« indietro ILYA KAMINSKY, Repubblica sorda, testo inglese a fronte e traduzione di Giorgia Sensi, Milano, La Nave di Teseo 2021, pp. 176, € 17,00. (pp. 120-121)
Repubblica sorda è la seconda raccolta di poesie di Ilya Kaminsky, pubblicata negli Stati Uniti nel 2019 dall’editore Graywolf Press. In America il libro ha collezionato molti premi e riconoscimenti e – fatto non comune per un’opera in versi – conta già più di venti traduzioni in tutto il mondo. Il suo autore è nato nel 1977 e cresciuto a Odessa, nell’Ucraina allora sovietica; vive però negli Stati Uniti dal 1993, anno in cui è stato costretto a espatriare, insieme con la famiglia di origine ebraica, per timore di persecuzioni razziali e religiose. In un’intervista uscita di recente sul quotidiano «la Repubblica», Kaminsky ha raccontato di avere ascoltato da bambino la caduta dell’Urss con gli occhi: all’età di quattro anni, infatti, un’infezione dell’orecchio lo ha lasciato quasi del tutto privo della capacità uditiva. Nel suo libro affronta il tema della sordità da un’ottica decisamente inconsueta: quella cioè di un popolo che, aggredito, sceglie di diventare sordo per opporsi all’invasore esterno. Vediamo più da vicino di cosa si tratta. Repubblica sorda è un postmoderno crocevia di generi: fra essi i più riconoscibili sono il racconto in versi, del quale ha l’andamento, e il dramma, a cui la partizione in due atti si rifà. Vi si racconta, con toni oscillanti fra tragedia e commedia, e una forte presenza di umorismo nero, la storia dell’immaginaria città di Vasenka: a partire da quando essa viene improvvisamente occupata da un esercito di soldati che sostengono di volerne difendere la libertà e parlano una lingua che nessuno capisce. In realtà costoro mostrano fin da subito di non esser altro che uno spietatissimo esercito di invasori. Nel disperdere la gente che assisteva a uno spettacolo di burattini, un soldato uccide un ragazzino, Petya, non udente. Da questo momento in poi i cittadini, nel nome di Petya e in risposta alla disumanità affatto priva di fine e di ragione del potere autoritario appena instauratosi, decidono di non sentirci più. Sordi, dunque, per scelta. Scelta autolesiva? Resa silenziosa? Tutt’altro: «I sordi non credono al silenzio. Il silenzio è un’invenzione degli udenti», annota Kaminsky in fondo al libro. Leggendo l’opera ci accorgiamo effettivamente che la sordità diviene, per i cittadini di Vasenka, una risorsa inaudita: una strategia controffensiva. La sordità – germe di ribellione, misterioso contagio, fantasma che si sfila dalle catene – arriva perfino a mettere paura ai soldati (e a mettere in ridicolo la loro fantoccesca cattiveria). Sembrerà paradossale eppure tale sordità si configura come una reazione incoercibilmente vitale, che consente agli oppressi di riconquistare la propria dignità umana, di non soccombere, sottraendosi alla trappola tesa dall’oppressore. Ciò si realizza attraverso l’invenzione di uno strumento inafferrabile e sconosciuto alle autorità autoritarie: una nuova lingua dei segni, ideata per sostituirsi al linguaggio verbale, ormai degradato e inservibile. Per inciso diciamo che il lettore troverà nel libro le illustrazioni del sistema dei segni, a mo’ di controcanto ai testi. Repubblica sorda è un’opera ispirata da un’intensa riflessione eticomorale, avvicinabile per questa sua intonazione civile all’allegoria politica. E invero per alcuni l’immaginaria repubblica raffigurerebbe un mondo distopico nato dall’alligazione dei due mondi contrastanti (più all’apparenza che nella sostanza) conosciuti da Kaminsky, ossia l’ex Unione Sovietica e l’America. Sicuro è che Kaminsky ha voluto comporre un inno alla resistenza e un libro di rivendicazione dell’amore per la vita contro le atrocità della guerra, le oppressioni e gli abusi di potere. Questo amore il poeta rappresenta attraverso un mobilissimo quadro umano di moti, impulsi, istinti, passioni, desideri, contatti, legami – insomma tutto un complesso di vitali e indispensabili manifestazioni, in un attaccamento alla libertà che non conosce rassegnazione. Leggiamo, per esempio, questo passaggio: «Ci sarà testimonianza, ci sarà testimonianza. / Mentre gli elicotteri bombardano le strade, qualunque cosa apriranno, si aprirà. / Cos’è il silenzio? Qualcosa del cielo in noi». Impossibile individuare nella raccolta un punto di vista permanente e un centro magnetico dell’azione; al suo posto troviamo piuttosto un insieme dinamico di storie, saldate fra loro dal destino comune, il racconto delle quali è affidato ora a un personaggio collettivo, il «noi» corale dei cittadini, ora ai singoli personaggi che a turno si passano la parola e la prima persona. Vi leggiamo così la vicenda del burattinaio Alfonso Barabinsky, di sua moglie Sonya e del frutto del loro amore, Anushka, che viene alla luce al termine del primo atto (e diviene simbolo di vita contrapposto al buio della morte). Nel secondo atto leggiamo la storia di Momma Galya Armolinskaya, la proprietaria del teatro di burattini, donna tenace e senza paura, instancabile istigatrice dell’insurrezione, e che cresce Anushka senza l’aiuto d’alcuno; e ci sono poi le tresche delle giovani e belle burattinaie, che insegnano ai cittadini il controlinguaggio dei segni dal balcone del teatro, e che amoreggiano con i soldati dietro le quinte per poi eliminarne quanti più possibile. Quindi: Repubblica sorda è un’opera multiprospettica, carica di voci, vibrante di molte note di oralità. Un affascinante impasto che riesce a far presa sul lettore e a convincere; e dove anche l’aspetto metrico-formale riflette la molteplicità dei generi e degli influssi, di forme colte e di forme popolari, con il variare alternato dei ritmi e delle misure che slittano dal narrativo (oltre al verso lungo troviamo anche inserti di prosa) al recitabile, dal lirico all’aforistico. Giungiamo poi a una più chiara configurazione degli elementi principali dell’opera se, oltre a quanto detto finora, aggiungiamo il folklore e le leggende della tradizione slava, e le reminiscenze dei testi sacri, ma soprattutto un consistente grado di analogismo. Tale analogismo è legato evidentemente al surrealismo e riecheggia in modo particolare quello di Charles Simic, anch’egli emigrato in America dall’Europa orientale, anch’egli ispirato dal retaggio culturale est-europeo. Non stupirà quindi che i testi assumano non di rado un tono che confina con il favoloso. A confermarlo, fra le altre cose, l’impressione che il lettore avrà di essere introdotto in una storia senza tempo. I fatti raccontati sembrano accadere in una sorta di presente assoluto, alla confluenza di passato e futuro, memoria e profezia. Spesso e volentieri Kaminsky fa spiccare pennellate analogiche che rivelano la capacità del poeta di accostare, all’improvviso e in modo spiazzante, cose e significati apparentemente distanti fra loro. Alcuni esempi: «Cos’è una bambina? / Una pausa tra due bombardamenti»; «il vento ha già una bici tra le gambe»; «Questo corpo da cui testimonio è un binocolo da cui tu puoi guardare, Dio». Questa germinabilità figurativa spiega i termini usati dall’American Academy of Arts and Letters, che ha definito Kaminsky «una controparte letteraria di Chagall in cui le leggi di gravità sono state sospese e i colori riassegnati, ma solo per rendere la realtà quotidiana molto più indelebile ». Per questo autore il registro della visione è fondamentalmente duplice; nei suoi testi convivono immagini di morte e di nascita, d’amore e di sofferenza, in una contiguità di crudezza realistica e perfetta ingenuità, tra limpidezza dello sguardo e specchio oscuro dell’immaginazione, tra mistica e minimalismo. Da una parte appaiono dunque strofe come: «Questa è una storia fatta di caparbietà e di un po’ d’aria – / una storia firmata da chi ha danzato senza parole davanti a Dio. / Da chi ha piroettato e saltato, dando voce a consonanti che nascono / prive di protezione salvo le orecchie di ciascuno». Oppure si possono leggere questi versi: «Sali su un tetto in Central Square di questa città bombardata, e vedrai – / un vicino ruba una sigaretta, / un altro dà a un cane / una pinta di birra illuminata dal sole. // Mi troverai, Dio, / come il becco di un piccione muto, io sto / beccando / stupore da ogni lato». L’«io» che coglie certe briciole d’esistenza – la grazia è in sé cosa minuta – vuol trattenere qualcosa che documenti una «dimostrazione di felicità». È il paradosso della speranza nella crescente difficoltà del genere umano di testimoniare la propria stessa umanità. All’estremo opposto si collocano invece scene forti e cupi emblemi del pathos. Repubblica sorda soffia sul lettore un’atmosfera tetra di allerta costante, di soprusi e di violenza. Di più, vi si respira un senso di imminente tragedia – e forse anche vi è alluso il senso di una colpa, che ha del biblico. Vasenka è uno scacchiere di strade deserte; inerti burattini ciondolano appesi alle finestre e alle porte delle case dei cittadini uccisi. La morte, nelle vie, è incalzante, vorticosa. Petya giace sull’asfalto come una «mappa di ossa e valvole aperte». Sonya cade fucilata; «il corpo di Alfonso penzola ancora da una corda come un burattino al vento». Ma il necrologio è destinato a ingrossarsi spaventosamente. Servirebbe una spiegazione di tanto male: «Al giudizio di Dio chiederemo: perché hai permesso tutto ciò / E la risposta ne sarà l’eco: perché avete permesso tutto ciò? Nessuna spiegazione, soltanto la neve: «Nelle orecchie della città, cade la neve», silenziosa, sorda – il sigillo del silenzio ostinato del cielo. Anche Dio ha scelto di esprimersi attraverso un sistema di segni incomprensibile. Così la risposta è elusa, la domanda rimandata al mittente ha l’aspetto del mistero insolubile. Né sembra in grado di potersi assolvere l’individuo posto di fronte a una fatale alternativa fra due mali, uccidere o essere ucciso. Il male si accumula progressivamente, simile alla posta avvelenata di una partita d’azzardo da cui nessuno uscirà vincente. L’unica verità palesabile, come suggerisce il poeta, è questa: ammazzare è sempre e comunque brutale. Perché, il lettore lo vedrà, nessuna forza in campo è capace di conservare sempre una valenza univoca: chi subisce violenza può, a sua volta, trovarsi a compierla. In una fra le più belle e toccanti poesie del primo atto, Sonya è inginocchiata accanto al cadavere di Petya e noi leggiamo questa concentrazione di figurazioni simboliche potenti e delicate al tempo stesso: «Sonya gli bacia la fronte – il suo grido è un buco // lacerato nel cielo, fa luccicare le panchine del parco, le luci dei portici. / Nella bocca di Sonya noi vediamo // la nudità / di un’intera nazione. // Lei si distende / accanto al piccolo pupazzo di neve che sonnecchia in mezzo alla strada». La neve pare proprio cadere attraverso lo squarcio aperto nel cielo dal grido; e quel candore, visto attraverso il respiro della poesia, ammanta lo scenario cittadino sferzato dalla morte e trasfigura il corpo senza vita di Petya in un’immagine di pura grazia e di chiarezza quasi immateriale. Il grido lancinante di Sonya si è mutato nel rumore del silenzio: la cui eco pervade tutto il libro e si propaga anche oltre: in un mondo in cui l’io, Dio e ogni significato vengono insistentemente violati – ci invita a resistere, a esprimerci contro qualunque tentativo di cancellazione. ¬ top of page |
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