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 ANDREA ZANZOTTO, Erratici. Disperse e altre poesie 1937-2011, a cura di Francesco Carbognin, Milano, Mondadori (Lo Specchio) 2021, pp. 344, € 20,00.

(pp. 115-117).

 

Le numerose iniziative in omaggio al centenario della nascita e decennale della morte di Andrea Zanzotto hanno portato a diverse pubblicazioni. Molti dei saggi usciti per l’occasione compongono un deciso renouveau di studi zanzottiani che si addentrano in zone ancora poco esplorate, come lo Zanzotto critico approfondito da Matilde Manara, o l’ultimo Zanzotto che un libro collettaneo diretto da Alberto Russo Previtali si propone di cominciare a leggere in modo sistematico, o ancora lo Zanzotto Signore (anche) dei significati, che uno dei suoi critici più raffinati ed attivi, Andrea Cortellessa, affronta in un libro-mondo. Su di queste e molte altre utili letture, si stagliano due regali offerti dal poeta stesso, a ridosso del suo compleanno: un prezioso quaderno di traduzioni e una raccolta di poesie disperse, entrambi editi per Lo Specchio di Mondadori. Si potrebbe gettare un ponte fra questi due libri che ci raggiungono attraverso l’‘ultratempo’ rileggendo qualche riga tratta da Europa melograno di lingue (1995), traccia scritta del discorso di inaugurazione pronunciato ad un corso di perfezionamento di traduzione letteraria dell’Università di Venezia. In quell’occasione, attraverso il prisma del passaggio tra le lingue, Zanzotto aveva dato ancora una volta una visione forte della poesia con l’idea di una scrittura in/[come esercizio di] tra-duzione permanente di cui i volumi in questione sono i precipitati chimici. Una poesia sempre spinta da versatilità e insoddisfazione, che proviene da un imprevedibile gnessulogo: «Lasciamo pure che ci sia anche questa zona [di ‘non-definizione’], in cui sta e deve essere conservato il nostro non sapere (né chi siamo, né da dove veniamo, né dove andiamo). La poesia ci ricorda sempre questo fatto e ci porta tuttavia ad attraversare i vari strati della nostra personalità, ci spinge ad enucleare delle formulazioni, lasciando però il discorso aperto, e aperto verso gli altri e l’ ‘altro’. È per questo che […] io non sono mai stato affezionato al concetto di definitività di testo poetico. Pronunciare il ne varietur mi turba. Ho sempre la sensazione che si sarebbe potuto compiere un passo, se non anche più in su, almeno verso una certa variazione laterale interessante come quella che è stata data per centrale».

Non c’è illustrazione migliore di Erratici per questa volontà di non irrigidire mai la poesia, che rimarrà spalancata fino all’ultima raccolta del 2009, dove il movimento variantistico presente almeno dalla fine degli anni Ottanta continua a funzionare a pieno ritmo. Quella «sopravvenuta sfiducia nel concetto stesso di opera» di cui parla Stefano Dal Bianco per Meteo (1996) non è estranea a una nuova scrittura attraversata da due tensioni contrapposte. Alla pulsione architettonica che struttura le grandi raccolte degli anni Sessanta e Settanta si affianca infatti una pulsione frammentistica, di cui danno conto il testo veneziano come anche altre riflessioni critiche di quegli stessi anni. E la pratica di un’opera fluida perseguita da Zanzotto da un certo punto in poi trova in Erratici una nuova, decisiva, dimensione. Il cuore del volume mondadoriano risiede in circa un centinaio di poesie disperse che vanno dalla ‘preistoria lirica’ del poeta, (anti)datata al 1937, passando da testi gravitanti attorno alle prime raccolte e poi limitrofi alle opere successive, dalla pseudo-trilogia fino alla trilogia dell’oltremondo che ne conclude il ricchissimo percorso poetico. Da uno Zanzotto rimbaldianamente sedicenne, nonché molto pascoliano, allo Zanzotto novantenne di una scrittura geologicamente ‘alla deriva’: il ventaglio è al massimo dell’apertura. Sono «divertimenti di tempi diversi» (Sì, deambulare, da Conglomerati) che vanno dai divertissements neo-metrici o arcadizzanti – come l’ode pariniana in dialetto dedicata a Noventa o il Sonetto pseudo-elisabettiano All’inclita Nice infastidita da troppi mosconi – alle varie diversioni ma con tonalità e temi presenti nell’intera opera: dal multilinguistico al pop, dal meteorologico all’ecologico (dove accanto ai consueti paesaggi collinari trova posto anzitempo quella «Venezia Venedig Venise», già dal ’62 «squamante vampirica» all’ombra di Marghera). Il registro spesso ironico, desublimante, di molte pagine è alimentato anche da vene erotiche, o politiche, e da quella originalissima dell’uso zanzottiano del dialetto con tappe fondamentali come gli Appunti e abbozzi per un’ecloga in dialetto sulla fine del dialetto (1969-1971) e E, strac, podà su la firiada, un inedito del 1938 pubblicato poi nel 1982. Alla silloge delle Disperse fanno seguito una più esigua sezione di Altre poesie, che ripropone in particolar modo la plaquette de Il Vero Tema (2011), e infine un’appendice bipartita contenente diverse note del poeta legate ad alcune liriche e un insieme di varianti notevoli delle disperse, nell’accezione data al termine da Zanzotto stesso, che estendeva la correzione all’intero testo «concepito come momento autonomo della sua vicenda editoriale». Il tutto è accompagnato da rigorosi apparati critici e filologici, che aiutano a percorrere agevolmente questo complesso organismo stratificato. La curatela di Francesco Carbognin è all’immagine dell’attenta devozione con cui il critico ha da sempre studiato l’opera zanzottiana e consiste qui nell’organizzare con intelligenza un materiale disparato, raccolto grazie a una ricerca a tutto tondo il cui perno è l’Archivio privato di Andrea Zanzotto a Pieve di Soligo, rintracciando poesie non confluite nelle raccolte maggiori ma pubblicate nel tempo in svariate sedi editoriali: riviste, quotidiani, volumi collettivi, libri d’arte, ma anche contesti e supporti tra i più diversi che spaziano sino a piastrelle e a piatti di maiolica. Non ci troviamo quindi di fronte al recupero di resti scartati o di frammenti incompiuti (salvataggi che nel caso di grandi poeti hanno comunque tutto il loro senso), ma a un altro tipo di operazione. Trattandosi infatti in gran parte di testi che, pur non convergendo nel corpus principale, vivono di vita propria in spazi paralleli, è un’idea di opera a delinearsi nel volume. Il meccanismo di contiguità che alimenta lo sciame di incroci, contaminazioni, innesti la dice lunga su una scrittura emorragica come i papaveri (sì, ancora loro) di uno degli haiku dispersi più belli: «Ultimi papaveri / dolcissimamente emorragici, / che seguite altri pensieri, disagi – / Voi, disperse, fedeli umiltà». Il volume mette in risalto la fedeltà del poeta di Pieve di Soligo alla poesia, che non si accontenta mai della strada maestra, ma imbocca umilmente tutti gli holzwege possibili e dolcissimamente vi si (dis)perde. Il lettore zanzottiano può quindi fare la stessa cosa, immergersi in echi multiple di singole parole o interi versi della sua memoria poetica oppure osservare le cristallizzazioni provvisorie di progetti dai tempi lunghi, lo smembrarsi o agglutinarsi di testi che si intrecciano a un certo punto della loro evoluzione; come può seguire le diramazioni delle tante poesie «interlocutorie», così le definisce lo stesso Zanzotto, nel loro cercare a tentoni un orientamento ancora incerto. Interlocutorio è anche lo «sforzo di revisione del già edito» che attraversa l’opera a partire dagli anni Sessanta e che qui si fa più che evidente. Tra i mille spunti di riflessione offerti dal volume, le piste per transitarvi si moltiplicano. Si pensi alla serie giovanile: le tredici poesie che aprono il libro scritte tra il ’37 e il ’38 non saranno inserite in A che valse? (Versi 1938-1942) a causa di una certa loro immaturità, ma il denso e funebre pascolismo di queste prime e acerbe prove illumina ulteriormente la componente criptologica di Dietro il Paesaggio. Il merito poi di certi parallelismi è di far emergere contemporaneità ma anche persistenze: sono molti gli esempi di poesie pubblicate insieme a testi affluiti poi alla raccolta in corso ma che da questa vengono escluse perché ancora nel raggio d’azione della raccolta precedente (Le crudità, ancora debitrice de La Beltà, accanto a Faine, dolenzie, lòghia entrata di diritto in Fosfeni; o Pur ieri nel sole, uscita in rivista con due ecloghe ma affine alla stagione precedente, ecc). Biforcazioni di questo tipo mostrano bene la coesistenza di tempi diversi peculiare del cantiere zanzottiano di cui ottimi studi genetici (Venturi, Stefanelli) hanno insegnato l’estrema importanza. L’edificio poetico globale si rivela insomma estremamente mobile senza per questo perdere la forte natura progettuale che conferisce ad ogni raccolta una coerenza e una forma specifiche. Innumerevoli i percorsi da segnalare in questo spazio a margine: sicuramente il filone civile (dai versi di Neve rossa del 1946 all’epigramma del 2007: «Un gran bisogno in giro ora si sente / quello di un’assemblea prostitutente»); quello filosofico del Possibile sonetto di Spinoza su Borges in risposta al famoso sonetto di Borges su Spinoza o del testo in francese In margine a un convegno su Hegel a Urbino; e ancora quello canzonettistico (dalla celentaniana Veronica c’è? a Isla bonita). E proprio mantenendo un lessico musicale si potrebbe parlare di variazioni o di remake, come quello, a quarant’anni dalla capitale poesia Al mondo de La Beltà, che orchestra la graduale scomparsa di un mondo sempre più lontano, inghiottito nell’imbuto degli ultimi versi: «Con un solo verso / scomparente / Va va». Un’opera in balia di continui spostamenti tettonici, quella che ci mostra il volume, per la quale la metafora geologica si rivela pertinente ancora una volta. Come spiega il curatore, i massi erratici, sradicati durante le fasi interglaciali, si depositano altrove mantenendo le caratteristiche del luogo di origine. Erratici era anche un titolo possibile per Conglomerati, termine questo che indica la «proprietà di rocce formatesi per progressivo accumulo e sedimentazione di elementi di diversa provenienza ». Zanzotto, insomma, che già aveva oltrepassato virtuosamente il Meridiano dedicatogli nel 1999 con tre raccolte fondamentali (di cui l’ultima, quasi in un gioco di scatole cinesi, fa intravedere il tomo delle Opere Complete nella vetrina di una sua poesia) riesce un altro numero di magia, con questo libro oltre Conglomerati, grazie a una contiguità senza fine.

(Giorgia Bongiorno)


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