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« indietro Nuovi poeti francesi, a cura di F. Scotto. Traduzioni di F. Scotto e F. Pusterla, Torino, Einaudi, 2011, pp. 310.
Nati nel secolo che qualcuno ha, a buon diritto, definito come l’èra del sospetto, in cui si aggrava il morbo dell’equivocità e si paventano misinterpretazioni o, peggio, mistificazioni, molti dei «nuovi poeti francesi» (dove il determinante serve a delimitare una realtà linguistica, più che geografica e culturale) non possono che misurarsi con una rivendicazione oramai storicamente consolidata e, per così dire, pacifica: l’anti-passatismo che fu già dei futuristi e, per ragioni diverse, di Breton e di Paulhan (il quale, già vicino al surrealismo, si fece latore di un’anti-tradizione nei confronti delle poetiche romantiche, considerate «Terroristes» in Les Fleurs de Tarbes del 1941). Fu il Camus de L’homme révolté («Surréalisme et révolution», 1951) che, ritenendo i surrealisti respon sabili del più grave equivoco del secolo per aver servito con un anticonformismo d’apparato, alla stregua di ogni nichilismo, le più strette ortodossie, vide in questa in transigenza ostentata nei confronti della storia un alibi dello spirito di distruzione; nel promuovere l’atto gratuito come espressione di una rivendicazione della libertà assoluta, Breton per primo non avrebbe compreso, osserva Camus, che la «vraie destruction du langage ne réside pas dans l’incohérence et l’automatisme. Elle réside dans le mot d’ordre». Ora, il curioso spettacolo che si nasconde, secondo Camus, dietro alla parola d’ordine surrealista, quello di una «pensée occidentale où le principe d’analogie est sans cesse favorisé au détriment des principes d’identité et de contradiction» e che occupa di fatto l’intera scena del XX secolo, estende immancabilmente la sua influenza nel nostro. Il fine dei diversi rigorismi, i quali esprimono spesso, più che una dialettica tra gli opposti, una coesistenza degli eterogenei, è infatti il medesimo: laddove viene meno, con l’avvento della cultura liberale, quella che Caillois definiva una «orthodoxie installée», ossia una dogmatica forte e condivisa, si affacciano, sul panorama culturale, diverse «orthodoxies conquérantes»: il rigore, che esteriorizza la distinzione (l’anti-tradizione) tra più posizioni relative, ma tutte ostili in principio alla cultura debole imperante, identifica e preserva l’identità settaria contro minacciose derive interpretative. Ora, non è certo che l’«absolue sévérité» manifestata dalla cerchia dei poeti nei confronti dei non iniziati, ovvero la salvaguardia della cittadella ideologica («il faut absolument empêcher le public d’entrer si l’on veut éviter la confusion», scrive Breton nel Secondo Manifesto) coincida con un’etica ed un’estetica rigorose; talvolta, come Camus osservava a proposito dei castelli chiusi di Sade, l’ermetismo salvaguarda il diritto settario ad un’estrema libertà. Il movimento di Breton ci pone davanti, col suo esempio messo in discussione, alla necessità di una riflessione; come intendere il «nuovo»? Nell’ambito di quell’ottica storico-teleologica legittimante il concetto di ‘avant-garde’, oppure come espressione di un eterno ritorno di categorie del pensiero, secondo le quali ad esempio il Surrealismo altro non sarebbe che l’ennesima revisione del Romanticismo, mentre le correnti formaliste novecentesche le rinnovate espressioni di un imperituro ed estenuato Classicismo? Ed è in quest’ottica che R. Caillois interverrà criticamente, suggerendo un tertium datur: un lirismo misurato, iscritto nelle ragioni della creazione naturale, equidistante tra il riduttivismo razionalista e l’arbitrarietà dell’irrazionale trionfante.
Questi presupposti, frutto del dibattito culturale immediatamente precedente, sono imprescindibili, come ben vede F. Scotto, che si richiama appunto al Surrealismo per rendere conto della situation della poesia francese dagli anni Sessanta ad oggi. Di fronte al panorama che ha di fronte il curatore manifesta il medesimo disagio espresso da Caillois; disagio che si deve, certo, all’assenza di prospettiva e di decantazione cui la bruciante attulità ci condanna; ma se l’opera d’arte avrebbe già di per sé il compito di ritagliare forme interpretabili nel disparato fenomenico, queste forme – coesistenza degli eterogenei, secondo la formula foucaultiana, più che dialettica tra gli opposti – somigliano sempre più, nella società fluida e globalizzata, «ad una fitta ragna tela» (p. V). Dovendo riconoscere il rischio di arbitrarietà che comunque sempre si associa ad una simile impresa, F. Scotto dà prova, nel districarsi in questo dedalo, oltre che della sua oramai affermata com petenza, di una rara onestà intellettuale. Ovviando, ad un tempo, alle tendenze postmoderniste e nichiliste del «tutto è buono», ed alla taccia di parzialità e snobismo, egli si dota di un paradigma ben definito, eleggendo i suoi poeti sulla base di un duplice criterio storico ed estetico, che renda conto degli «snodi fondamentali e delle idee sulle quali s’incentra il dibattito contemporaneo», e dove un posto d’elezione meritano senz’altro le riviste (a buon diritto ritenute, malgrado il loro ruolo «a tratti semiclandestino, oscuro, misconsciuto» un laboratorio intellettuale degno della massima considerazione). Altrettanto onestamente (le opposizioni hanno sempre, pur nel loro evidente riduzionismo, una validità operativa, fornendo criteri, seppur sommari, di orientamento per l’interpretazione del mondo), egli non può che recuperare e rideclinare in chiave contemporanea l’antico dualismo fondativo che la poesia da sempre interpreta: da un lato il formalismo (con le sue tentazioni autoironiche, insieme «ludiche ed esoteriche» (p. VI) di ascendenza mallarmeana), dall’altro il lirismo, il quale tenta di emanciparsi dalla sua matrice engagée, scaduta talvolta, nella storia del Novecento (ma già un secolo avanti, con Hugo) «nella retorica demagogica e populista» (p. VII). Come riemergere – memori della celebre formula heideggeriana e poi adorniana – con l’atto di parola (che non sia né gratuito né retorico) da «un paesaggio di rovine» che la guerra lasciò dietro di sé? Di una vera e propria «elaborazione del lutto» si fecero, è vero, portavoce negli anni Sessanta coloro che indagarono «il rapporto del soggetto umano col Sacro, col Male e col Linguaggio» (Scotto cita in propo sito il bel saggio di J. Risset: Il silenzio delle sirene, 2006); si trattò, certo, di una denegazione riparatrice di quella che era stata l’antica bontà del soggetto di stampo teologico prima, laico poi; denegazione di cui la poesia contemporanea, avvolta nel suo mutismo metaforico, porta ancora il segno. Alla riemergenza necessaria, quanto minoritaria, di un «soggetto lirico» (p. XI), che torna a tendere la mano al dono disinteressato della vita accogliendone, appunto, la gratuità come unica salvezza, si contrappone il «proliferare di tendenze metadiscorsive» tendenti alla decostruzione radicale del soggetto, intese «a produrre le forme significanti dell’‘insignificante’, ovvero, del non-essere»; si tratta, ricorda Scotto, «di parlare contro la lingua e contro la poesia attraverso la poesia» (p. XI). Qual è dunque, alla luce di queste premesse, il criterio d’elezione storico ed estetico dei «nuovi poeti francesi»? Presenti sono qui quei poeti che osservano, in prima istanza, un principio etico universale: il rispetto dell’altro, che si esprime attraverso la leggibilità, in cui l’autorialità abbandona le sue pretese autoreferenti per venire a patti con l’istanza di ricezione (p. XIV). Il primato conferito alla parola come atto di comunicazione su tutte le sue manifestazioni collaterali di spettacolarizzazione è dovuto al rispetto che si deve al lettore il quale, scrive Scotto, «so e voglio innanzitutto ‘lettore’, non ‘spettatore’ di un evento teatrale o mediatico meglio fruibile in luoghi diversi dal libro» (p. XV). Così, anche tra gli autori a vocazione «lettriste», la scelta dei testi privilegia i momenti di leggibilità. Ulteriore criterio di selezione è infatti la necessità di far conoscere in Italia – grazie alla diffusione di cui si giova questa oramai affermata collana einaudiana – poeti che la Francia, sempre desiderosa di valorizzare – felice esito di un retaggio giacobino – il suo patrimonio culturale, ha già riconosciuto come degni della pubblica attenzione. Ne ricorderemo alcuni – Alferi, Bénézet, Cadiot, Conort, Gleize, Maulpoix, Para, Prigent, Rueff, Velter – invitando a incontrare gli altri nella lettura di questo insostituibile strumento la cui impostazione è studiata per durare; l’attenzione per il lettore è attestata, oltretutto, da una accuratissima scheda relativa agli autori presentati.
(Michela Landi) ¬ top of page |
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