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CATERINA BIGAZZI

da L’impari lotta con l’angelo

poesie tra sacro ed umano

 

«Sai chi ha racchiuso il mare entro i suoi limiti,

fin dal suo nascere, quando venne alla luce?

Dov’eri quando lo fasciavo con la fitta nebbia,

lo vestivo di nuvole, gli fissavo i confini

e lo richiudevo entro porte sbarrate?

Gli ho detto: Tu arriverai fin qui e non oltre,

qui si fermerà l’impeto delle tue onde…»

 

(Libro di Giobbe, 38, 8-11)

 

Memoria (o lotta di Giacobbe con l’angelo)

 

Per l’intero nereggiare della notte,

misurarsi ad armi pari:

braccia e gambe in un intreccio

che incontro d’amore

o duello d’onore avresti detto.

No: lottammo, angelo e uomo,

da vènti contrari ed alleati,

fino a quando io compresi, e lo lasciai:

procedere da solo non potevo,

di femore infranto mi frenò,

e non soltanto: spezzato era anche

il mio cammino, senza lui.

Perciò mi benedisse, a sovrastare

ali ed intenzioni, più forte la mente

di ogni fisica forza già piegata:

poi irreale si dissolse e se ne andò,

restandomi il dolore sconosciuto

a me, non più tabula rasa:

dapprima, l’astio amaro

di non averlo visto in volto,

di non avere il suono

del suo nome sulla bocca;

dopo, la pena che mi rende uomo appena:

alzarmi ogni mattina e non aver

vittorie chiare contro il sogno,

né memoria, solo un luogo sperduto

sulla carta, o anche una parola, persa

su quel bianco che talvolta tenta.

Ma una pietra è solo un punto,

e non ricorda: è tua la voce, è tua la lotta.

 

 

Annunciazione

 

Un soffio di vento dalla finestra

che credevo di aver lasciata chiusa.

Le penne variopinte di un pavone in volo

mi sento nel respiro, e lui mi investe.

Ma c’è aria di mare, di salsedine amica

nella stanza ora lontana: e mi ricordo

di quel giorno che da sola andai a pescare.

Fu a notte che mi accorsi d’esser madre.

 

Portavi ancora sulla pietra fresca

il graffito di altri oceani, sulla schiena

la mappa di diverse costellazioni.

Ciottolo di mare, a galla rimanesti

come ostaggio, nel fondale scuro della barca.

Sembravi sul legno un segnale muto, ma

non c’era in te il livore ostile delle conchiglie.

 

Per conoscerti ti colsi: più bianco,

tra le mani, risuonasti l’eco

della tua grotta antica ed io capii.

 

Così, ora che la frase angelica mi abbraccia

io accetto e non vedo che una barca a pesca

nella notte e un sasso mio, e di nessuno.

 

 

Visitatio

 

Ora lo so, la forza era nel sasso,

non nel piede. Ciottolo che sgombri.

D’aquila la sua lungimiranza,

nel toccare il bordo della strada,

senza risuonare, senza far voltare.

È facile, dicevi: il moto più vero

è di chi è agito. Sgranavo gli occhi neri:

per me potevi essere chiunque,

e invece mi insegnavi a camminare.

«Tu non cadere, stai più eretta,

come me, che mi sostengono le sbarre,

se attraverso il fiato diviso dall’azzurro.

Tu non cadere, procedi come il sasso.

Guarda meglio, non è soltanto

pietra rotolante: è un nocciolo di legno.

Duro, inflessibile, astuto: non la pelle molle

di una mela cotogna sotto ai denti.

E può decidere il profilo di una pianta.»

Ma non c’è verde adesso, sulla strada.

«Lo vedrai: il seme non violenta il tempo,

mi dicevi, ha tenera la lingua, come me:

è una madre carcerata, se si ribella scoppia.

Perciò tace, e, se parla, inventa.

Debole la carne, fibra spenta:

ora ti nutre, e poi non ti conviene.

Ricorda, la storia sta nell’osso che scansi

con il piede. Non c’è niente di più degno

che attendere un calcio con la vita in grembo.»

Sei tu che mi visiti, Madre, che mi parli.

In questa stanza, ove si scontano le pene.

E il bambino che sussulta al tuo saluto.

 

 

Tentazione

(Mt. 4, 1-11)

 

Deserto, il locale: solo io, solo lui,

e il falso angelo curvo è al tavolo di fronte,

dal buon uomo: cameriere servizievole,

si staglia con la schiena a impedirgli la finestra.

«Che gradisce, signore? Un antipasto, del mosto

imbandito nella vita, il potere di sceglierti parole

o pepli di pane appena svolti dalle pietre, cibo

che ti impaglia gli occhi mentre lasci?»

Quello un poco pallido esitante, fissa

nel vuoto un punto di luce, un inganno.

«… Non è chiara, la sua bocca, e rispondere

non posso a un tetro invito. Non insista…»

Lo stomaco abbraccia senza affetto,

come se d’altro gli importasse, quella sera.

«Scusi, sa… sono stato un poco brusco,

e non è che non ho fame: è l’origine,

piuttosto, l’origine è più forte», e scuote il capo,

lui, non cede. Lui sa cosa lo chiama, nessun morso.

Denti in cima al legno, un conto di sale e di rinunce.

Quaranta giorni e poi quaranta notti.

E attende un’altra cena, attende in solitudine a

                                                                                     servirlo

l’abbraccio circolare degli angeli, fruscianti,

(piuttosto, quelli interi, quelli salvi).

 

 

Ricordo di piedi sull’acqua

 

Tutto apprese dai suoi: il sorriso

di pubblica pace, il lavoro paterno,

le preghiere nel cuore della madre.

Un libro aperto, viso di sola grazia.

 

Ma un gesto tutto suo non si capiva,

quella fuga nel tempio, dodicenne.

Comando dall’altrove, propria strada.

Momento che arriva per ogni genitore,

rassegnarsi al dominio degli altri.

 

E il resto lo apprese dagli altri: la rabbia,

l’amicizia, il reprimere la carne,

trovarsi una casa, il ben parlare.

Ritirarsi nell’orto a meditare.

 

L’unica cosa che agli altri non volle

insegnare: muovere i piedi sull’acqua.

Pericolo e dono. E lui soltanto.

Ricordo sublime nell’ora del dolore,

forza per rialzarsi, caduto sulla rossa sabbia.

 

 

 

 

Ikhthýs (il disegno)                              ýs

 

Mentre il dito tracciava sulla sabbia,

mai stanca la sua mente, lui vedeva

fumo e folla passata a fil di spada

 

(Veniva dolce la curva del dorso,

a quel pesce, brunito, nell’acqua:

si immergeva, riemergeva...)

 

e ora la sentiva vera, nella carne,

ora solo una statua di sale, superata,

quella guerra, e nel sogno si stupiva

 

(Le squame senza sangue guizzavano

redente dalla polvere, in chiaroscuro,

come schegge di legno ora dorate…)

 

e raccoglieva quelle ossa dentro agli occhi,

reliquie umane in cerca di sepolcro,

con la rabbia testarda dei ribelli nelle mani

 

(E pensare che presto la pioggia, con dispetto,

avrebbe cancellato quel disegno,

il sacro pesce natante senza voce…)

 

… che non solo contro l’Angelo è la lotta.

(… ma niente male davvero, per un falegname.)

 

 

Transfiguravit Rex

 

Come si guarda dietro un vetro,

nessuno a capire quel sorriso:

e vedendosi bianco-vestito

ripensò al candore dei gigli

superbi, spontanea livrea superiore

certo al manto di un re…

In cambio, una tunica lisa,

giocata d’azzardo coi dadi,

dopo, nuda statua di sangue

e sudario; ma ora sovrano…

No, non avrebbero capito:

neppur per vanità, per vetrina,

si può accettare tanto.

Meglio sorridere e in alto

sul monte levarsi, come in volo.

Avrebbero, forse, adorato

il bianco re, trasfigurato.

Ingabbiato, in una tenda.

Poi, come un giglio, giunta sera,

chinare il capo, nello specchio.

 

 

Getsemani blues

 

Ovunque

streghe

dalle dita adunche

tra i rami dell’olivo stanco

e tu macchia povera

di bianco

se stagli

contro il cielo

bui ritagli

non sei mica

ancora intero,

scorza sotto il velo,

prigioniero

legno e vite

di corteccia

e se il calice non bevi

resti freccia,

lenta,

inconficcata

persa qui nell’orto,

addormentata

promessa redenta.

La folla svelta

non ti aiuta.

Non è umana

la tua scelta.

E neppure col distacco,

non è chiusa questa pace.

Per lunghi boschi l’ombra

inghiotte e tace.

 

 

Ecce Homo (Klinamen)

 

Epidermide esperta,

quanto di te

da te sola sai

risanare?

Tu cui non basta né amore

di donna, né tarli.

E i treni squarciati,

in quale accidente o binario

salvarli?

È il caso che vuole attentati

duelli fraterni o schianti al motore?

E le strade dai nomi non nati?

O le cellule pazze in agguato?

Prevedere io posso

quell’attimo solo di bene

sul quale mi estendo,

l’occhio custode a diadema…

il resto è caso, klinamen.

Risalire al fiume, non sfuggo:

anch’io in quel passaggio stretto

ho posto il capo.

Ma neppure una goccia

andrà persa

del succo dell’uomo,

dall’abbraccio che costa, al costato.

Dove io sia, domanda la gente,

io più vero del vero,

nascosto, criptato,

sconosciuto a me stesso,

un genio impotente:

io non Re, ma Ecce Homo,

ecco, ho sanguinato.

 

 

Sotto la croce

 

Tremo ogni volta, quando vedo

quella donna con la testa tra le mani

come a nascondere il sole- diresti, quasi sotto la sua croce

se croce non fosse, oramai,

un gesto del quale vergognarsi

scandalo, l’amore, quando è vero.

E non si indaga tra le spine- senza nome, quel dolore

e se non so di che colore ha gli occhi

come posso soffiarle tra i capelli

con la voce, canto d’allodola

a dissetarle un tempo riarso,

che le accartoccia i lembi come foglia?

L’ingombro della veste

si fa manto senza stelle,

statua di sola pelle.

Quant’è vero che il pianto

non traspare, se non urla:

le braccia, giunte a terra,

dimenticano e ricoprono.

E mi somiglia, come simili sono

le ciliegie che perdono sangue di giugno.

Istintivo turbamento, il suo chinarsi,

e abbasso il volto anch’io

bloccata nell’attesa che si alzi.

Tante cose di lui non ricorda

- la luce del mare, a piedi nudi -

tante cose non conosco,

in lei, e sono mie.

 

 

Resurrexit (sudario)

 

La pietra che pesa chiudeva

l’entrata della grotta

stamani è rotolata via.

 

Entrano in coda i turisti

con potenti lucerne

e l’immancabile guida.

 

Ma non graffiti rituali

alle pareti, né cacce di bisonti,

punte di lancia, o tonde statuette.

 

Lo avresti detto un tempio

profanato, un’archeologica

tomba già svuotata.

 

Solo visibile, in un angolo,

piegato da mani di donna?,

un bianco lenzuolo deposto.

 

Un deluso sudario di lino

non chiama i curiosi,

non lascia documento.

 

Escono in fila i turisti,

ormai sazi di reliquie,

di antri e di ciclopi.

 

L’alba radiosa, un mattino come tanti:

l’impronta del volto e del sangue,

quella, è solo dentro.

 

 

Caterina Bigazzi è nata a Firenze il 12 aprile 1975. Lavora per la redazione di una casa editrice fiorentina e collabora con associazioni culturali e con la rivista di Poesia Comparata «Semicerchio», dove ha pubblicato i suoi primi testi. Autrice di Servono Mani alle cose vive (Milano, Prometheus 2003), nel 2004 è stata inclusa nell’antologia Nodo sottile 4, edita da Crocetti.


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