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« indietro FABIO FRANZIN, Co’ e man monche [Con le mani mozzate], Milano, Le voci della luna, 2011, pp. 93, €10,00.
Il cronotopo – per servirci a bella posta di un noto tecnicismo letterario e così tenere a distanza la molta vicinanza alla realtà del libro – è quello del trevigiano sud-orientale negli anni di oggi, cioè quelli della crisi per globalizzazione («globaizazhión, maedhéta»), quando perfino il modello del nord-est va in pezzi: «passà el sant, passà el miràcoeo» (sono rimaste le bollette). Il disastro è sta to più volte tematizzato da artisti e scrittori che lo hanno rappresentato concentrandosi soprattutto sulla forza, negativa e poetica dei non-luoghi: la forza di senso paradossalmente generata dal trattamento ‘artistico’ (fotografie, descrizioni) di costruzioni oramai prive di senso (è tutto un: vendesi, fitasi), fabbriche, aree commerciali. Franzin si concentra invece sull’antropologia di quella crisi, parla degli effetti sugli operai (non esiste più la classe operaia?), colpiti (come i ‘padroni’ e naturalmente peggio di questi), non solo nel portafoglio ma, molto più crudelmente, nell’etica del lavoro. Persa quella si perde perfino il senso delle generazioni e quello dello stare al mondo («el lavoro sparìo / parfin ai pensieri, daa speranza»). Lavoro quindi esisto, catene di fedeltà familiari ed aziendali cancellate in pochissimo tempo, l’umiliazione di passare giornate infinite a casa o a vagare in paese come l’ultimo de «quei che no’à vòjia / de far nient». Se fosse un film di Ken Loach, la storia finirebbe magari male ma ci sarebbe un po’ di vecchio sano moralismo per cui quello che resta è una solidarietà tra i lavoratori, sconfitti ma non umiliati nella dignità. Qui assistiamo invece al disfarsi del gruppo degli operai «fradhèi ribandonàdi da un pare», dopo l’annuncio della chiusura: erano ottantatre sul piazzale, rimangono in due. L’uso del dialetto non si concede mai effetti di mimetismo linguistico (tranne che in una delle Prose del tricolore, che si immagina scritta da un camionista ‘degradato’ a operaio, in una specie di italiano di continuo sprofondante nel dialetto). Il dialetto compone piuttosto una sorta di recitativo: il nastro che si srotola a vuoto trascinando i pensieri neri dell’inanità di quelle mani private di lavoro. Si può anzi dire che, letterariamente, la forza del libro sta tutta in questa rinuncia a incidere per via espressionista sul reale. È il reale invece che si fa corpo della crisi e trova spazio per entrare dentro con la forza sottile di una malattia psicosomatica, come l’eczema che compare sulle mani dopo qualche mese di cassa integrazione, la pelle che si squama, rossa: «El dermatòego dise l’é un sfogo / nervoso, ‘na risposta del só corpo / al stress […] ‘tanti stanno vivendo la sua / stessa situazione’. Lù sa che ‘e só / man ‘e se ‘à maeà parché inciodàdhe / tel nient. Nissùna pomata le guarirà» (‘Lui sa che le sue / mani si sono ammalate perché inchiodate nel vuoto. Nessun unguento le guarirà’). È la poesia di Franzin che è poesia psicosomatica: tra la causa vera e il sintomo, è l’antropologia di quest’ultimo, ed è una lingua che niente potrà guarire.
(Fabio Zinelli) ¬ top of page |
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