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Poesia contemporanea. Settimo quaderno italiano, a cura di FRANCO BUFFONI, Milano, Marcos y Marcos, 2001, pp. 258, Euro 11,88.

 

Il tempo di una breve premessa con bilancio di legittima soddisfazione (dal 1991, 7 quaderni pubblicati, 44 giovani poeti presentati al pubblico) e si spalancano le porte del volume a sette autori nati negli anni ’60 e ’70. Di questi, particolarmente interessanti risultano Dome Bulfaro (1971) e Pierre Lepori (1968). Bulfaro nella raccolta Ossa, 16 reperti, presenta una collezione ‘fanta-archeologica’ di poesie supposte incise sui resti dello «scheletro antropomorfo di un’entità» che altri non è che «Uomo...essere cosmogonico». I testi, accompagnati da una ‘cornice’ esplicativa para-scientifica e didatticamente teatrale (si pensa alla conferenza kafkiana di Relazione per un’accademia, e, sul versante poetico, anche al Grünbein di Lezione sulla base della scatola cranica), si dispongono simmetricamente, due per ogni reperto, corrispondendo spesso ad un primo segmento ‘maschile’ una ripresa e controcanto presumibilmente «dal femminile dello stesso individuo», altrettante occasioni di adeguate combinazioni metriche. Il dettato privilegia conseguentemente il piano dell’armonia, sorretta da un lessico tecnico/anatomico aperto a (talora prevedibili) effetti espressionistici, quasi però per meglio preparare decisive sortite melodiche: «[uomo] Di quel sogno degli amanti; noi siamo; spicchio / le dita incrociate abbiamo; quale dorsale; spina ... // [‘donna’] mucchio ; non direi ; se l’intreccio a te m’avvita / luna ; danza galante ; gonna di spezia infinita / manna; ricordare sempre ; quella tua materia amata / cinghia; di pelle il cibo; contornata di prezzemolo / loto caduto ; di te non mi basta l’anima ». Pierre Lepori, luganese, forte di questa preziosa ‘italianità altra’ esprime uno slancio vitale perfino un po’ arruffato per eccesso di detriti prometeici, in quella sorta di Song of myself che è il Canto oscuro e politico, ossimorico nel titolo e nel programma che comprende infatti la «rivolta contro me stesso» ma anche il canonico progetto di «dinamitare i padri». Di gran lunga preferibile il controcanto esibito nelle altre poesie in cui il racconto di ogni singola ‘emozione’ è contenuto nei termini di disegno nitido e sicuro: «potrebbero essere un giorno e un’ora qualunque / e invece sono le sette di sera / la luce del sole radente / e il vento / e tutto è traslucido e perso». Una menzione particolare spetta di diritto anche a Massimiliano Palmese, delizioso manierista sabiano/penniano, cantore di sapide avventure omosessuali («...che la vita / non sia solo un sogno inconsistente / ma un gomito che sfioro nella folla / sotto una maglia azzurra, / che passandomi accanto mi sussurra: / – Vedi, l’estate è qua, / è questa felicità»). Gabriela Fantato (1960) trova spesso i toni di una convincente pronuncia affettiva (addirittura percorsa da alcune cadenze pascoliane), combinati ad un’esattezza (ma a volte anche eccessiva generosità) dello sguardo, e a una vena di ostentata, ingenua insouciance («di lato Alfonsine ruota sui tacchi / la sua giostra bambina», con il pendant solo apparentemente più cupo di «milano stava girata, piegata alla pancia / quasi come distratta nel morire»). Di buon livello anche i testi dei restanti poeti. Stefano Raimondi (1964), scrive un requiem dal titolo ambizioso (La Metafisica del padre), nel quale la simmetria un po’ rigida tra cura del segno e racconto del dolore («ti curo come fossi il mio alfabeto», «tieni cucite frasi e sangue»), giunge talvolta a liberarsi in una parola ad altezza della vita: «che strano quando le parole / della vita iniziano a tremare». Andrea Temporelli (1973), ancora molto legato ai dettami di una lirica che combina storia familiare e personale con struggimenti di fine gioventù, ha i suoi momenti migliori nella pratica di una fine ironia immaginativa: «Strani singhiozzi salivano a volte / dai lavandini. Un tranello da preti, / pensava, per costringerlo a pregare, / prima di addormentarsi » (vedi ovviamente Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici). Così Stelvio di Spigno (1975), che esprime un io lirico molto ancorato all’alveo della koiné poetica novecentesca (con tanto, forse troppo Montale), capace tuttavia di stendere con il dovuto ironico distacco un programma sul futuro di sapore quasi kiplinghiano: «il ritmìo sferruzzante del tram / ti porterà all’altro capo di te: il giorno che potrai, vorrai».

 

(Fabio Zinelli)


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