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MICHELA LANDI, Quel rauco parlare: sul dantismo poetico di Vegliante

(pp. 58-60)

 

In merito alla traduzione parziale della Commedia che Antoni Deschamps aveva proposta in occasione del corso tenuto da Abel Villemain alla Sorbona nel 1830, un anonimo recensore del «Globe», scriveva:

M. Antoni Deschamps, en se prenant au Dante, a choisi le plus rude jouteur contre lequel pût s’exercer la souplesse et la force de notre langue. Aurat- il réussi à nous rendre ce coloris si brillant et si âpre, cette concision si énergique et si sombre, cette grâce si contenue, et surtout cette simplicité presque crue qui […] le rendent, selon nous, plus difficile à traduire que Shakespeare lui-même […] ?[1]

Al di là del consueto parallelo tra Dante e il bardo inglese, leitmotiv del secolo, la testimonianza, nel suo esemplare anonimato, rende conto di talune costanti fisionomiche del pensiero comparativo e traduttivo che Jean-Charles Vegliante ha qui così ben declinato riferendosi alla «memoria paesaggistica» della traduzione. In generale, intendendo la traduzione come metafora bellica: quel fantasma del corpo a corpo che da sempre anima il rapporto mimetico e rivale con l’ipotesto; nella fattispecie della Commedia dantesca ricorrendo, attraverso metafore visive o tattili, a quella figura di espressione che i classici chiamavano enèrgheia[2]: concisione e contrasto, asprezza, durezza e adamantina purezza. Come adattare queste note prerogative dantesche, si chiede il recensore, alla (altrettanto proverbiale) «souplesse» del francese (e passiamo sull’accostamento ossimorico con «force», che ha tutta l’aria di un rattrapage ideologico)? Alla «souplesse» della lingua d’oltralpe, «lingua morbida», lo stesso Vegliante qui oppone il «consonantismo marcato» e le «vocali franche, chiare, non nasalizzate ecc. dell’italiano», lingua cui riconosce, appunto, «una certa ruvidezza»: laddove il francese palatalizza, monottonga, nasalizza, spirantizza e lega, l’italiano sfodera occlusive, velari, dittonghi, geminate, affricate...

Il riverbero, nella memoria del poeta e del traduttore (di origine italiana, francese di adozione), di significanti e ritmi del primo idioma è all’origine di certe influenze di sostrato, le quali ci riconducono ad un francese più ruvido, latineggiante, di matrice-preclassica; francese che, sul modello della nostra lingua in seguito ripudiato ed epurato, non disdegnava inversioni, iati o dislocazioni sintattiche.

La sessione pomeridiana della nostra giornata di studi, che ha preso avvio con una discussione tra la sottoscritta e Jean-Charles Vegliante sulla traduzione della Commedia, ha potuto avvalersi, ed anzi dialogare, con quanto si era avuto modo, seppur sommariamente, di dire il giorno precedente a Pistoia in occasione del conferimento a Vegliante del premio «Il Ceppo» per la carriera poetica. Similmente, quanto fu detto il giorno prima ritornava l’indomani, riproducendo quel fruttuoso andirivieni tra scrittura «primaria» e «secondaria» su cui si esprime qui (e altrove) il poeta e traduttore. Lì, infatti, non era potuto mancare il rinvio all’esperienza traduttiva della Commedia; qui, non potevamo non richiamarci al Vegliante poeta, tanto i due codici coesistono e s’interpenetrano; tanto la «lettura-traduzione» va, per dirlo con il poeta medesimo, «di pari passo con la mia scrittura poetica originale».

Nella sua postfazione alla traduzione della Commedia Vegliante evoca, a mo’ di esempio della ruvidezza sopra ricordata[3], il v. 4 del primo canto dell’Inferno: «Ahi quanto a dir qual era è cosa dura…»[4], da lui ‘petrosamente’ reso con: «Ah, qu’il est dur de dire ce qu’était…». L’annominazione ben restituisce nella lingua d’arrivo la fisionomia di un verso «hérissé de dures dentales». Quello che in occasione dell’incontro fiorentino ebbi a definire, richiamandomi a una formula di Éluard[5], il «dur désir de durer» dell’opera non è forse già inscritto nel prenome autoriale: Dante, irto, appunto, di dentali? Allorché, parimenti, definisce il suo lavoro traduttivo come «définitif», seppur nella sua accidentalità («ce texte-ci, français du début du XXIe siècle»)[6] Vegliante sembra volergli conferire una dimensione incisiva, epigrafica. Senza soffermarsi qui su specifici aspetti metrici, dei quali Vegliante stesso è il miglior analista, la componente fonoritmica del testo, così centrale nelle sue intenzioni, si avvale non infrequentemente di tratti occlusivi quasi a scolpire, o scalfire, il flusso di una lingua levigata da secoli di prosa oratoria. E non si potevano allora non chiamare in causa le «rime aspre e chiocce» invocate da Dante in apertura del canto XXXII dell’Inferno[7], ricordando che l’aggettivo «chioccio» discende dall’onomatopeico klokka (fr. cloche), donde anche l’it. «chiocco» e «schiocco». Era, questo, uno tra i tanti esempi di «quel profondo ‘rauco linguaggio’ sepolto che dà il titolo – annota qui Vegliante – alla mia ultima raccolta antologica». In occasione del premio era stata presentata infatti l’antologia poetica Rauco in noi un linguaggio[8], la quale prende il titolo da uno dei componimenti della raccolta: «Affleure en nous des fois un rauque langage/d’avant…», reso dalla traduttrice Mia Lecomte con «Affiora a volte rauco in noi un linguaggio/d’un tempo…»[9]. Nella lectio magistralis accolta a mo’ di introduzione all’antologia poetica, Vegliante parla di «effet-traduction» della sua lingua, riconoscendo quest’ultimo come caratteristica peculiare di ogni scrittura con «modalità traduttive interne»[10]. D’altro canto, egli definisce quella della Commedia una «lecture-pour-traduire»[11], ribadendo così l’osmosi interlinguistica e intertestuale che caratterizza il suo lavoro. Se il francese, lingua di scrittura o di arrivo, svolge in entrambi i casi il ruolo di tenor, per usare una metafora musicale, è l’italiano che disegna, intorno a questa linea di riferimento, le sue variazioni infra- o soprasegmentali: fioriture ritmiche, foniche, prosodiche – paesaggistiche, si diceva. Un esempio di quelli che Vegliante chiama qui «testi sommersi e ritornanti dietro il paesaggio» lo si reperisce nella raccolta poetica appena citata, dove si intavola un dialogo intertestuale tra scrittura primaria e scrittura secondaria. Un segmento nominale, o se vogliamo memoriale, della sua traduzione della Commedia: «caler la voile et rouler le cordage»[12] (cf. «calar le vele e raccoglier le sarte», Inf. XXVII, v. 81) compare infatti in calce al componimento, anch’esso tra parentesi: «(Au fond de moi est un animal sauvage …)»: una mutua e silente interdipendenza s’instaura, come a far proprio l’auspicio di Beatrice[13], tra paternità e filialità, tra tema e variazione, mentre «Comme d’une personne aimée nous revient…», reca in calce un più vago, ma non meno ‘affettuoso’ tributo («Paradis, VII»)[14]. In tal caso è l’operazione di mediazione di Mia Lecomte che, viaggiando nello spazio interlinguistico a lei proprio, ricostituisce il tessuto connettivo dell’italiano, con un’operazione che ha talvolta il della retrotraduzione.

Nel suo «avant-propos» alla traduzione dell’Inferno[15], così come in occasione dei nostri due incontri Vegliante ha ricordato la filiazione – qui presente attraverso l’«albero delle traduzioni» – da un grande italianista e traduttore di Dante: André Pézard. I vividi e primigeni versi con cui questi restituiva l’animula dantesca: «ains qu’elle soit, l’âme sort folâtrant, / simplette encore à guise d’enfançon…» (Purg XVI, 85-90), sono così altrettanto vividamente resi da Vegliante: «Elle sort des mains de Qui se plaît en elle/avant qu’elle soit, comme une petite fille/qui en pleurant et en riant folâtre, /l’âme toute simplette…»[16]. In fondo, nella lingua prima, come in quella seconda si tratta, come scrive il poeta a proposito di Dante, di ricevere «sans filtre ni intermédiaire savant, le choc de pure poésie»[17].



[1]«La Divine Comédie de Dante», traduite en vers français par Antonie Deschamps, «Le Globe», 9 décembre 1829, t. VII, pp. 777-9, in Antoni Deshamps, La Divine Comédie traduite en vers français. Édition présentée par Franco Piva, Torino, Rosenberg & Sellier 2021, p. 281.

[2]«la pure invention donne son énergie de part en part et au travers d’un rythme, à l’allégorie ‘vraie’ en vue du témoignage ». Jean-Charles Vegliante, «Quelques traces d’un Dante français», postface à: Dante Alighieri, La Comédie. Poème sacré (Enfer. Purgatoire. Paradis), édition bilingue, présentation et traduction de Jean-Charles Vegliante, Paris, Gallimard, «Poésie», p. 1244. Si veda anche: Jean-Charles Vegliante, Il tradurre come ‘pratique-théorie’ nell’opera poetica e filosofica di Leopardi, in Leopardi e la traduzione: teoria e prassi. Atti del XIII Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 26-28 settembre 2012), Firenze, Olschki 2016, pp. 31-43.

[3]Si abbia a mente qui la canzone a chiusa delle rime petrose: «Così nel mio parlar voglio esser aspro/com’è ne li atti questa bella petra,/la quale ognora impetra/maggior durezza e più natura cruda…»

[4]Jean-Charles Vegliante, «Quelques traces d’un Dante français», in Dante Alighieri, La Comédie, op. cit., p. 1209. Cf. ibid., pp. 14-15.

[5] Paul Éluard, Le Dur désir de durer, Paris, Bordas 1950.

[6] Jean-Charles Vegliante, «Quelques traces d’un Dante français», op. cit., p. 1208.

[7]«S’io avessi le rime aspre e chiocce/come si converrebbe al tristo buco/sovra ‘l qual pontan tutte l’altre rocce/ io premerei di mio concetto il suco/più pienamente… » [Si j’avais des rimes âpres et fêlées/ainsi qu’il conviendrait au triste orifice/sur lequel plient toutes les autres roches,/J’exprimerais le suc de ma matière/plus pleinement…]. Dante Alighieri, La Comédie, op. cit., pp. 370-1.

[8]Jean-Charles Vegliante, Rauco in noi un linguaggio, trad. e cura di Mia Lecomte, Latiano, Internopoesia 2021.

[9]Ibid., pp. 76-7.

[10]Jean-Charles Vegliante, «Tradurre-scrivere senza tradir(si)», Ibid., p. 6.

[11] Jean-Charles Vegliante, «Quelques traces d’un Dante français», op. cit., p. 1208.

[12]Dante Alighieri, La Comédie, op. cit., pp. 314-5. Cf. Jean-Charles Vegliante, Rauco in noi un linguaggio, op. cit., pp.

78-9.

[13]Nel pensiero del poeta e traduttore è qui, come da sua preziosa indicazione in una comunicazione privata, «la parola consolatoria di Beatrice nel canto VII: la quale, secondo certo francescanesimo, prometteva la rinascita completa dei corpi». Tale rinascita «stringe in un unico nesso la modalità formativa del corpo dei primi parentes, ‘a deo immediate formati’, e l’attitudine naturale di quel medesimo corpo, ‘ex bonitate complexionis’, ad opporsi alla morte». Si rinvia qui, sempre su prezioso suggerimento del poeta-traduttore, a Paolo Falzone, Il corpo dei «primi parenti» (Pd VII, 145-148), «Bollettino di italianistica. Rivista di critica, storia letteraria, filologia e linguistica», XVII-2020, n.1-2, pp. 9-35: 27.

[14]Jean-Charles Vegliante, Rauco in noi un linguaggio, op.cit., pp. 88-9.

[15]Dante Alighieri, La Comédie, op. cit., p. 12.

[16]«Esce di mano a lui che la vagheggia/prima che sia, a guisa di fanciulla/che piangendo e ridendo pargoleggia// l’anima semplicetta che sa nulla,/salvo che, mossa da lieto fattore,/volontier torna a ciò che la trastulla». Dante Alighieri, La Comédie, op. cit., pp. 592-3.

[17]Dante Alighieri, La Comédie, op. cit., p. 11. Questo argomento ritorna nella già citata postfazione («Quelques traces d’un Dante français») dove Vegliante intende, con un apparato critico ridotto al minimo, «laisser la poésie souveraine s’éployer aussi largement qu’il est possible». Ibid., p. 1208.


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