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« indietro LA FISICA DEL SENSO
di Cecilia Bello Minciacchi, Fabio Zinelli
Cosa possono avere in comune un pensatore avvezzo a un verbiage scintillante e alle acrobazie concettuali come Jean-Luc Nancy e il concretissimo Giovanni Raboni? Del secondo, l’autore del volume La fisica del senso, Andrea Cortellessa (n. 1968), tra i critici italiani della sua generazione quello che vanta la gamma di interessi più ampia, ha curato un’antologia degli interventi consacrati alla lirica italiana intitolata, con formula raboniana, La poesia che si fa (Milano, 2005), in omaggio al programma di tenere ben distinta la poesia come «inservibile astrazione dalla poesia come bene reale, concretamente fruibile e godibile» e di «rimpiazzare il fantasma della poesia con la poesia in carne e ossa». Per Nancy, se la filosofia è «praxis del pensiero», la letteratura non ne differisce affatto in quanto cerca una «sensibilità e una sensualità del senso». Ora, l’incontro di entrambi sotto la bandiera della fisicità della scrittura è reso possibile in virtù di quello che Cortellessa stesso chiamerebbe, molto ‘fisicamente’, un gesto concettuale, l’accostamento materiale di due espressioni di pensiero lontane, ma combinabili in nome di uno stesso fine. A chiudere la triangolazione, appoggiando la figura sull’angolo ‘sensista’, è convocato Leopardi (un Leopardi, per così dire ‘secondo’, perché a sua volta nell’atto di citare): «L’intelletto umano è materiale in tutte le sue operazioni [...] Così accade in certo modo riguardo allo stile e alle parole, che sono, come ben dice Pindemonte, non la veste ma il corpo dei pensieri» (Zibaldone, 13 settembre 1821).
Si vede bene qui una delle mosse tipiche del procedere di Cortellessa: congiungere testi e autori diversi in un montaggio (nel libro tale tecnica si declina come sovrimpressioni, triangolazioni, immagini dialettiche) volto a creare un clash concettuale di cui risalti il carattere non intuitivo ma ‘costruito’. Non c’è dubbio che – per quanto riconducibile anche a un uso dialettico, per non dire ‘diatribico’ della citazione come schema di organizzazione e aggressione critica nel contesto orale di un dibattito, genere che vede Cortellessa nei panni di un instancabile, ubiquo animatore: il viaggio critico infatti è anche Viaggio in Italia – si tratta dello stesso procedimento della parodia descritto, nei termini del ‘convocare in dialogo la parola altrui’, nel saggio consacrato a tale ‘istituzione’ e dedicato a Pagliarani (maestro del genere per gli Epigrammi ferraresi). Le pagine di Explicit parodia funzionano dunque come una vera e propria mise en abîme della tecnica del ritaglio che rende la parola bivocale, complice e insieme disponibile come ulteriore materiale di edificazione per fondare un testo nuovo. È qui però in gioco, nella scrittura del critico, che può considerarsi «in primo luogo invertire segni» come scrive Ottonieri a proposito del fare versi, il dovere di spingere questa operazione ‘di plastica’ oltre l’orizzonte di un agire critico post moderno, oltre un’applicazione della critica come quella di un reattivo. L’elaborazione perseguita tende piuttosto ad allinearsi a uno dei fini pratici della filosofia secondo la coppia Deleuze-Guattari (Deleuze, ricordiamo, autore fetiche del Cortellessa) che indicavano come condizione sufficiente e definitoria del fare filosofico la costruzione di concetti. L’efficacia operativa del critico risiede nel costruire e montare il più saldamente possibile dei concetti. Deve farlo rapidamente per intervenire a caldo nella discussione, e in questo senso Cortellessa non solo per il viaggiare attraverso ‘il territorio’, di cui si diceva, ma anche per il numero delle collaborazioni a giornali e riviste e a trasmissioni radiofoniche rappresenta un caso tutto sommato unico di esposizione del critico alle dinamiche in atto nel lavoro culturale. È probabile che, dal punto di vista compositivo, la scommessa più difficile del volume sia stata proprio questa: la gestione del raffreddamento dei concetti, il riorganizzare nella forma libro pensieri nati per l’azione.
Se queste ultime indicazioni servono a mostrare il senso di una strategia, dobbiamo ancora sottolineare che lo sforzo sviluppato da un tale modo di procedere è notevole. Al sommo dell’edificio costruito a blocchi compatti e con l’impiego di materiali disparati (per il riferimento continuo a letterature altre che l’italiana e ad arti altre che la letteratura) sotto l’occhio vigile dell’architetto che conosce la logica del disegno, troviamo dunque piantata la bandiera della fisicità. Ci si deve allora soprattutto chiedere: quali sono le conquiste rivendicate? Sul piano operativo, il terreno più saldamente acquisito sembra essere quello di un nuovo modo di leggere: «leggere una poesia equivale a entravi in contatto: fare esperienza del suo senso in quanto inseparabile dalla sua verbalità. La lettura di una poesia è una sua verifica tattile, un’attivazione sensuale. È una vera e propria fisica del senso». Il libro funziona in quest’ottica come una ‘macchina per leggere’, il cui fine non è solo il legittimo «piacere di interpretare, sciogliendo le pieghe della scrittura», né soprattutto il versante più ‘reazionario’ del plaisir du texte, quello per cui il lettore, fattosi asociale, legge in uno stato di deriva perenne, bensì quello assai più ambizioso di considerare il testo come un corpo. E corpo è qui certo da intendersi, stante l’esistenza di scritture di genere body-writing (analizzate nel saggio Io è un corpo, di cui si dirà), come recettore di pratiche testuali somatizzabili, ma soprattutto, a norma di quanto dice Jean-Luc Nancy (senza dubbio altra anima pensante del libro, citatissimo è Corpus del 1992), come estensione comunicativa verso il mondo, il che ne fa carne politica: «L’assunzione ultima del corpo significante è politica [...] La fondazione politica riposa su quest’assoluta circolarità significante: la comunità deve avere il corpo come senso, e il corpo deve avere la comunità come senso», o ancora: «è da questi corpi, da noi, che la politica deve ricominciare».
In che modo tale discorso, ancora situato su un piano metaforico, cerchi di evitare che la ‘macchina per leggere’ sia solo la forma-progetto di una irrelata machine célibataire, e ambisca anzi a trasformarsi in ‘macchina da guerra’, corazzata dell’intervento militante, risulterà forse più chiaro da una descrizione, seguendo l’indice, del volume. La premessa è di tenore apologetico (Le mani avanti), una Defense of Poetry che ricorda ai delusi, agli sfiduciati e alle Cassandre come la «scrittura in versi sia la più viva in circolazione da queste parti, oggi». La premessa, lo vogliamo ricordare, ricalca in buona parte il testo di apertura dell’antologia ‘a più mani’ Parola Plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, Roma, Sossella, 2005 di cui Cortellessa è stato il principale animatore (vedi P. Pellini in «Semicerchio» , XXXIV, 2006/1, pp. 49-52), aggiungendovi una presa di posizione rispetto a una delle tesi del libro di Guido Mazzoni circa il declino della poesia contemporanea, «sistema isolato da altri campi del sapere e disgregato al proprio interno», spezzatosi il filo di un antico mandato sociale del poeta, tesi ampiamente discussa nel presente numero di questa rivista. L’apologia allora, dopo avere derogato, in omaggio al genere, all’ostensività testimoniale del proprio lavoro, citando il ‘terribile’ (ma così attachant) Francis Bacon «la sola cosa che rende qualcuno interessante è la sua dedizione» (come il Sereni di I versi: «se ne scrivono ancora»), punta subito su uno dei motivi guida del libro: il concetto di ‘minorità’ («E la scrittura in versi è, di questo microclima in perenne pericolo di esaurimento, sineddoche privilegiata: ancora più debole e appartata, irriducibilmente minore»), concetto subito ripreso nell’Introduzione vera e propria intitolata direttamente La lingua minore. Il vantaggio della ritirata ‘tattica’ della poesia nel ridotto della sua condizione minore (intendendosi ormai per poesia quella appunto che si fa, vale a dire tutto l’indotto della poesia con quanto le gira attorno in termini critici e editoriali) non è forse completamente estraneo all’idea di una certa correcteness identitaria del ‘piccolo è bello’. Oltretutto, nonostante la larghezza dei riferimenti culturali addotti, è di poesia italiana che qui si parla e dunque di un prodotto letterario appartenente alla sfera di una lingua minore, così che il movimento dell’arretrare per meglio avanzare servirebbe a sancire i ‘diritti civili’ dell’area protetta. Ma se di movimento si tratta, ci sembra piuttosto quello di una falsche Bewegung, una mossa per spiazzare l’avversario. Minore è in realtà una vera e propria indicazione di ‘poetica’, tradotta infatti in alcune scommesse che sono, come diremo, davvero non correct sul piano del canone degli autori. Minore è anche la coscienza della consapevolezza fisica dei limiti del linguaggio, che una volta acquisita pone un autore nella condizione di chi, come scriveva Beckett (citato dal Deleuze di Critique et clinique) in una lettera a Axel Kaun, si trova a «fare dei buchi nel linguaggio» per vedere «cos’è nascosto dietro». Lo scrittore con la trivella in mano è una magnifica gag che dice fino a che punto si possa essere stranieri all’interno di una lingua: perché la lingua è sempre qualcosa d’altro che sta sotto la pelle delle istituzioni, il dialetto, in senso proprio, geografico, o come crittografia dell’inconscio, la faglia naturale, per dirla con le parole dell’amatissimo Zanzotto, sottostante alla lingua. Inoltre, in termini effettivi, scrivere la propria lingua come una lingua straniera, pratica sottesa come sanno i buoni italianisti a tutto il lavoro di Pascoli (ed è sempre un po’ straniante citare il piccolo Zvanì alle punte dell’avanguardia, lui che non seppe cosa rispondere a de Saussure che gli chiedeva lumi sulla struttura per anagrammi della lingua poetica, eppure dopo la lezione di Contini, vale per la portata ‘europea’ del poeta di san Mauro, il, qui citato e chiosato, saggio di Agamben, Pascoli e il pensiero della voce) dove il sommerso e rimosso riemerge in termini appunto di glossa, vuol dire un acquisto di libertà impensato, vuol dire inventare una lingua, ricercare. E infatti si ha l’impressione che questa costruzione di poetica, una delle più riuscite del libro, valga in buona parte per definire la scrittura di ricerca, categoria su cui torneremo, soprattutto a riscattarla, nel momento in cui la si preferisce, come si vedrà, all’idea d’avanguardia, da ogni possibile accusa di ripiegamento ‘intimista’ su fenomeni di inconscio, sia pure linguistico, privato o strettamente comunitario. Se vogliamo trarre un’indicazione da questo stesso nodo di poetica, per quanto riguarda strettamente l’esercizio della critica, diremo che quanto sembra qui essere messo da parte è l’idea secondo la quale ‘lo stile è un modo che l’autore ha di conoscere le cose’, quella che insomma regge la migliore critica stilistica, dalle origini idealistiche, agli strutturalismi continiani, alla sua tentata ripoliticizzazione in Mengaldo. L’armonia del mondo sptizeriana è cessata per interruzione del continuum di visione del mondo e di lingua, così che è la conoscenza (parziale) delle cose a doversi ora trovare uno stile, nel catalogo (questo sì post-moderno) degli stili possibili. Si chiami a questo punto uno ‘stile’ una ‘lingua’, per nostalgia di una totalità ‘comunicativa’ perduta, una lingua sia pure minore, e si sarà d’accordo sulle possibilità per il critico e per lo scrittore di condividere i due lati della stessa ricerca.
A questa che è la soglia del libro, seguono due partizioni maggiori, entrambe intitolate a La tradizione del futuro (si noterà il possibile rinvio del sintagma, ribattuto in posizione di titolo corrente per buona parte del libro, al Mengaldo di Tradizione del novecento, qui necessariamente fruibile, con ovvia distorsione, nei termini di futuro del novecento), funzionalmente divise tra una serie di saggi già pubblicati in sedi diverse e qui ritoccati in forma di altrettanti Diorami volti a definire il bellico ‘teatro delle operazioni’, e una Galleria di ritratti critici cui segue, prima dello Schedario (accurato repertorio bio-bibliografico degli autori inclusi con bibliografia critica), EXTRA/VAGANZA, un’ultima composita forma ritratto.
Il primo e il secondo dei Diorami (Da Nettuno a Saturno. Venire dopo il 63; Uno sguardo postumo) sono dedicati all’avanguardia, alla nozione in senso lato di avanguardia e alla sua espressione storica nella neoavanguardia italiana, esperienza di cesura connotata da una non del tutto ovvia «irreversibilità», tanto da non passare priva di conseguenze neppure su autori come Zanzotto, Pasolini, Sereni e Montale, non esclusi Fortini e Raboni. «Così innovativa e al contempo così ‘istituzionale’», la neoavanguardia appare nei due saggi di Cortellessa come una ‘condizione postuma’, giusta la legittimazione ‘apocalittica’ di Sanguineti che nei Novissimi vedeva, in senso estremo, i nuovi e gli ultimi, e additava, dopo di loro, il diluvio, ma giusta anche, oltre alla doverosa (e ‘filiale’) menzione del Savinio della Fine dei modelli, una parabola palazzeschiana che con la consueta arguzia ammonisce su quanto sia importante saper rompere lo stampo: «quando una cosa è bella e fatta bene e vi piace, prima cosa da fare sarebbe di fuggirla per farne una differente se aveste davvero in corpo lo spirito della creazione». Viene così fondata la tradizione del futuro di cui si diceva, che è un modo per «non farsi sorprendere dal futuro», per giocarlo d’anticipo, e proprio in questo costituisce una delle vocazioni di un critico che predilige l’esemplarità sperimentale e plastica di Pagliarani e di Porta e che legge con particolare attenzione alcuni formidabili ‘esclusi’ o extravaganti dalla neoavanguardia: Edoardo Cacciatore, Giuseppe Guglielmi, Emilio Villa.
Con il saggio Per limina, vengono riprese le proposizioni teoriche sulla lingua minore. Le premesse sono qui volte in storiografia, in modo da isolare tre possibili ‘categorie’ di minorità della lingua. Una è definita come il pensiero della poesia e tocca con una rapida serie di ritratti (si va da Edoardo Cacciatore, Cesare Greppi, Lucia Sollazzo, a autori di cui il critico è stato ‘fiancheggiatore’ come Marcello Frixione, Gabriele Frasca, Tommaso Ottonieri), vari aspetti di quella speciale forma di ‘pensiero in versi’, definibile, per le particolari strategie di una retorica tanto ermetica quanto rivolta a conquistarsi una forte evidenza sensoriale, come barocco gnoseologico. Segue la famiglia delle lingue minori, che comprende: le varie realizzazioni dei dialetti letterari (con occhio di riguardo per lo sperimentare di Calzavara), gli esperimenti di mescidazione che hanno trovato una focalizzazione importante nel lavoro ‘post-neoavanguardista’ della rivista Baldus, l’esplorazione di quanto c’è di nonsense e di witzig nella lingua (attorno all’opera di Milli Graffi e di Emilio Villa). Ultima categoria è quella della poesia in prosa (non ‘verso la prosa’) come forma del limite (perché forma oltre la forma, forma delle forme). L’individuazione di una ‘linea’ che va da Giampiero Neri, a Cesare Greppi, a Cosimo Ortesta si incrocia all’osservazione interessante di come tale linea nasca sul versante di quella parte ‘francesizzante’ della letteratura italiana (ormai, come le sue consorelle, sempre più orientata verso le letterature di lingua inglese) che arriva fino a Sereni e Magrelli e proprio sull’esperienza della ‘prosa’ di Char e di Ponge. Si noterà come, rispetto alla redazione originale del saggio, apparso in un numero speciale della rivista «Anterem», quest’ultima parte risulti innestata a partire da un intervento apparso sulla rivista francese «Po&sie», mentre risulti ‘alleggerita’ proprio la parte dedicata agli scrittori gravitanti attorno al laboratorio della rivista veronese (forse per il fatto che il ‘pensiero della poesia’ possa apparirvi come innamorato eccessivamente del proprio mistero?).
Dopo il già citato Explicit parodia, si legge Touch. Io è un corpo, un articolato attraversamento di testi rispondentisi sui pur diversi piani della corporalità, già apparso in Parola plurale. La struttura del saggio, che è uno dei più innovativi del volume, è persuasivamente circolare: si apre nel segno di Artaud e di Deleuze (ovvero nel bisogno di «credere alla carne» e nel «bisogno di ragioni per credere in questo mondo») e poi nel segno di Artaud e di Deleuze (la poesia come il teatro – può far «scoppiare gli ascessi collettivi» e «la letteratura è salute») torna a chiudersi, dopo aver individuato molteplici ‘funzioni’: dalla «‘funzione Artaud’ non del tutto sovrapponibile alla ben più storicizzata ‘funzione Sade’», alla ‘funzione Porta’ con l’opposto versante, di derivazione pasoliniana, della teatralizzazione non del corpo vero e proprio quanto del Personaggio-Poeta, alla ‘funzione Pagliarani’ del corpo teatralizzato come «emittente concreta, strumento musicale, quasi», fino a «una (del tutto ipotetica e, per certi versi, paradossale) ‘funzione Rosselli’» a cui è fatta risalire quella linea del decentramento (o anche stortura) dell’io o del soggetto ‘a pezzi’ percorsa da Jolanda Insana e Cosimo Ortesta. In relazione al corpo esposto, l’Io può cadere in epoché – si guardino il Trittico della Ballata di Rudi e le prime prove di spossessamento dell’io di Rosaria Lo Russo – o può essere recuperato alla dimensione politica per via di una ri-sessualizzazione di repertori letterari medievali, di una insistenza fagica quando non di una autentica «ossessione ventrale», come avviene in alcuni testi del Gruppo ’93 o dei genovesi della rivista «Altri Luoghi». Lo sguardo sul corpo è sguardo di Narciso, non solo passivo ma anche riflessivo – in Valerio Magrelli soprattutto sguardo rivolto in interiore homine –, o è proiezione nella retorica del l’esibizionismo – in Patrizia Valduga «utopia di una pura esteriorità» –, o, ancora, è «notomizzazione scopica del soggetto lirico» secondo quella attitudine che Cortellessa definisce «autopetrarchismo». Attraverso una ‘funzione Beckett’, quella del «divenire resti» – rinvenuta in Elisa Biagini malgré elle, e molto propriamente individuata, invece, in Giuliano Mesa e Gabriele Frasca –, protesa al recupero di una «restante ipotesi di communitas» attraverso il corpo – ovvero il resto «penultimo» che tutti in fine ci accomuna – possiamo mutuare qui il passaggio all’ultimo dei Diorami, intitolato Dopo la cittadinanza. Poesia incivile. Il saggio che chiude la prima parte della Fisica del senso deplora l’enfasi retorica di certo «engagement didascalico», altisonante e vacuo, e afferma con forza l’inadeguatezza della dizione di poesia civile, poiché «il nostro tempo non può più illudersi di coltivare la parola come fiero atto di cittadinanza», data la attuale mancanza di appartenenza rilevata da Agamben (forse il più intimamente ammirato tra i maestri in praesentia finora evocati, perché quello che ha saputo leggere di più dentro la letteratura?) che considera la figura del «rifugiato», del migrante, dell’apolide «la sola categoria nella quale ci sia oggi consentito intravedere una comunità politica a venire». Senza cittadinanza significa, allora, in-civile. Qui il concetto di ‘popolo a venire’ e il concetto di ‘minorità’ trovano la loro coesione, e il circolo si chiude: per quello che in termini deleuziani è il «popolo che manca» non si potrà che scrivere in modo barbaro, vale a dire balbettando una lingua che non è la propria, lingua altra, minore, o anche lingua del trauma (Celan) e della negazione, dunque propria ed estranea ad un tempo. Forse questo, nella sua proiezione, o meglio tradizione al futuro, è il migliore, il più ‘eroico’ dei saggi di Diorami.
Si apre quindi la galleria dei 56 ritratti (in questo caso le fonti principali sono Alias supplemento del Manifesto e la citata antologia Parola Plurale, e si tratta quindi a volte di recensioni di singoli libri, a volte di ritratti a tutto tondo). Essa non costituisce comunque un vero e proprio canone: per esplicita ammissione non vi figurano tutti gli autori che sarebbero inclusi nel Canone che nel «sogno o incubo di completezza» si imporrebbe invece in sede antologica o di storia letteraria. Restano infatti fuori nomi importanti come Volponi, Spatola, Roversi, Cavalli, o il molto ‘in sintonia’ Franco Buffoni. Il ‘criterio’ è dunque, in parte, quello dell’occasione: molti assenti, come quelli citati, lo sono per non avere il critico scritto sufficientemente su di loro pur giudicandoli «fondamentali a una certa idea di poesia». Soprattutto, si pone in rilievo come la puntualità di ogni intervento rispondesse a un preciso kairós: il tempo opportuno all’azione. Il primo gruppo degli inclusi, quello delle generazioni che hanno esordito o si sono formate a cavallo della guerra (il 1940 del titolo), si fonda su alcuni pilastri: a partire da Sereni, che è in tutti sensi un’annessione, poiché in lui la poesia civile nasce nel segno ‘minore’ di una ‘non militanza’ (Fortini già si preoccupava di recuperare Sereni ‘alla sinistra prima che ci pensassero quegli altri’). E si potrebbe parlare veramente, per quanto non battezzata come tale, di una ‘funzione Sereni’, proprio per il fondo civile della poesia, ed è una funzione che porta almeno fino a Magrelli e serve a cementare l’ala ‘destra’ o meglio, intrinsecamente borghese, dell’avanguardia, rappresentando nel suo modo migliore la possibilità di una politica al di qua della rivoluzione (eccezionalmente può entrare ‘in quota’ anche Giampiero Neri, dove la forza testimoniale delle – poche buone ragioni dei vinti deriva dal riconoscimento di essere dalla parte del torto), forse perfino un’avanguardia senza l’avanguardia. Grande spazio è riservato a Andrea Zanzotto, che probabilmente è da considerare per Cortellessa il ponte tra un’idea profondamente lirica della poesia (Ungaretti, Celan), e la poesia di ricerca. Segue Pagliarani che è invece ponte tra una visione del realismo, altrettanto profonda, e la ricerca. Lo spazio riservato a entrambi li pone quindi in posizione antagonista rispetto alle quattro pagine dedicate a Pier Paolo Pasolini che fallirebbe invece proprio come poeta civile, in particolare nelle Ceneri di Gramsci, che per Cortellessa «equivale a dire, purtroppo, ideologicamente eloquente» (mentre la poesia civile abiterebbe le alessandrine Poesie a Casarsa). Continuando a percorrere la galleria si notino le ‘misure’ maggiori consacrate a Sanguineti, Porta, Raboni, Rosselli; per i nati tra gli anni Quaranta e Cinquanta (anche inoltrati): De Signoribus, Magrelli, Frasca (al rapporto col quale, forse più che a tutti, spetterebbe la formula di una lunga fedeltà), Ottonieri. Pochi sono i giovani inclusi nella galleria: Marco Berisso e Elisa Biagini (entrambi come esempî diversi di scrittura corporale), Flavio Santi (nel laboratorio di lingue minori). Va peraltro notato come il ‘non-canone’ si apra ad autori che in termini storiografici rappresentano un resto, molto difficilmente riducibile all’interno di una funzione o di una linea di azione: Orelli, Sinigaglia, Testori, Piccolo, Bertolani, Ripellino (presente oltre sé stesso, dal momento che il suo titolo Il trucco e l’anima serve a leggere la poesia di Patrizia Valduga come Il trucco è l’anima).
L’EXTRA/VAGANZA finale costituisce un gesto teatrale se non circense (portrait de l’artiste en saltimbanque a norma di Starobinski, qui mediatamente portrait du critique). Nell’economia del libro il gesto è un modo di sparigliare le carte, un po’ come avviene nel lungo saggio di accompagnamento agli Sparigli marsigliesi di Mariano Bàino che è infatti il testo più sapidamente autobiografico del critico Cortellessa. Il primo tempo del pezzo è un omaggio a Carmelo Bene, la voce come corpo della poesia, con espansione quindi al Campana di Bene, e verrebbe quindi da attivare, noi lettori, l’ennesima triangolazione recuperando quel «‘comlesso invalido’ della poesia di Campana che poi, in fondo, andrà indicato [...] alle origini stesse della ‘funzione’ (o ‘disfunzione’, piuttosto) che fa capo ad Amelia Rosselli».
La creazione e attribuzione di ‘funzioni’, dopo Contini che è il vero ‘maestro dei maestri’ anche per Cortellessa, è uno dei modi per il critico di marcare territori, di collegare nomi a concetti. La definizione, da tanti angoli di visuale quanti sono quelli considerati in questa recensione, della fisica del senso, mostra invece come questa non sia né una ‘funzione’ né la ‘funzione delle funzioni’. Non c’è dubbio comunque che fisica del senso, in ultima analisi, è un titolo che riveste quella che possiamo chiamare una funzione ‘araldica’, secondo una delle figure impiegate da Cortellessa per definire alcuni testi emblema in cui non solo precipita la quintessenza del lavoro di un poeta (le forme chiuse di Frasca, le ‘forme concetto’ di Magrelli), ma vi assume valore irradiante, il blasone che fa l’orgoglio dello scrittore (e qui del critico). La formula tutta di fisica del senso, di cui ormai è più chiara la sfaccettata genealogia, si vuole come irraggiante e si propone quindi come in grado di definire in futuro testi, libri, situazioni. Ma al di là dell’utilità documentaria del libro e del suo potere di ‘fascinazione’ rafforzato dalla maschera totemica a sei occhi e tre nasi (opera di Luigi Ontani, Molto fiuto, 1982) che campeggia in copertina, paratesto visivo, che ne è del prodigioso Streben definitorio – che cosa è la poesia – che percorre l’ordigno critico di Cortellessa? Le risposte sono quelle che hanno gli sbocchi operativi di cui si è detto, la definizione ultima, nei suoi termini ontologici, è invece troppo grande per chiunque. L’autore del volume deve essersi accorto della portata faustiana del problema e ha rimediato nel più ‘suo’ e condivisibile dei modi. L’ultima cosa che si legge infatti nel libro, dopo le note, dopo gli indici, è la lunga ‘poesia inventario’, poesia è di Emilio Villa a cui spetta dunque l’ultima parola: «poesia è evanescenza / poesia è condanna a vita, con libertà / sulla parola, liberté sur parole / poesia è guida cieca a un antico / enigma, a un segreto inaccessibile» etc. Qui il ‘concetto’ poesia (e quindi per Cortellessa il ‘concetto libro’) è frantumato in una pioggia di situazioni e in concetti che sono altrettanti oggetti ready-made. Poesia è insomma l’etimologia che non c’è e, insieme, il senso della parola fisica che rimane.
ANDREA CORTELLESSA, La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940, Roma, 2006, pp. 784, Euro 44,50.
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