, 2020, pp. 224, € 18,00.


Jean Flaminien, originario di Airesur-l’Adour nelle Lande e attualmente residente in Spagna, ha compiuto sin dagli inizi della sua attività letteraria una scelta radicale: quella di non pubblicare in Francia. Ciò spiega, almeno in parte, il successo raggiunto in Italia nel corso degli ultimi vent’anni e, viceversa, l’ancora scarso riconoscimento ottenuto in Francia. Nonostante il sostegno di poeti del calibro di Yves Bonnefoy, di cui Flaminien viene spesso considerato l’erede, quest’ultimo appare raramente accostato a quella corrente, caratteristica della produzione francese contemporanea, di «poesia pensiva» (secondo la definizione di Michel Deguy) alla quale fanno capo anche Philippe Jaccottet e lo stesso Bonnefoy. Eppure, sin da Soste, fughe (2001), i versi di Flaminien appaiono perfettamente in linea con l’idea della poesia come modalità peculiare del pensiero, ovvero, nella formula di Georges Bataille, della poesia come «langage de l’impossible» in grado altresì di superare i limiti di un pensiero cartesiano.
In Italia, la scoperta di Flaminien si deve principalmente a Massimo Scrignòli, curatore della collana «Serendip» per la Book Editore, che dal 2001 pubblica le raccolte poetiche dell’autore. Nella traduzione di Marica Larocchi, oltre al già menzionato Soste, fughe, sono usciti Graal portatile (2003), Pratiche di spossessamento (2005), L’acqua promessa (2009), Preservare la luce (2011), L’altra terra (2018) e la silloge L’infinitude – Finitezza e infinito (2012; 2019). Di Antonio Rossi è invece la traduzione di L’uomo flottante (2016; 2020). 
Della Bontà, tradotto e curato da Fabio Scotto, si pone in relazione di continuità con le raccolte precedenti per la volontà di individuare nell’esercizio della bontà una risposta allo «spossessamento» dell’individuo, a quella condizione «flottante» dell’esistenza che la poesia di Flaminien già problematizzava. Tuttavia, appare opportuno riconoscere, insieme a Fabio Scotto, l’eccezionalità della scelta di un argomento così «storicamente poco praticato, per non dire inviso alla poesia», soprattutto nel contesto di una modernità che, «da Poe a Baudelaire, da Blake a Lautréamont […] ha preferito dar voce al male» (p. 7). I 93 frammenti che compongono la silloge si presentano dunque come un tentativo di circoscrivere tale concetto di «bontà», sdoganandolo dai luoghi comuni e dalle facili tentazioni di sovrapposizione semantica.
Come suggerisce ancora Scotto, il campo di indagine di Flaminien è il «mistero della presenza dell’essere in un mondo spesso insensibile alla voce della natura e vittima di un edonismo egoistico che mina fortemente la relazione» (p. 7). La «bontà» sarà allora intesa dal poeta in due sensi complementari: da un lato come principio necessario alla coesistenza tra gli uomini, fondamento di un moderno umanesimo che si pone come sola speranza per una società devastata dal «culte effréné de soi» (p. 70) [lo sfrenato culto di sé]; dall’altro come unica postura adottabile nei confronti del mondo che ci ospita («Partager / l’esprit de la terre et du ciel / entre nous, / comme don continuel») [Condividere / lo spirito della terra e del cielo / tra noi, / come dono continuo]. 
Certo è che, rispetto alle raccolte precedenti, qui la scrittura di Flaminien si fa più assertiva, priva degli ornamenti stilistici ancora presenti in L’Homme flottant. Il modello novalisiano risulta particolarmente evidente proprio in tale postura gnomica, aforistica. L’aspetto moralizzante si ritrova soprattutto nella critica della società contemporanea, tutta volta, nella definizione di Flaminien verso «l’ultramodernità» (p. 129) in cui l’uomo appare intrappolato «en ce site obscur que nous sommes / – séparés des autres comme de soi – » (p. 70) [in questo sito oscuro che siamo / – separati dagli altri come da noi –]. Per Flaminien, grande lettore di Lévinas, il mancato riconoscimento dell’Altro, il primato conferito al principio di identità da Platone in poi, sfociano in un soggettivismo che impedisce la costruzione di una società fondata su un vero umanesimo. La visione dell’uomo moderno, monade ridotta alla condizione di «araignée tissant sa toile» (p. 202) [ragno che tesse la sua tela], è sostanzialmente pessimistica, come mostra la citazione di Pascal posta in esergo al frammento 11: «Que le cœur de l’homme est creux et plein d’ordure» (p. 48) [Come è vuoto e pieno di immondizia il cuore dell’uomo]. L’umanità è percepita come consumata dall’orgoglio, colma di una «inconsciente cruauté / et de ses belles apparences» (p. 180) [incosciente crudeltà / e delle sue belle apparenze]. Non diversamente dalle recenti produzioni di Michel Deguy (Écologiques, 2012) la critica all’antropocentrismo e alla globalizzazione in quanto mali del secolo è esplicita, così come la necessità per l’uomo di riscoprire la coappartenenza con il territorio: «Ce sont bien des hommes / qui parlent d’avenir et détruisent le monde. / Insoucieux de l’unicité de la vie, /oubliant qu’il ne revient qu’à eux /d’enlacer terre et ciel» (p. 50) [Sono proprio uomini / che parlano di futuro e distruggono il mondo. / Incuranti dell’unicità della vita, / dimenticando che sta solo a loro unire terra e cielo]. Non sorprende che, nella raccolta, alla prima persona singolare sia spesso preferito un «noi» rimandante a una dimensione corale, all’auspicio di un agire collettivo: «dépasser l’intériorité, c’est vivre en pensée / la mise en commun originelle» (p. 202) [Andare oltre l’interiorità significa vivere nel pensiero / la condivisione originaria]. Flaminien ritrova nuovamente Lévinas: «reconnaître l’Autre, c’est donner» (p. 207) [riconoscere l’Altro, è dare]. Solo riconoscendo il «volto» dell’Altro, ammettendone l’alterità e al tempo stesso la somiglianza, è possibile accedere ad una dimensione etica fondata su una «réalité partagée» (p. 196) [realtà condivisa].
Ciò che il poeta sembra ingiungere all’uomo è, pertanto, una radicale inversione di marcia che parta dal ri-conoscimento dell’esistenza della bontà non tanto, come sottolinea Fabio Scotto, in quanto «ente in sé» ma come «materializzazione di un’istanza morale che orienta i comportamenti degli esseri» (p. 11). Rovesciando il cogito cartesiano, Flaminien individua infatti nella bontà il fondamento stesso dell’essere, la certezza della sua presenza nel mondo: «Je donne, – je me donne –, donc je suis» (p. 206) [Io do, – io mi do –, dunque sono]. Tuttavia, a differenza del cogito cartesiano, quello di Flaminien apre ad una dimensione mistica, ove non addirittura metafisica: «Par elle / nous avons un pied dans l’absolu, / ici, maintenant» (p. 206) [Grazie a lei / abbiamo un piede nell’assoluto, / qui, ora]. Un «assoluto», certo, appena afferrabile e che rimane comunque legato all’ineffabilità dell’istante; un «assoluto» che, precisa Flaminien, è «sans angélisme / foyer de nul idéalisme» (p. 38) [senza angelismo / patria di nessun idealismo], foriero di una mistica agnostica o di una «demi-vision», per dirla con Jankélévitch. E come nella «demi-vision» jankélévitchiana, il carattere evanescente della rivelazione non ne diminuisce la portata: «C’est un rare pouvoir inné / savoir aimer totalement» (p. 36) [È un raro potere innato / sapere amare totalmente], scrive Flaminien a conclusione del sesto frammento e aggiunge in nota, citando Yves Bonnefoy: «ce pouvoir d’aimer compris “comme en soi une réalité, une seconde réalité, à opposer à la nuit des choses”  » [questo potere d’amare inteso «come una realtà in sé, una seconda realtà, da opporre alla notte delle cose]. La «seconda realtà» di Bonnefoy diventa in Flaminien l’«altra terra», una dimensione oblativa da cui osservare «l’infini des sens du monde» [l’infinito dei sensi del mondo] dalla prospettiva dell’«hors temps, le temps spirituel» [fuori tempo, il tempo spirituale], una terra dove finalmente «non annotta», come recita l’epigrafe tratta da Montale.
È proprio tale dimensione oblativa, prossima a una forma di dépense, che accomuna, per Flaminien, esercizio della bontà e esercizio della poesia: «Donner sans recevoir est aussi l’offrande du Poète» (p. 213) [anche dare senza ricevere è l’offerta del Poeta]. La poesia, ricorda Fabio Scotto, diventa in effetti per Flaminien «un mezzo etico di affermazione della speranza e quindi dell’istanza morale come ecologia della mente e dello spirito» (p. 9). Bontà e Poesia, dunque, come sole armi per «guarire il mondo», come strumento per riconoscere la presenza viva dell’Altro: «S’il vous plaît d’entrer entre ces lignes murmurantes, fugaces, qui vers vous montent à l’air libre […] elles s’accroissent aussitôt de votre expérience réfléchissante. En les lisant, elles vous lisent, et nous sommes ensemble, malgré tout». (p. 22) [Se desiderate entrare tra queste righe mormoranti, fugaci, che salgono verso di voi nell’aria libera […] esse subito s’accresceranno della vostra esperienza riflettente. Leggendole, vi leggono, e siamo insieme, nonostante tutto].


di Sara Svolacchia

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