« indietro THIERRY METZ, Dire tutto alle case, traduzione e cura di Mia Lecomte, Latiano, Interno Poesia Editore 2021, pp. 129, € 14,00.
Uno spirito solare abita i versi di Thierry Metz, editi da Interno Poesia nella nuova raccolta Dire tutto alle case (2021), tradotta e curata da Mia Lecomte. Il volume, in formato pocket, presenta al lettore una selezione di versi che coprono l’intera parabola poetica di Metz, dalle prime pubblicazioni giovanili del 1978, fino agli ultimi versi inediti del 1997. In copertina occhieggia il ritratto fotografico dell’autore: un omone dalla corporatura taurina e dagli occhi vividi, quasi spiritati, con una margherita all’occhiello della blusa da manovale. Dalle notizie bibliografiche riportate sulla quarta di copertina apprendiamo che, come spesso accade ai talenti precoci, anche la fiamma di Thierry Metz è bruciata troppo in fretta. Ex campione di sollevamento pesi, poeta autodidatta, Metz inizia a pubblicare all’età di soli ventidue anni, mentre lavora come operaio e manovale nella provincia francese. Nel 1988 la sua prima raccolta di versi Sur la table inventée gli vale il Prix Voronca. Dopo gli inizi promettenti, il tragico incidente che colpisce il figlio di otto anni Vincent segna l’inizio di una spirale discendente che, dopo anni di alcolismo e due ricoveri psichiatrici, lo porterà al suicidio nel 1997. Le cinque sezioni che compongono Dire tutto alle case sono i tasselli di un percorso di vita e di scrittura lungo vent’anni, un «calendario del saccheggio» fatto di assenze e progressive erosioni, ma anche un «cammino radioso» verso un centro eterno e mai raggiungibile: «Cerco / tramite un uomo / o una rosa / di raggiungere solo ciò che non otterrò mai, / non ho che poche parole / per riuscirvi e qualche giornata, / piccoli territori / ore accerchiate, scavate / ma senza poter ignorare il centro imprevisto / mai al centro». La scrittura di Metz – allo stesso tempo naïf ed ermetica, intima e universale – segue criteri di brevitas e immediatezza. Le poesie raccolte in questo volume – che di rado eccedono la misura dei dieci versi – rappresentano un incedere a tentoni nel buio scandito da repentine illuminazioni, nel senso rimbaudiano del termine. Non a caso, nella prefazione alla raccolta, la traduttrice sottolinea il legame delle «schegge» poetiche di Metz con la tradizione mistica francese e, in particolare, con gli Aphorismes spirituels di padre Heinrich Seuse. È questo forse il segno solare impresso come un sigillo sui versi del poeta, che scrive «a scosse», ed è «trattenuto dalla corda» che gli ha gettato il sole. E l’ancora di salvataggio che lo trattiene non può essere che la parola poetica, essendo questa il solo luogo abitabile rimasto, poiché «non si è ritirato tutto solo nella lingua». Ed è con il linguaggio – unico suo vero interlocutore – che il poeta ingaggia una lotta corpo a corpo, rigirandone gli elementi come tizzoni ardenti nel fuoco. Il suo arsenale è minimo, quasi primitivo, ma proprio in virtù di questo riesce a toccare profondità abissali: «L’uomo ha ritirato la legna / tagliato il pane. Aperto il quaderno. / Qualcosa attende. / Va scavando in lui / si incurva. / L’istante si svuota. / La giornata non è stata facile». Come scrive Mia Lecomte nella prefazione alla raccolta: «Un legame profondamente manuale regge la poetica delle case e dei libri che Metz edifica con gesti elementari e parole esatte, uniche, precipitato di sudore e silenzio». Casa-Libro-Mano-Voce-Argilla-Uccello- Foglia-Ombra-Muro-Ramo-Stella-Uomo- Luce-Fiato: sono questi i mattoni con cui il manoeuvre costruisce il suo edificio poetico, che più che a una torre d’avorio somiglia a un pozzo, in cui il poeta si trova sprofondato nella solitudine più totale: «Scrivere una poesia / è come essere solo / in una via tanto stretta / da non potere incrociare / che la propria ombra». Si tratta – attraverso la mano e la voce – di fare breccia nello spesso buio che tutto circonda, di scavare un tunnel per sfuggire all’accerchiamento. Per questo gli elementi della poesia di Metz sembrano eccedere la relazione di corrispondenza univoca tra significante e significato, e diventano le tracce di qualcosa che si è ritirato, sono il segno – luminoso – di un’assenza: «Vivere è una vicinanza / che l’avvicinarsi sposta / o allontana. / Giorno dopo giorno c’è poi questa ricerca / di ciò che si è ritirato / che non troveremo / se non dopo esserci ritirati noi stessi. / In ciò che la parola brucia». Talvolta, leggendo i suoi versi, si ha l’impressione di trovarsi su una spiaggia solitaria, e di leggervi i detriti lasciati dalla marea dopo che si è ritirata. Impressi sulla pagina sono i segni tangibili di una catastrofe, di ciò che resta dopo che tutto è irrimediabilmente crollato, «luogo d’eclisse» in cui il poeta va in cerca delle ultime possibilità del dire: «Vagavo tra le losanghe / con tutti gli alfabeti della terra / nelle tasche / e scrivevo sui muri / sui portoni / incollavo grandi lettere alitanti / come rospi / cifre color spiga / che suonavano la pietra con i tacchi / immane la fatica di dire tutto alle case / lo sforzo di estrarle dall’argilla». In questo senso la scrittura di Metz può dirsi scrittura di ricerca per eccellenza: ricerca intorno all’essenza del verbo, del linguaggio, delle cose nel loro comunicarsi all’uomo. Leggere le sue poesie è un po’ come assistere da vicino alla nascita di un fiore, o osservare un minuscolo origami prendere forma dalle rozze dita di un gigante: «Piccola sarà la foglia / e la parola così esile / là dove pizzico il quaderno / il mio sguardo sbriciolato / sa un ramo». Ed è questa selvaggia delicatezza a caratterizzare la scrittura di Thierry Metz: una meditazione sulla tragedia intessuta amorevolmente e pazientemente nell’arco di una vita. E se «l’orco nasconde le impronte / non procede che a salti» sarà compito del lettore italiano ritrovarne le tracce. La bella traduzione di Mia Lecomte – fedele alla sostanza originale del vocabolario poetico di Metz – gli sarà sicuramente d’aiuto in questo arduo compito. (Manuel Paludi) ¬ top of page |
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