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YVES BONNEFOY, Notre besoin de Rimbaud, Paris, Seuil, 2009, 455 p.
 
Di un mai sopito «bisogno di Rimbaud» testimonia, in questi ultimi anni, una risorgiva, che si manifesta tanto nei numerosi e validi esiti critici e traduttivi, quanto nella revisione filologica dell’opera rimbaldiana. Alla recente edizione delle opere complete in due volumi a cura di S. Murphy (Paris, Honoré Champion,1999 e 2007) fa seguito quella curata da un altro eminente studioso del poeta di Charleville, A. Guyaux, per la collana della Pléiade (Paris, Gallimard, 2009). Se la critica, o la traduzione, o l’edizione sono da ritenersi, sensu lato, un esercizio dialettico improntato alla «comprensione», ovvero all’appropriazione e dominio intellettuale del loro oggetto (atto attraverso cui si manifesta più o meno palesemente l’oramai notorio «complesso degli epigoni»), gli scritti («scritti», e non «saggi») di Yves Bonnefoy non posseggono, dell’atto critico propriamente detto, i requisiti essenziali. Praticando al primo grado l’esercizio di parola, Bonnefoy elegge una ristretta cerchia di autori a interlocutori privilegiati, e li invita ad un’agape in cui figura, primo tra pari, Rimbaud. Il poeta-fanciullo, novello Parsifal – folle e puro – incarna infatti il senso stesso della poesia, intesa come squarcio della vera vita nel linguaggio diafano prigioniero della storia e del concetto. E Bonnefoy si pone, nei confronti del suo iniziatore, sotto l’umile ègida della filialità: «si è figli dei propri figli, ecco il mistero» ha ricordato più volte, rievocando la mistica cristiana, e declinandola nel mondo dell’immanenza. «L’exercice de lecture, tel qu’Yves Bonnefoy le pratique – scrive bene J. Abensour nella recensione al volume pubblicata su «Le Monde des livres» del 24 aprile 2009 – est tout autant un acte poétique qu’un acte existentiel. Qu’il lise Breton ou Rimbaud, il affronte les grandes questions de notre présence au monde. Il pose concrètement que la poésie doit ‘changer la vie’». Di qui l’ammissione, nell’«avant-propos» (peritesto sempre inteso, nell’ottica bonnefoysiana, a mantenere in vita la scrittura d’ogni tempo, attraverso il confronto con il tempo del suo ripensamento): «je crains […] de n’être pas allé à la rencontre de mon lecteur avec aussi souvent qu’il le faudrait les notions claires et distinctes qui permettent, non sans de grands bénéfices, le partage rapide des apports d’un historien, d’un critique» (p. 7). Il volume, che Bonnefoy aveva a lungo meditato, e di cui esiste già un’edizione italiana a cura di Fabio Scotto (Rimbaud. Speranza e lucidità, Roma, Donzelli, 2010) si propone, come chiarisce il titolo (in parte – ci piace ricordarlo – esito di uno scambio d’opinioni che l’autore suscitò in alcuni di noi, dopo una lettura tenuta per «Semicerchio») di partecipare al lettore quello che definisce «une sorte de journal de mon affection pour ce poète». Gli scritti, già usciti in diverse raccolte a partire dal 1961 (Le nuage rouge, Mercure de France, 1992; La Vérité de parole, Mercure de France, 1988) e qui riproposti, si rileggeranno, secondo l’ermeneutica ininterrotta che anima la poesia di Yves Bonnefoy, in un contesto vivificato dal confronto con la riflessione recenziore intorno al poeta di Charleville. E si comprenderà subito che il dialogo permanente col suo interlocutore – solo cronologicamente iniziato negli anni cinquanta – dovrà essere inteso anzitutto come un «passage par soi en présence de Rimbaud» (p. 10). Si tratta infatti di farsi testimone di un’esperienza essenziale per la poesia d’ogni tempo, conseguente allo strappo accidentale praticato dalla lucidità di Rimbaud nella opaca cortina del linguaggio: ovvero della rivelazione, al cospetto del quiescente essere di parola che noi siamo, di una coscienza «trasversale» dell’essere al mondo. Coscienza del rapporto che, da sempre, la «vraie vie» intrattiene con l’esperienza secondaria del mondo come linguaggio: dato, oramai, quest’ultimo – per parafrasare un’espressione mallarmeana cara a Bonnefoy – come la più gloriosa delle menzogne. Di qui, ci sembra, la necessità bonnefoysiana di evadere dal pensiero critico, tributario del concetto e della parola-immagine, per imprimere alla scrittura la marca dell’esperienzialità, della frequentazione, della partecipazione, e, nella fattispecie, dell’«apprentissage» (p. 11). Traspare, in questa raccolta di scritti, l’esito anche formale della prerogativa che il poeta pone sotto l’ègida di Rimbaud. Attraverso quella che potremmo definire, se la psicanalisi ce lo consente, una «introiezione regressiva dell’oggetto critico», Bonnefoy recupera, infatti, la sua dimensione «d’avant le langage». In una scrittura incline al monologo interiore e al flusso di coscienza (frequente il discorso indiretto libero) è labile il confine logico e ontologico tra soggetto e oggetto. L’adozione del corsivo, diafana cortina che pur mantiene in essere il patto dialogico con l’alterità, vuole attestare l’avvenuto crollo della barriera simbolica che separa testo e citazione. Rinunciando all’atto di appropriazione intellettuale rappresentato dalle virgolette – studiosi come Bachelard ne hanno ben messo in luce le modalità – Bonnefoy auspica la fine del dominio che il linguaggio critico tradizionalmente esercita sulla parola poetica. Contrariamente al noto asserto baudelairiano secondo cui tutti i poeti diventano fatalmente dei critici, un poeta resta, nell’ottica bonnefoysiana, tale, qualunque sia la forma espressiva che adotta; diffidente verso i segni mortiferi, deserti, della parola come atto di comprensione intellettuale, lo sguardo della poesia rivendica la necessità di «rester au plus près de soi» (p. 9). E se Rimbaud, com’è noto, fu poeta integrale, non è per riconoscerne la grandezza che Bonnefoy ambisce alla sua frequentazione, bensì per eleggerlo a nume tutelare della nuova poesia; a una voce d’infanzia a suo tempo questuante egli rivolge, ora, «une demande d’aide» (p. 11) contro quello che interpreta come il catastrofico «renoncement à l’espérance» (p. 12) dei nostri tempi. «Je dois beaucoup à Rimbaud, peu de poètes auront compté pour moi d’une façon aussi essentielle», confessa Bonnefoy in apertura all’intervento che ha dato il titolo al volume (p. 15). E dunque ecco, da parte del poeta di Tours, una lettura di sé condotta con discrezione sotto la paternità rimbaldiana; con il padre putativo, e figlio d’ogni tempo, egli ha in comune la lacerazione primaria, scaturigine della poesia: il tradimento della figura materna, che lo avvia al linguaggio incarnandone la menzogna e il dolore; segue la lucidità, e il desiderio di riscatto, che è, anzitutto, pacificazione, e speranza – nell’ambito di una escatologia tutta terrena – di unità: «Oui, restons avec Rimbaud […]; qui plonge dans ces courants rapides, parmi ces nappes d’ombre, en ramènera les paillettes d’une lumière rêvée: celle que nous verrions aux matins, si notre esprit savait mieux entendre la promesse que fait le monde» (p. 409). Si segnala la recentissima uscita, per i Meridiani di Mondadori, dell’opera poetica completa di Yves Bonnefoy a cura del principale studioso e traduttore italiano, Fabio Scotto (Yves Bonnefoy, L’opera poetica, coll. “I Meridiani”, Milano, Mondadori, 2010).
 
(Michela Landi)

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