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ROBIN ROBERTSON, Esitazione, trad. di MASSIMO BACIGALUPO, Guanda 2008, pp. 169, €13
 
Nella collezione di Robin Robertson, c’è un filo montaliano che non solo è ripreso dalle traduzioni in inglese di Montale, di cui diremo tra breve, ma è tra le cifre più convincenti del poeta scozzese. Il filo, o piuttosto l’andamento di queste poesie, segue quello che da Ossi di seppia è divenuto un modo di pensare la poesia: diciamo che c’è un paesaggio, a un primo avvicinamento al testo, visto e sentito profondamente (When the day-birds have settled/ in their creaking trees, / the doors of the forest open / for the flitting/ drift of deer/ among the bright croziers/ of new ferns/ and the legible stars;) Questo paesaggio è un esterno, e anche qui la somiglianza con Montale è forte, una trama di reale che avvolge o è sospesa o in qualche altro modo legata a qualcos’altro. L’anello che non tiene dei limoni chiede un’interrogazione nel lettore: non tiene cosa? A questo punto però inizia un secondo piano della lettura che è più complesso e non sempre Robertson riesce a mantenere il rigore agnostico di Montale. Quello che è straordinario, forse impareggiabile in Ossi di seppia e nel miglior Montale è l’assenza di una risposta. Come in Leopardi, o come in Shakespeare, quello che è al di là della letteratura non chiede di essere spiegato. Tutto consiste nel presentare l’intensità delle interrogazioni, non nella risposta. A volte invece Robertson dà l’impressione di confondere certi punti di riferimento della sua vita privata con risposte. La gioia della paternità, così ben rappresentata in To My Daughters, Asleep, appare nello sguardo sulle figlie quasi soddisfacente. Per fortuna il dramma riappare in Actaeon: the Early Years. Qui Robertson, prendendo la voce del figlio, ritrova l’inquietudine che anima la sua ricerca poetica. Si ha così uno strano sentimento nel leggerlo: da un lato c’è l’ammirazione per queste poesie solide, per quello che costruiscono, non solo stilisticamente ma ancora più profondamente nello sguardo incredulo e ferito con cui il reale è osservato. Questo è il tratto più propriamente montaliano, un andare e sentire il mondo in tanti dettagli, saperlo portare nel dialogo di domande senza risposta con cui si guarda quando si cammina e si è vivi e si è pieni. Dall’altro lato però si avverte il timore che per stanchezza o desiderio di semplicità, Robertson possa ammainare la bandiera, arrendersi, e dare alla nostra lettura un senso, una risposta alle sue domande. Come in Manifest, dove l’ultimo verso dice addirittura: “Shall I tell you? Shall I tell you the secret? My whole life.” Allora perché leggere una raccolta di poesie? Perché partecipare al suo sentire se c’era un segreto che si poteva rivelare? Questa esitazione trova comunque un suo ritmo poetico nella raccolta ed è forse il senso del titolo, appunto: Esitazione. Il Robertson migliore è appunto in questa esitazione, o piuttosto nel trattenere l’interrogazione che permette al reale che ha di fronte agli occhi di distendersi e raccontarsi. Quando invece la tentazione di uscire dal dubbio lo spinge a fornire delle risposte si avverte, in lui stesso, una strana stanchezza, quasi appunto una resa, un voler chiudere il discorso, cosa ovviamente impossibile. Le traduzioni di Massimo Bacigalupo sono eccellenti, soprattutto tenendo presente il rischio che la grande influenza di Montale sul poeta scozzese poneva al traduttore italiano, e cioè di Montalizzare. Invece Bacigalupo riesce a trovare una lingua libera e fedele al ritmo inquieto e esitante di Robertson e renderne il passo metafisico e descrittivo senza mescolarlo con l’idioma di Montale che ormai è divenuto quasi una seconda natura nel fare poetico delle ultime generazioni italiane. Un’ultima nota sulla traduzione inglese di meriggiare pallido e assorto, dove purtroppo l’inglese non riesce a rendere (non è colpa di Robertson) la monumentalità astratta degli infiniti usati da Montale ed è costretto a un you impersonale che inevitabilmente abbassa il tiro, rende colloquiale quel che in Italiano ha invece un registro lapidario.
 
(Enrico Palandri)

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