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BEPPE SALVIA, Cuore, a cura di Sabrina Stroppa, Latiano, Interno Poesia 2021, pp. 208, € 12,00.

(pp. 111-113).

 

A quindici anni dall’uscita di Un solitario amore (a cura di F. Giacomozzi, E. Trevi, Roma, Fandango, 2006), volume nel quale per la prima volta era in sostanza riunita tutta l’opera di Beppe Salvia (Potenza 1954-Roma 1985), viene riproposto nella collana «Interno Novecento» dell’editore Interno Poesia quello che rappresenta senza dubbio il più importante dei libri del poeta, Cuore. Non si tratta però di una semplice ristampa, bensì di una nuova edizione, la prima filologicamente affidabile. A curarla è Sabrina Stroppa, fondandosi soprattutto sui materiali salviani adesso conservati presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Oltre cento carte dattiloscritte con correzioni manoscritte che Salvia, prima del suo tragico suicidio, aveva organizzato in un dossier preparatorio alla pubblicazione. La curatrice interviene fin dal titolo, laddove ripristina la volontà dell’autore. Gli amici avevano stampato postuma la silloge (premessa di A. Colasanti, Roma, Rotundo, 1987) con il titolo di Cuore (cieli celesti), che all’intestazione del menzionato incartamento di liriche raggruppate da Salvia aggiungeva tra parentesi quella della sua parte maggiore, Cieli celesti, appunto. La determinazione si doveva al fratello del poeta, Rocco Salvia, persuaso che il solo titolo attestato dalle carte suonasse eccessivamente sentimentale. Coglierà nel segno un entusiasta recensore del libro, Andrea Zanzotto, allacciando invece l’intitolazione all’impegno profuso nei suoi versi da Salvia per tentare di «riprendere contatto con il “cuore” del mondo». La travagliata genesi della raccolta è ripercorsa da Stroppa nell’introduzione, Tra frantumi e grande stile: il libro «Cuore» di Beppa Salvia. Il saggio introduttivo traccia inoltre un sintetico quanto efficace profilo del poeta e offre di fatto un’aggiornata rassegna bibliografica (felicemente segnalando come, anche grazie ad alcune tesi di laurea magistrale discusse a Torino e a Siena, negli ultimi tempi si sia riaccesa l’attenzione per l’opera di Salvia). Si ha poi una preziosa Nota al testo, in cui la curatrice dà conto della consistenza delle carte dell’autore, registra (integrando il lavoro di tesi di Simona Bianco) le stampe antecedenti delle poesie accolte nella silloge e giustifica i suoi misurati interventi: alla pari della princeps, la presente edizione mette a testo la lezione testimoniata dal fascicolo approntato dal poeta e rispetta l’ordinamento dei componimenti stabilito dall’indice autografo che vi è accluso; Stroppa ha tuttavia l’accortezza di emendare i testi dati alle stampe da Salvia dopo l’allestimento della cartellina sulla base della versione uscita in rivista, che pare rispondere all’ultima volontà dell’autore. Questi prolegomeni a un vero e proprio apparato critico risultano, già così, imprescindibili per chi intenda d’ora in avanti studiare – e non soltanto con gli strumenti della filologia d’autore – la poesia di Salvia. Una poesia nata e sviluppatasi tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta in seno alla cosiddetta scuola romana, ovvero nell’ambiente orbitante attorno a riviste quali «Braci» e «Prato pagano», di cui Salvia (insieme a Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Gino Scartaghiande e Gabriella Sica) era tra i principali animatori e condivideva in pieno le istanze poetiche e ideologiche. Il gruppo mirava da una parte a superare la fiammata neoavanguardistica e dall’altra a ripensare più liberamente il rapporto con i classici e la tradizione in genere al fine di ritrovare uno spazio alla soggettività lirica. Emblematici in proposito i versi di Salvia, da la mia cultura è poca e la mente fioca, reintegrati a testo da Stroppa: «(dei nostri poeti amo Ungaretti / e odio Umberto Saba. apprezzo / d’inverno leggere Montale e forse / Pasolini m’ha reso l’amarezza, / il dolore che da me a poco a poco m’aliena, / e la bellezza ho appresa da tutti / i grandi poeti della nostra lingua, / scrittori spesso senza alcuna eleganza, / tra i più antichi scrittori sulla terra)» (p. 156). Sui due periodici nominati compaiono molte delle poesie o delle serie di poesie delle tredici sezioni numerate di Cuore: Inverno dello scrivere nemico, Lettere musive, Inverno, Canzone d’estate, Versi, Ultimi versi, la ricordata Cieli celesti, Primavera, Volare, l’eponima Cuore, Ninfale, Sillabe e un’ultima di varie, cui segue un’Appendice di ulteriori due sezioni, Ore ed Estate, inserite nel dattiloscritto preparato da Salvia, ma non collocate dall’indice redatto dall’autore. Pressocché in ciascuna di tali intestazioni, non esclusivamente in quelle rematiche o di più esplicita meta-poeticità, Salvia ha a ben vedere disseminato un accenno alla sua poesia, giacché anche nelle notazioni stagionali si dovrà cogliere un tratto inerente alla riflessione incessante del poeta sulla propria scrittura, giusta la formulazione di un’illuminante prosa auto-esegetica dell’autore puntualmente citata nell’introduzione del volume: «in vita mia ho scritto versi di quattro stagioni. inverno fu la prima, e dello scrivere nemico. Venne dunque l’estate [...]. e per la primavera un semplice e celeste quadernetto, cieli celesti suo poverissimo titolo. l’autunno ahimé io non l’ho scritto. perché, come tutta la poesia grande, esso è l’implicito, sta dietro assai a tutti quanti i miei versi nella mia vita vana». L’avvicendarsi delle stagioni (con un opportuno distinguo per il costante sottofondo autunnale) va quindi di pari passo in Salvia con un cambiamento nella scrittura poetica. Cuore appare non a caso un libro davvero composito dal punto di vista stilistico, oltre che inevitabilmente disorganico nel complesso della sua forma-libro (meno per quanto riguarda le singole partizioni, in tanti casi tenute insieme almeno da un criterio metrico evidente: si vedano i sonetti o pseudo-sonetti di una sezione neo-metrica come Inverno dello scrivere nemico o, all’opposto, le poesie in prosa di Inverno). Questa grande eterogeneità, che spazia dall’iper-letterario («ottobre s’inghirlanda, s’infredda / un nuovo aire ch’è fratello all’ / occaso di quel giorno inusato ch’ora / palesa un suo destino pretto», Chiude l’alba una notte troppo fredda, p. 51) al tono colloquiale («È primavera ormai e passo il tempo / libero a girare per strada», I miei malanni si sono acquietati, p. 148), ha da sempre interessato la critica (Roberto Galaverni, Pietro Tripodo e, di recente, Pietro Cardelli nella sua tesi). Le varie parti del libro sono state ricondotte a diverse modalità della scrittura di Salvia. Essenzialmente: il trobar clus delle sezioni iniziali (professato in dal metro: «Non scriverò un sonetto di minime / armonie», p. 65), il manierismo di alcune di quelle centrali (l’intera, compatta sequenza di Versi esibisce ad esempio un profondo debito con Il sogno del prigioniero di Montale: «Prigioniero in una torre deserta, | e altre torri il comune atrio circondano», p. 91), l’inflessione verso una dolente serenità nella contemplazione di un quotidiano dimesso ravvisabile nelle postreme («viva le povere ore di malinconia», viva le lunghe ore della scuola, p. 119; «il gatto s’inchina e la coda è la luna», il gatto s’inchina, p. 124; «e le corolle dei fiori / e i fuochi e i fuchi / e i ronzi», l’ombra di rame ellittiche, p. 132; «Ma io ho nostalgia / delle cose impossibili, voglio tornare / indietro. Domani mi licenzio e bevo / e vedo chimere e sento scomparire / lontane cose e vicine», M’innamoro di cose lontane e vicine, p. 149). Un’ispirazione, l’ultima, che si potrebbe situare tra Sandro Penna e una sorta di neo-crepuscolarismo (con anche una punta di tenue maledettismo un po’ attardato, cui, per altro verso, non sarà comunque estraneo il fatto che il poeta si sia trovato a essere testimone del dilagare del flagello dell’eroina: «È presa la vena, carezzala, fa / arco col braccio [...] la lamina d’argento s’è scaldata, è / la bianca fiamma che adesso mescola / a una goccia che tersa traspare / la bianca bianca eroina, la vena / è radice il laccio la stringe l’ago / riluce brilla buca il braccio », È presa la vena, carezzala, fa, p. 71; «anche una carta stagnola che luccica», l’ombre di rame ellittiche, p. 134). È in specie a tale espressività semplice che ha finito per legarsi il nome e il piccolo culto sorto intorno alla figura di Salvia, portando talvolta a sacrificare, nell’inquadramento della sua poesia, le restanti sfumature di una gamma altrimenti complessa – forse, nondimeno, a ragione. Lo suggeriscono in qualche modo i dati messi a disposizione da questa edizione di Cuore. Il libro dimostra come Salvia fosse un poeta capace di destreggiarsi quasi in contemporanea su più tavoli, stilisticamente e tonalmente molto distanti l’uno dall’altro. La stratigrafia della raccolta fornita da Stroppa nella Nota al testo (in linea di massima: i testi iniziali si direbbero anche i più antichi, quelli delle sezioni avanzate i più tardi) invita però a leggere oggi in Cuore il documento del progressivo schiarirsi della voce di Salvia, che in quel dettato facile, eppure a tratti sollevato dalla complicazione delle precedenti esperienze (nonché sempre sorvegliatissimo nel comparto metrico), sembra infine trovare la sua autentica, sofferta cifra. Scrivendo nel 1986 della nuova serie di «Prato pagano» (con un accenno al defunto Salvia), Franco Fortini metteva severamente in guardia dalla leziosità, dall’ingenuità a suo parere finte e rivendicate astutamente da taluni propugnatori della rivista: le parole – diceva da par suo – non sono mai innocenti. Il percorso delineato da Cuore non elude una simile consapevolezza. Alla semplicità Salvia, l’io lirico che mette in scena giunge anzi passando attraverso la complessità e le antinomie del reale. Recita così una delle sue poesie maggiormente note e belle: «A scrivere ho imparato dagli amici, / ma senza di loro. Tu m’hai insegnato / a amare, ma senza di te. La vita / con il suo dolore m’insegna a vivere, / ma quasi senza vita, e a lavorare, / ma sempre senza lavoro. Allora, / allora io ho imparato a piangere, / ma senza lacrime, a sognare, ma / non vedo in sogno che figure inumane. / Non ha più limite la mia pazienza. / Non ho pazienza più per niente, niente / più rimane della nostra fortuna. / Anche a odiare ho dovuto imparare / e dagli amici e da te e dalla vita intera» (A scrivere ho imparato dagli amici, p. 145).
                                                                                                                                                               (Michel Cattaneo)


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