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GIOVANNI NADIANI, RAM, © Copyleft 2005, VWA - Vrije Woordarbeid Birandola, stampa a richiesta.
 
Sotto il titolo collettivo RAM sono riuniti i versi composti da Giovanni Nadiani a partire dal 1996, con la sola eccezione di Beyond the Romagna Sky. A leggere i componimenti di questa stagione decennale, emergono con particolare nettezza non soltanto i nuclei attorno ai quali da anni si concentra con immutata energia la scrittura poetica di Nadiani, bensì anche lo sviluppo che essa ha conosciuto, attraverso una varietà formale che oscilla tra il componimento breve e il poemetto. Quest’ultimo, tuttavia, non assume mai la misura compiuta del racconto: al contrario scaturisce dall’intersecarsi di tante microstorie, di un gran numero di istantanee che si dispongono attorno a un tema centrale (in tal senso, a cancellare l’istanza diacronica contribuisce il ricorrere del modo infinito). Nei versi di Insen (1999), il testo più denso dal punto di vista teorico, quello maggiormente composito e gravido di tessiture musicali (si ricordi quanta parte ha il blues nell’ispirazione di Nadiani), si può leggere uno snodo nell’ormai quasi ventennale lavoro del poeta. In esso sembra attuarsi appieno quella sorta di decostruzione dell’identità dialettale che Nadiani aveva già iniziato nelle raccolte precedenti. Nasce infatti l’idea di una diversa collocazione del dialetto rispetto al mondo: non più luogo di una chiusura che preservi intatta chissà quale purezza, bensì luogo aperto (parafrasando le parole di Glissant citate in esergo). Da quella decostruzione, che spalanca le porte su una terra di nessuno linguistica e culturale, ha inizio una fase nuova, rappresentata nei versi più recenti di ROM ed Eternit, fase che si può compendiare all’insegna di una esplorazione di quello stesso invel, ‘non luogo’ appunto, termine ineludibile nel bagaglio poetico-concettuale di Nadiani. Da anni, Nadiani ha deciso di saggiare in ogni angolo questo ‘non luogo’. Sul piano linguistico e lessicale, lo fa sfruttando tutte le potenzialità della contaminazione tra dialetto, italiano e altre lingue – dallo spagnolo al tedesco – fino alla creazione di una lingua bastarda («sta lèngva / bsdalena») dotata di una identità multipla, fluida. Prendendo in prestito il linguaggio  della musica, verrebbe voglia di parlare di una sorta di world dialect, di un dialetto che si presenta come un punto decentrato di osservazione del mondo, che, pur aprendosi completamente, nutre la pretesa di preservare la propria memoria. E alla memoria è intitolata l’intera silloge: la RAM, come sa ogni utente informatico, è quella parte della memoria che si perde – talvolta dolorosamente – allorché si spegne il computer. RAM sembra proprio registrare il dolore di questa perdita: quando entra in gioco, come per esempio nei ‘dialoghi’ con i vecchi (che compaiono spesso), la temporalità è sempre apportatrice di note dolenti, segnate da un contrasto tra passato e presente dal quale quest’ultimo esce in genere sconfitto. L’insufficienza del presente – «d’st temp ch’a cvé / ch’starlòca d’brisa-idei» (‘di questo tempo / che luccica di non-idee’) – sta soprattutto nell’incapacità di ascoltare il passato e, soprattutto, di immaginare il futuro, il quale viene accettato così com’è. Per contro, nei confronti del «code mixing» e della «comune convivenza» Nadiani non si abbandona alla stolida euforia di chi non vuole vedere quanto la strada da percorrere sia impervia. Nutre una speranza, ma è la speranza di chi pensa che la realtà non vada patita, bensì cambiata (non è un caso che il nome di Brecht torni con una frequenza oggi inconsueta). Nadiani è insomma un poeta che si ostina a guardarsi attorno, a descrivere il ‘non luogo’ nel quale è immerso («e’ nöstar stêr / invel»), mentre dalla sua periferia guarda passare altri diretti verso un invel differente. Per questo la sua poesia è piena di luoghi di transito – statali, stazioni, ferrovie, ipermercati –, che vengono a delinearsi come raffigurazioni allegoriche di un’esistenza mercificata e sempre uguale. Avviene così quella sorta di contaminazione visiva che fa di Nadiani uno dei nostri maggiori poeti del paesaggio, non tanto perché ne canti una bellezza perduta e inesistente, ma perché è in grado di coglierne l’identità profonda, contrassegnata in particolare dal continuo intersecarsi tra la realtà naturale (gli uccelli, emblema di una poesia d’altri tempi) e «e’ mond di cvel dla röba» (‘il mondo di cose di merci’), la realtà artificiale del computer, dell’asfalto, dei capannoni ricoperti di eternit, materiale nocivo cui è intitolata la sezione più lunga del libro. Ma il paesaggio è anche e soprattutto quello umano, composto dal muoversi frenetico di residenti nei «viléti a schiera» e di badanti slave, di «puliziot feruvieri» e di immigrati clandestini. Da sempre in Nadiani l’esperienza è soprattutto una realtà collettiva, lo «stêr insen», tan to difficoltoso quanto attraente e necessario, al punto che persino il mero dato autobiografico, pur presente, risulta diffratto all’interno di tale dimensione. C’è però in RAM, specialmente nei testi di Eternit, un continuo ricorso al tu che segna la ricerca di un interlocutore, l’ostinazione a far ‘parlare in pubblico’ la poesia. Non è detto che tale interlocutore ci sia o risponda, ma in questa ostinazione che è, a dirla tutta, un tratto ‘civile’ – sta la forza della poesia di Nadiani.
 Massimiliano Manganelli

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