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MAHMUD DARWISH, Come fiori di mandorlo o più lontano, traduzione dall’arabo di Chirine Haidar, Milano, Epoché 2010, pp. 127, € 13,50.
 
Come fiori di mandorlo o più lontano (2005) è l’ultima opera del poeta palestinese Mahmud Darwīsh (1941- 2008). Questa raccolta segna il completamento di un lungo percorso personale e poetico, efficacemente riassunto nei versi Per descrivere i fiori di mandorlo non mi giovano/ né l’enciclopedia botanica né il dizionario…/ Le parole mi trascineranno nei fili della retorica/ e la retorica ferisce il senso/ poi loda la sua ferita (Per descrivere i fiori di mandorlo, p. 36). Darwīsh è stato il poeta più celebre del mondo arabo, conosciuto e apprezzato anche in Europa. Impegnato nella causa palestinese, all’inizio della sua carriera artistica trasfonde la sua passione politica nell’opera poetica, diventando ‘il poeta della Resistenza palestinese’ agli occhi del mondo. In questa fase la terra perduta raccoglie in sé tutto il mondo; la militanza diventa dimensione esistenziale, e l’Io del poeta espressione collettiva di tutti i profughi e gli esiliati. La Palestina è metafora del mondo, è anima trasfigurata nella donna amata e negli oggetti quotidiani che recano in sé la memoria di una perduta felicità, come nella raccolta Un amante della Palestina (1966). In seguito la poesia di Darwīsh cambia profondamente, anche per via un soggiorno all’estero in cui conosce il simbolismo europeo e di una grave malattia. I toni diventano più rarefatti, e la poetica si distacca dalla militanza politica, perseguendo piuttosto una ricerca estetica e una dimensione più universale. La Palestina è ancora presente, ma in una dimensione quasi onirica di vagheggiamento per un Paradiso perduto, come nell’opera Unidici astri sull’epilogo andaluso (1982). Darwīsh esplora poi lati più intimisti della poesia con la raccolta Il letto della straniera (1999, edito in italiano da Epoché, 2009), dedicata all’amore. Il percorso di Darwīsh si conclude con Come fiori di mandorlo o più lontano, dove la sua ricerca artistica raggiunge un equilibrio ed espande l’orizzonte poetico in una prospettiva che abbraccia l’intera dimensione esistenziale. La raccolta è una celebrazione della molteplicità come principio di tolleranza e riconciliazione, che passa soprattutto attraverso il riconoscimento dell’Altro. L’Io narrante diventa parte di un’armonia ritmata dalle prime quattro sezioni dell’opera, intitolate, nell’ordine, «Tu», «Lui», «Io», «Lei», proprio a sottolineare la pluralità dell’esperienza artistica e di vita. I ‘fili della retorica’ sono evitati con attenzione, in favore di una poetica basata sulla quotidianità e su una dimensione intimistica che fonde il poeta con il mondo attraverso l’essenzialità della parola. Nel componimento Felice per qualcosa di misterioso amore e ispirazione sono un’unica entità che riconcilia l’autore con il tempo e la vita (Io sono il mio sogno. / Nelle visioni sono la madre di mia madre, / il padre di mio padre e mio figlio, in Felice per qualcosa di misterioso, p. 46). Allo stesso tempo si avverte la necessità del poeta di distaccarsi dal mondo, forse anche per la consapevolezza della malattia che lo porterà alla morte: Nessun tempo nel mio corpo / ad aspettare il mio domani! (in Le dice: magari fossi più giovane, p. 59). La prospettiva della fine è narrata però senza amarezza, perché inserita in un contesto universale di avvicendamento, scandito dalle stagioni della natura e della vita. La consapevolezza dell’inevitabile e la compenetrazione con il mondo attraverso la parola poetica diventano anche ironia in Non conosco lo sconosciuto, quando l’autore, assistendo al funerale di un estraneo ha un’illuminazione: Il corteo funebre dello sconosciuto potrebbe essere il mio/ ma qualche ordine divino lo rimanda/ per svariate ragioni, /tra cui: un grave errore nel poema! (Non conosco lo sconosciuto, p. 49). . La padronanza del mezzo poetico è un gioco nelle mani dell’autore per disfare vita e morte con la parola. Le quattro sezioni intitolate «Esilio» sono più amare nella loro consapevolezza del mondo ma il poeta è ugualmente disposto ad accettare l’ignoto (Vivi adesso il tuo domani! Vivi quanto vuoi, / non raggiungerai il domani…/ nessuna terra per il domani, in È martedì e il cielo è limpido, p. 75). La terra qui evocata non ha nome, e nella raccolta mancano riferimenti diretti alla Palestina, tutta via presente perché sublimata nella condizione dell’esilio, come metafora della vita non solo del profugo palestinese, ma dell’umanità. L’unico poema in cui Darwīsh ritorna esplicitamente alla Palestina è l’ultimo, Contrappunto. Ad accrescere il valore simbolico, questo componimento è dedicato all’intellettuale Edward Said, morto nel 2003. Qui Darwīsh ricorda il loro ultimo incontro in una cupa New York, quando Said racconta la sua lotta contro la malattia, la crisi della contemporaneità araba e il suo continuo sentirsi fuori posto come palestinese trapiantato negli Stati Uniti. Il poema, in bilico tra commossa rievocazione e dialogo tra vecchi amici, si impernia sui temi più cari e dolorosi per Darwīsh, il legame tra identità ed esilio. La poesia ritorna l’unica difesa e speranza, in una sorta di lascito per l’umanità: In un mondo senza cielo, la terra/ si muta in abisso. E la poesia è un dono/ della consolazione […] («Esilio (4)», Contrappunto, p. 125).

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Il saluto del Direttore Francesco Stella

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