« indietro IN SEMICERCHIO, RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXV (2021/2) pp. 54-60 MASSIMO BONIFAZIO, «Le poesie più forti». Politica e passione nell’antologia In diesem besseren Land (1966) (scarica il pdf) Heinz Czechowski
Günter Kunert
Volker Braun
Karl Mickel
Zwei Lyriker, die sich auch als Kritiker betätigen, haben sich zusammengefunden, um die vorliegende Gedichtsammlung nach längeren Beratungen zur Diskussion zu stellen. Ihr Ziel war es, die stärksten Gedichte aufzufinden, die seit 1945 auf dem jetzigen Territorium der DDR entstanden sind. Così Adolf Endler e Karl Mickel aprono la Premessa all’antologia In questo paese migliore. Poesie della Repubblica Democratica Tedesca dal 1945, da loro curata nel 1966, individuando in poche righe il loro obiettivo principale: stabilire – in una prospettiva il più possibile dialettica – un canone per la poesia della nemmeno ventenne DDR. Lo fanno da nuovi entranti, tentando di cambiare le regole del gioco nella piuttosto asfittica atmosfera del socialismo reale. Nel contesto degli anni Sessanta, “Diskussion” è un termine delicato, dati gli esigui margini di manovra concessi dalle direttive del Politbüro della SED, il partito unico che regge il paese. In campo artistico, questo è completamente orientato verso la monosemia del realismo socialista, ossia la pretesa «di stabilire programmaticamente cosa un’opera d’arte deve esprimere, e come essa deve essere recepita dal suo pubblico», ai fini della trasformazione della società in senso marxista-leninista. Agli scrittori viene chiesto di mettersi al servizio della società, adeguandosi ai ritmi industriali dello sviluppo tecnico ed economico e del progresso sociale. È l’obiettivo del cosiddetto Bitterfelder Weg del 1959, che spinge gli intellettuali a entrare nei luoghi produttivi per superare la divisione fra lavoro fisico e lavoro intellettuale; e allo stesso tempo invita gli operai a rappresentare la propria condizione attraverso la produzione letteraria; «Greif zur Feder, Kumpel! Die sozialistische Nationalkultur braucht dich!» («Afferra la penna, compagno! La cultura nazionale socialista ha bisogno di te!”) ne è l’icastico motto . Con la costruzione del Muro di Berlino, nel 1961, gli intellettuali vengono ulteriormente spinti verso il ruolo di funzionari al servizio della stabilizzazione interna; chi si sottrae a questo compito viene sospettato di “orientamenti anarco-individualisti”, di bohème romantica, e di vivere alle spalle della società che lo nutre. Nei primi anni Sessanta, però, il genere lirico si scopre improvvisamente in grado di far traballare questo discorso, suscitando «accesi dibattiti pubblici (e non)» con la sua consustanziale e irrinunciabile polisemia. La prima occasione è data da una serata dedicata alla lettura pubblica di testi poetici inediti, il Lyrikabend dell’11 dicembre 1962, organizzata da Stephan Hermlin, comunista della prima ora e scrittore dotato di un grande capitale simbolico all’interno della DDR. Questi seleziona una novantina di poesie, scelte fra le 1250 arrivategli dopo un suo annuncio sul settimanale «Sonntag», e le legge pubblicamente in una Akademie der Künste stracolma. È un’azione quasi piratesca: la serata si svolge in un inconsueto clima di libertà e apertura, e ha come conseguenza letture simili in altri luoghi, nei mesi successivi. Vi partecipano autori all’epoca più o meno noti al pubblico, come Wolf Biermann e Kurt Bartsch, e un nutrito gruppo di giovani autori che più avanti sarà noto con il nome di “Sächsische Dichterschule”, Scuola poetica sassone, per la provenienza di molti dei suoi membri. Ne fanno parte Rainer e Sarah Kirsch, Bernd Jentzsch, Volker Braun, Heinz Czechowski e Karl Mickel, tutti all’incirca trentenni; sia singolarmente che come gruppo – caratterizzato fra l’altro da una inedita attitudine al lavoro artistico collettivo –, si costituiranno come saldi punti di riferimento all’interno del campo letterario tedesco-orientale. Si può dire che la scelta di Hermlin avvenga a partire dai parametri squisitamente artistici del modernismo europeo, pressoché sconosciuto tanto sotto Hitler quanto ai tempi della DDR, dove viene rifiutato perché troppo poco engagée. L’intento di Hermlin è di evitare lo scadimento dei versi a slogan e la miscela incongrua di poesia e ideologia, da lui individuata già negli Quaranta in figure come quella di Johannes R. Becher, poeta tanto vicino al regime – Walter Ulbricht lo definisce «il più grande poeta dei nostri tempi» – da diventare addirittura ministro della cultura, con una produzione lirica spesso un po’ piattamente encomiastica, anche se con punte di rilievo, fra le quali metterei le parole dell’inno ufficiale della DDR, Auferstanden aus Ruinen (Risorti dalle rovine, 1949), musicato da Hanns Eisler. Hermlin critica in Becher e nei suoi omologhi un certo classicismo da epigoni, concentrato su contenuti per lo più ideologici, tenuti insieme da un linguaggio convenzionale. Nel 1966 Mickel ed Endler pubblicano la loro antologia, che si colloca in un orizzonte anche politico. In questo paese migliore. Poesie della Repubblica Democratica Tedesca dal 1945: il titolo disegna già uno spazio preciso che, anziché eludere il doloroso tema della divisione della Germania, ne fa un saldo punto di partenza. Al di là della retorica dei «vincitori della storia», gli intellettuali tedesco-orientali hanno sentito fino a quel momento una sorta di complesso di inferiorità culturale nei confronti dell’Ovest; la produzione poetica del ventennio precedente viene invece qui considerata in grado di delineare una nuova, solida identità, sulla strada per far diventare la DDR una «gebildete Nation», una «nazione acculturata». In questo modo la lirica acquista scientemente il ruolo, piuttosto inedito, di «genere operativo», utile anche a mantenere in movimento il mondo letterario orientale, quasi paralizzato dal Kahlschlag-Plenum del 1965, il congresso della SED che fa da culmine alla campagna contro tutte le «tentazioni occidentali e moderniste»13, durante il quale vari scrittori vengono pubblicamente accusati di scetticismo, nichilismo, anarchismo, liberalismo e pornografia. La Premessa all’antologia, cui si accennava all’inizio, è funzionale a questa manovra. Mickel ed Endler affermano di aver voluto raccogliere le poesie «più riuscite» e «più forti» della produzione DDR, tramite un processo dialettico che ha messo insieme le loro – a tratti anche assai differenti – posizioni artistiche e politiche. La loro scelta cade su 2 autrici (Inge Müller e Sarah Kirsch) e 34 autori. Fra questi ci sono nomi ‘obbligati’, centrali nel canone ufficiale socialista, come appunto Becher, Bertolt Brecht, Luis Fürnberg, Georg Maurer, Stephan Hermlin; molto interessante il caso di Brecht, del quale vengono presentati testi non scontati, più o meno velatamente critici verso la realtà della Germania socialista, come Der Radwechsel, Böser Morgen, Gewohnheiten, noch immer e Kinderhymne. Ci sono diverse poesie di due grandi defilati come Johannes Bobrowski e Peter Huchel; vi sono poi Heiner Müller, Hanns Cibulka, Franz Fühmann, Günter Kunert, Volker Braun; e il gruppo di giovani del Lyrikabend, con lo stesso Endler. I due curatori sono uniti dall’idea che la loro raccolta, nella sua rappresentatività, sia in grado di «stabilire delle norme» e di fornire legittimazione al mondo culturale DDR in quanto spazio autonomo. Nello stesso tempo viene esplicitata la volontà di «risvegliare nuove domande» e la speranza di suscitare «accese discussioni» in merito alla poesia, che sappiano andare al di là delle mere questioni di gusto. Gli editori affermano di aver suddiviso le circa 160 poesie in sezioni – Presentazione, Viaggi, Treno del mattino, Incendi e Coscienza – solo dopo averle scelte una per una, sulla base dei complessi tematici che emergevano dal confronto fra di esse. Non un manuale di poesia DDR, dunque: «aber es lassen sich natürlich Rückschlüsse ziehen auf einige ästhetische Besonderheiten der hierzulande gepflegten Dichtkunst». Da un lato, appunto, viene rimarcata l’originalità, l’autonomia e il prestigio della lirica DDR; dall’altro – proprio all’interno di questa stessa originalità – si mettono in evidenza le differenze politiche con l’altra Germania. Il titolo «In questo paese migliore» costituisce già di per sé una presa di posizione, meno aggressiva e trionfalista di quanto possa sembrare a un primo sguardo: nella poesia Brief di Heinz Czechowski da cui il titolo è tratto (della quale si ha un saggio in apertura) si coglie infatti il desiderio dell’io lirico di distinguersi dall’Ovest con le sue banche, le sue ipocrisie e «l’odore di marcio degli stendardi bruciati», evidente richiamo a una denazificazione mai del tutto avvenuta; ma allo stesso tempo esso si confronta con il proprio presente, senza scansarne le contraddizioni e i dubbi, e con pacata decisione punta al collettivo, alla solidarietà fra coloro che vogliono «cambiare sé stessi», e insieme il mondo. Molto interessante, nella Premessa, è la excusatio che riguarda la difficoltà di lettura di alcune poesie dell’antologia. Anticipando le prevedibili critiche da parte dell’establishment letterario DDR, che alle poesie chiede un tono popolare piattamente comprensibile, i curatori invitano chi legge a non lasciarsi spaventare, tentando piuttosto un approccio personale di elaborazione, che sappia mettere insieme, per via associativa, la realtà storica materiale e quella artistica. È un evidente invito all’allargamento degli orizzonti, una dichiarazione di fiducia nel pubblico, e insieme nelle capacità dell’arte. Un modo per mitigare queste difficoltà di comprensione viene individuato nel giustapporre alcune poesie, funzionale all’intento esplicito di metterle in dialogo, magari anche «fertilmente polemico». Piuttosto significativo è ad esempio il caso di Das weiße Wunder (Il miracolo bianco) del già citato Johannes R. Becher e Die Wolken sind Weiß. Weiß ist (Le nubi sono bianche. Bianco è) di Günter Kunert19. Da una parte una lunga, enfatica e in qualche modo ingenua celebrazione della bellezza del bianco nel mondo umano e naturale, declinata da Becher con largo uso di artifici retorici, fra i quali la rima e la metrica; dall’altra le laconiche constatazioni della poesia di Kunert, che mette in corto circuito la promessa di pace del bianco che emana da alcuni elementi quotidiani – le nubi, il latte, il bucato – e la brutalità della battaglia imminente, ipostasi della violenza per lui intimamente connessa con la natura umana. Anche quest’ultimo aspetto emerge con forza dalla scelta delle poesie. Kunert è in buona compagnia; come lui anche Hermlin, Erich Arendt e Peter Huchel – ad esempio con la splendida An taube Ohren der Geschlechter, per la prima volta accessibile al pubblico DDR – si fanno portavoce di una concezione pessimista della storia, che non indulge a facili trionfalismi e guarda dritto alle vicine tragedie del nazismo, della guerra e della Shoah. Direttamente collegato all’antologia è il cosiddetto Forum-Lyrikdebatte, tuttora la «più importante polemica estetica e sociale che sia stata condotta nell’ambito della lirica della DDR». Nello stesso 1966, la rivista «Forum», organo della Freie Deutsche Jugend, l’organizzazione che inquadrava i giovani della DDR, propone ad alcuni poeti – Czechowski, Mickel, Endler, Cibulka e Kunert; in seguito Volker Braun, Sarah Kirsch e altri – un questionario legato ai temi di una conferenza della SED in merito alle “influenze reciproche fra rivoluzione tecnica e rivoluzione culturale”, ispirandosi esplicitamente a In diesem besseren Land. Ne nasce un dibattito serrato, che mette in luce molte delle aspirazioni che abbiamo fin qui delineato: gli autori (in particolare il gruppo della Scuola Sassone) non intendono infatti rinunciare a prendere la parola all’interno di un processo di trasformazione della società in senso socialista, rifiutando però le pastoie e le rigidità ideologiche correnti. Significativa, in questo senso, è l’ironica poesia Selbstverpflichtung (Impegno in prima persona) di Volker Braun, pendant alla più famosa Anspruch (Istanza), che si apre con un verso diventato presto famoso, «Kommt uns nicht mit fertigem. Wir brauchen Halbfabrikate», ossia «Non veniteci con le cose pronte. Abbiamo bisogno di semilavorati», un inno all’esperimento contro la “rigida routine” e contro le “ricette” che spengono i desideri. Fra le varie tematiche discusse non solo sulle pagine di «Forum», ma anche di altre riviste, come «Wochenpost», «Neue Deutsche Literatur» e «Sonntag», si distingue l’attenzione rivolta alla poesia Der See (Il lago) di Karl Mickel, oggetto di molteplici interpretazioni sia positive che negative. La poesia è un evidente controcanto satirico alla monosemia che rimanda, anche a livello formale, alla frammentarietà dell’esperienza e della lingua, non riconducibile ad armonie di sorta – nemmeno a quelle promesse dall’ideologia. Vi sono in questo senso segnali di impazienza per l’«arcipigrizia» del sistema, chiara allusione a ciò che Braun quasi vent’anni dopo avrebbe chiamato «das gebremste Leben», la «vita frenata» del socialismo reale. L’io del testo esplora un curioso lago-cranio, inquinato e respingente, per poi farlo proprio con un gesto pantagruelico, da Baal brechtiano: bevendoselo e poi evacuando l’acqua per le vie consuete, in un disturbante movimento scatologico, per il quale quel fiume è la stessa poesia che stiamo leggendo; vale a dire ciò che resta dopo aver digerito il mondo. L’accumulo delle immagini spiazza il lettore, lo costringe a riflettere sul legame fra il corpo e la Storia, sulla ripetizione coatta dei gesti (Tamerlano e la sua violenza), sulla natura – «insaziabile circolo / di cadaveri e uova» – che l’essere umano trasforma con la sua azione, venendo a sua volta trasformato, in un richiamo tanto eccentrico quanto produttivo alla riflessione marxiana. Il dibattito cessa poi – «in maniera piuttosto apodittica», secondo le parole di Heinz Czechowski – con un intervento di Hans Koch, critico iperallineato alle posizioni del regime, che considera la poesia di Mickel un affronto alla visione socialista del mondo. Ma la tensione verso l’utopia non cessa di parlare da queste liriche. ¬ top of page |
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