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STEFANO DAL BIANCO, Paradiso, Milano, Garzanti, 2024, pp. 158, € 19,00.

 

Il precedente libro di poesie di Stefano Dal Bianco, Prove di libertà (2012), si concludeva con una prosa, Essere umani, e più precisamente con questa esortazione: «Per carità, per amore, per grazia di Dio diciamolo a tutti: fermiamoci, entriamo di notte nel bosco e ascoltiamo». Si può dire che, con questo nuovo Paradiso, Dal Bianco abbia dato seguito a quel proposito. Nelle poesie della sezione eponima, che copre quasi tutto il libro (la prima e molto più breve sezione, “Appuntamento al buio”, raccoglie poesie più vicine, anche cronologicamente, a Prove di libertà), la situazione tipica è quella di un uomo che, con il suo cane Tito, passeggia per i boschi della Val di Merse, osserva e ascolta. Domina in effetti una disposizione ricettiva nei confronti della realtà circostante, guidata dall’idea che le cose non vadano tanto indagate, sviscerate per essere capite con un atteggiamento puramente razionale, ma vadano piuttosto accolte e riconosciute («una notte serena, non turbata / da silenzi fittizi e considerazioni / che premono talvolta / dal profilo umano della vita, / vita che di per sé invece insiste / a voler farsi riconoscere / in certe casuali rispondenze di colori», p. 68; «Eppure io non so se sia un mistero da risolvere / o sia semplicemente un fatto / da prendere così / come un regalo della notte / ogni volta che il cielo è coperto», p. 73). Si crea così una sorta di doppia catena. Da un lato una serie di atteggiamenti connotati positivamente, spesso legati a un rapporto sensoriale, non intellettuale, con il mondo: fermarsi, tacere (il silenzio essendo la condizione essenziale di qualsiasi vera esperienza), guardare, ascoltare, aspettare (per esempio aspettare che il cane Tito torni da una delle sue esplorazioni), anche annusare (lo fa Tito ovviamente, ma non solo: il «profumo» torna in vari momenti clou, di più intensa percezione e quasi di rivelazione). Dall’altro ci sono termini connotati sempre o quasi sempre negativamente: le parole e i pensieri che ci disturbano (anche se ci sostengono pure, come dice la poesia proemiale), il muoversi impaziente, il far entrare il «rumore del mondo» (p. 85) – tutte cose di cui ci si dovrebbe liberare.

Quanto detto non deve far pensare, d’altra parte, che Paradiso celebri una regressione aproblematica verso una natura percepita solo sensorialmente, in banale polemica con un logos demonizzato. Nel libro c’è anche molto pensiero, che però si configura come una risposta ricettiva alle immagini e alle esperienze che le peregrinazioni nei boschi forniscono alla coscienza del soggetto. Varie poesie si reggono su un meccanismo schematizzabile come una sequenza di occasione e astrazione. E cioè: all’uomo-poeta capita qualcosa, per lo più in termini di visione o di ascolto, e a questo fa seguito, magari attraverso uno stacco strofico o il ricorrente «Così», una riflessione che tende ad allargare il valore di quell’esperienza a un piano più generale. Deriva da qui la componente in senso lato didascalica del libro. C’è qualcosa in queste poesie che vorrebbe insegnarci, che vorrebbe farci rendere conto dell’importanza di una certa disposizione nei confronti del paesaggio, di noi stessi e della vita in generale, una disposizione di rinnovato contatto e di rinnovata consapevolezza. A volte tutto ciò prende la forma di esortazioni o indicazioni esplicite («A chi per disgrazia / fosse poco animista si consiglia / di prolungare il tempo della sosta / o aumentare il numero dei lanci [di sassi che il cane Tito recupererà]», p. 66), ma anche in mancanza di inviti diretti resta chiara la sensazione che qualcosa di esemplare si stia svolgendo davanti agli occhi di chi legge, così come di chi scrive. Il soggetto poetico, in effetti, condivide in parte il ruolo di discente con il lettore, perché è sottoposto agli imprevedibili stimoli del paesaggio e del cane Tito, stimoli che di volta in volta vanno saputi accogliere e comprendere. È così che la riflessione universalizzante di cui si è detto non va quasi mai disgiunta da un dubbio, da un’esitazione da parte di chi parla, che mina l’idea del possesso arrogante di una verità sicura e che si concretizza in un’attitudine interrogativa pur nell’assertività («e io mi chiedo / se fosse stato il caso / di rivolgermi al cielo / e una persona in me dice di sì / e un’altra no», p. 52).

Parlando di versi che – in qualche modo – vogliono far passare un sapere, viene in mente, di nuovo, Prove di libertà, dove l’elemento esortativo-didascalico era fortissimo. Senonché nel libro del 2012 il processo di trasmissione poteva risultare ostico sia per la componente iniziatica che lo sostanziava e strutturava, sia per la durezza delle affermazioni che un soggetto in grave crisi rivolgeva tanto al lettore quanto a sé stesso, non di rado nel vuoto astratto di un’enunciazione non localizzata. In Paradiso, invece, le riflessioni sono sempre ancorate a un qui-e-ora, a uno spazio individuato che quelle riflessioni genera, così che tra poeta e lettore si stabilisce un ‘luogo comune’ che facilita la riconoscibilità e la condivisione. Allo stesso tempo, fin dalle prime poesie della sezione “Paradiso” è chiaro che questa differenza di ambientazione non è determinata da una scelta rappresentativa esteriore, come se un certo bisogno figurativo fosse seguito alla maggiore astrazione del libro precedente. A cambiare è la condizione stessa di un soggetto che sembra avere in gran parte superato la crisi di Prove di libertà, e questo superamento è consustanziale al luogo che informa di sé la raccolta: un «paradiso», appunto. Si capisce allora come il titolo dell’opera tenga insieme almeno due ordini di significato: quello di luogo beato circoscritto (giardino, hortus conclusus) e quello di stato mentale altrettanto beato esperibile in e grazie a quel luogo.

C’è insomma una condizione pacificata che aleggia su tutto il libro, e la stessa pace sembra pervadere la lingua, mai come ora caratterizzata da una felicità al tempo stesso estatica e affabile. Da questo punto di vista Paradiso, anche per l’uniformità delle poesie che lo compongono,porta al massimo grado di fusione quelle spinte apparentemente contrastanti che, in proporzioni variabili, hanno sempre caratterizzato lo stile di Dal Bianco e che possono riassumersi nella formula della sapienza dissimulata: dall’iper-consapevolezza metrica e fonica calata in strutture superficialmente informali all’eleganza della sintassi pur in un discorso per larghi tratti colloquiale, fino a un lessico ricco di parole comuni ma dotate di notevoli stratificazioni di senso (spesso sollecitate dall’etimologia: qui il magistero di Zanzotto si avverte nettamente). In Paradiso abbiamo una versificazione fluidissima, imperniata sull’endecasillabo quanto più la forma esteriore dell’endecasillabo non appare (tra la miriade di esempi possibili si veda questa sequenza giambica in un verso lungo, quasi iconica nel portare un rallentamento rasserenante descrivendo la pace del tramonto: «mentre alle nostre spalle il sole cala e mette pace», p. 131), che accompagna ed è accompagnata da una sintassi altrettanto scorrevole, spesso ampia (diverse poesie sono monoperiodali), dove gli elementi perturbativi dell’ordine lineare suonano perfettamente naturali (cfr. inversioni come questa: «Avvicinando il naso a una di queste mai viste / infiorescenze dell’erica biancastre / che fanno ala sul sentiero non si sente granché», p. 72) e gli inserti ‘pesanti’ di una ragionatività prosastica sono come sciolti in un parlato mentale accogliente e simpatetico («Da quella parte non ci sono paesi. / Per giunta non può essere la luna / che in questi giorni è nuova / e comunque non esce mai di lì», p. 73).

Si è parlato del rapporto tra soggetto e paesaggio, del tipo di insegnamento che ne può derivare, dell’affabilità tematica e stilistica: resta da dire di ciò che tutto questo anima e tiene insieme, ossia del cane Tito, deuteragonista del libro e sua colonna portante. Anche qui è riscontrabile una continuità con le raccolte precedenti di Dal Bianco, dove la relazione tra il soggetto umano e esseri di altri regni, piante, animali, oggetti inanimati, occupava un posto di rilievo. È una relazione peculiare, fatta di attenzione ondivaga ma quasi sempre di forte investimento, di una cura che arriva a forme di amore sempre però ribadendo una distanza incolmabile, quella nei confronti di ciò che è e resta ‘non abbastanza umano’ (in Paradiso lo si vede per esempio nella poesia sulle rondini, tenute fuori casa «perché la bellezza, come tutti sanno / è una cosa che si guarda / ma non si può tenere dentro, perché sporca», p. 78). Ecco, Tito arriva alla fine di questo filo rosso, portando però la questione a un ulteriore livello di complessità, al punto che è impossibile definire il rapporto che lo lega all’uomo-poeta con cui convive e passeggia. C’è senz’altro, ancora, l’idea di cura, di apprensione paterna dell’uomo nei confronti del cane più di lui esposto ai pericoli, con i pro e i contro di un «ruolo / tanto difficile da sopportare» (p. 29), ma c’è anche invidia verso uno sguardo «all’altezza dell’erba» e dunque non «costretto a dominare niente» (p. 60), un privilegio che, insieme a quello della maggiore potenza sensoriale, fa sì che l’animale possa diventare inconsapevole maestro del suo accompagnatore. In effetti Tito sembra a volte un angelo sui generis (a differenza degli uccelli, esplicitamente e tradizionalmente definiti tali, p. 65), messaggero di qualcosa ma al tempo stesso ignaro e curioso scopritore delle forme del mondo (come qui: «I fiordalisi sul sentiero / sono l’una cosa e l’altra [l’opposizione allo scorrere della vita e lo scorrere inesorabile] / e dell’una e dell’altra si farebbero garanti, / e così Tito forse, qualora la smettesse / di correre su e giù e di tuffarsi», p. 125), e in questo più vicino al soggetto umano. Alla fine, quello che risulta è un rapporto che trascende le gerarchie e che può dirsi di parità nelle reciproche sfere di essenza, costitutivamente separate e, proprio in virtù della distanza ineliminabile, in grado di attivare una comunicazione profonda.

Ultima tappa di un percorso avviato negli anni Ottanta, centellinato e coerente pur nei grandi cambiamenti tra libro e libro,in questo ‘paesaggio con cane’ Dal Bianco sembra aver trovato la dimensione ideale per il suo classicismo, capace di tenere insieme una tradizione non spiattellata ma introiettata e la freschezza di una comunicazione orizzontale, un logos a pieno regime e il suono della lingua libero dalla tirannia dei significati, i più densi nuclei di sofferenza e la sublimazione – previo attraversamento – in una forma che diventa essa stessa natura, a sua volta esempio magistrale di sublimazione del dolore: «Sempre la sofferenza si trasforma / in qualcosa di sacro / sempre che siamo in grado di domarla / o assottigliarla come fa la terra / quando si chiama fuori / solo distribuendo i suoi tormenti / a ogni filo d’erba / perché restituisca inavvertitamente / la sua penosa pena al vento / che la libra sul prato e la trascende / come ogni cosa quando si affida al vento» (p. 84).                                                                                                                                
                                                                                                      
(Marco Villa)
                


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