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EUDOCIA AUGUSTA, Storia di San Cipriano, a cura di Claudio Bevegni, con un saggio di Nigel Wilson, Milano, Adelphi 2006, pp. 207, € 13.00, ISBN: 88-459-2075-5

 

Pochi conoscono Eudocia come poetessa. Il suo nome evoca, nel migliore dei casi, l’impero protobizantino e le intricate vicende di corte, che spesso vedevano come protagoniste le donne della famiglia imperiale. Ed effettivamente Eudocia ebbe un ruolo notevole nelle vicende dell’impero d’Oriente: di origine ateniese (Atenaide il suo vero nome), era figlia di un colto retore, che le diede una educazione classica; alla morte del padre si recò a Costantinopoli, e qui fu individuata dalla potente Pulcheria, la sorella di Teodosio II (408-450), come la moglie adatta per l’imperatore. Convertita al cristianesimo, nel 421 la giovane Atenaide divenne l’imperatrice Eudocia. Sempre più influente, grazie anche ad azioni di pubblica pietas, come un pellegrinaggio a Gerusalemme che rafforza la sua immagine di imperatrice devota e benemerita della fede, Eudocia finisce inevitabilmente per scontrarsi con Pulcheria, riuscendo in un primo momento ad avere la meglio; ma nel 439 accade qualcosa di poco chiaro (le fonti bizantine elaborano la leggenda di una relazione fra l’imperatrice e il potente ministro Paolino, scoperta da Teodosio grazie a una bellissima mela, da lui donata alla moglie, che l’avrebbe data all’amante il quale poi, ignaro, l’avrebbe offerta in segno di omaggio all’imperatore), e Eudocia va in esilio a Gerusalemme, dove resterà fino alla morte, costruendo edifici religiosi e dedicandosi a opere pie e ad attività cultura (senza però rinunciare a un certo ruolo politico-religioso, essendo per molti anni sostenitrice del monofisismo). Ma l’aspetto più interessante (e meno conosciuto) dell’attività di Eudocia è quello letterario: l’imperatrice amava comporre versi e ha lasciato un’abbondante produzione in esametri. Poemi encomiastici (la forma di pubblicistica del tempo), oggi perduti (ma si è ritrovata un’epigrafe con un poemetto da lei dettato in occasione di una sua visita alla terme di Gadara); parafrasi in versi della Bibbia, come quella dell’Ottateuco e dei profeti Zaccaria e Daniele, a noi non arrivati ma giudicati in modo estremamente lusinghiero dal severo Fozio; una serie di Centoni omerici, opera singolare (la poetessa ne fu probabilmente co-autrice) in cui la storia evangelica è raccontata in versi attraverso un raffinato patchwork di versi e sintagmi presi dall’Iliade e dall’Odissea: un tipo di componimento in voga nella tarda antichità e che, per quanto ci possa oggi apparire un mero divertissement, aveva lo scopo di dimostrare che la Scrittura poteva essere cantata attraverso Omero, e che dunque il poeta sacro degli Elleni conteneva in sé la rivelazione cristiana (quest’opera ha avuto una certa fortuna nel Sei e Settecento e forse è stato anche uno dei modelli del Finnegan’s Wake di Joyce, vd. A. Fàj, «Arcadia» 3, 1968, 48-72). Assieme ai Centoni l’altra opera di Eudocia conservata, sia pure parzialmente (ne restano 900 versi), è un interessante poema sulla conversione di Cipriano di Antiochia, che da mago e adoratore degli idoli pagani, sconfitto dalla virtù della vergine cristiana Giusta (che egli invano, con l’aiuto di Satana, aveva cercato di far sedurre da un giovane), si converte, diviene vescovo e infine subisce il martirio. Una storia affascinante, che contiene il primo nucleo della leggenda di Faust, e che ha conosciuto una certa fortuna nell’antichità e nel Medioevo, legata alla figura di Cipriano (confuso col più noto Cipriano di Cartagine) e al culto dei due martiri, Cipriano e Giustina, le cui reliquie vennero traslate a Roma, da dove il culto si diffuse in Occidente. Eudocia ha messo in versi dei resoconti agiografici (sulla conversione, la confessione e il martirio di Cipriano), utilizzando redazioni differenti da quelle che ci sono arrivate e riscrivendo talora la storia con accenti personali: il suo poemetto era diviso in tre libri, ma ci sono arrivati solo il primo e parte del secondo, che raccontano i tentativi di Cipriano e del demonio per sedurre Giusta, tentativi che si concludono con la vittoria della vergine e la conversione di Cipriano; segue poi la rievocazione da parte di Cipriano della sua carriera di mago. Si tratta di un testo di straordinario interesse non solo storico-culturale, ma anche letterario, che merita di essere conosciuto oltre la ristretta cerchia degli specialisti. Compito cui assolve egregiamente questa nuova traduzione, con introduzione e dense note di commento, curata da Claudio Bevegni, che sta da anni preparando anche un’edizione del testo greco. L’introduzione offre una aggiornata e chiara introduzione al mondo culturale di Eudocia, insistendo molto sul suo progetto di sintesi di cultura classica e cristianesimo; Bevegni tratteggia anche i principali problemi ecdotici del difficile testo e soprattutto (pp. 34-48) offre un’analisi per campioni della stratificazione linguistica, delle modalità dell’imitazione letteraria di Eudocia (e dei modelli, non limitati ad Omero), del peculiare uso dell’aggettivazione e delle immagini. Ne risulta il quadro di una poesia complessa, che occhiegga a varie componenti letterarie e filosofiche, che ricorre all’allegoria e al simbolismo, talora fa intravedere tracce di gnosticismo, e che rappresenta perfettamente il composito milieu culturale dell’età tardoantica. In fondo al volume un bel saggio di Nigel Wilson illustra l’archetipo tardoantico di Faust, analizzando le fonti agiografiche e i consimili racconti nella tradizione letteraria, fino a Marlowe e a Calderón. Per la traduzione Bevegni ha scelto la prosa, preoccupandosi di rendere l’esattezza del difficile dettato (più attenta ai valori letterari invece la traduzione di Enrica Salvaneschi in Synkrisis 1, Genova 1982, 1-80): ma ciò non impedisce di apprezzare il tono dell’originale, e il riuso dei modelli letterari (ad. es. 1.72- 73, p. 85 «Ad Aidesio si aprirono le porte degli occhi e fuggì da lui il sonno ventoso che scaccia gli affanni»; o il dialogo in cui Cipriano rinunzia al maligno: 1.305ss., p. 94 «Mio sommo nemico, io non temo né te né le tue azioni, perché in questa notte ho appreso da te tutta verità grazie alle preghiere e alle caste suppliche di una vergine, e alla croce potente: tu, di fatto, non hai la minima forza. Perciò, io ora porrò sul mio corpo il possente sigillo, al quale hai riconosciuto grandissima forza: spregio l’amicizia con te, ripudiando i tuoi voleri»). E la forza della poesia eudociana prende il lettore soprattutto nella prima parte del secondo libro, in cui quasi per trecento versi Cipriano rievoca la sua iniziazione ai misteri e ai culti pagani, in una febbrile cavalcata da Atene all’Olimpo (dove Cipriano rimane «quaranta giorni e poi otto» a contempalre le schiere degli dèi), ad Argo, all’Elide, alla Frigia, alla Scizia (dove apprende «la divinazione mediante gli uccelli e il loro segni canori, e ancore l’incedere irregolare degli animali, le profezie degli uomini che sanno vedere il futuro, i rumori degli assi di legno nonché delle pietre, lo voci provenienti dalle tombe di morti dal tempo dei tempi, e poi il cigolio delle porte, i pulpiti delle umane ansie, i gonfiori sanguinolenti che lordano i corpi e i formicolii che percorrono le membra; e intrecci verbali e numeri di parole; e travagli visibili della carne e immagini della natura», p. 101), a Menfi in Egitto (dove scorge «le anime degli esseri possenti e smisurati, i Giganti mostruosi, orribilmente oppressi nella tenebra cupa», p. 102, e le personificazioni dei Vizi descritte in un passo di grande efficacia icastica), alla Caldea (dove impara l’astrologia e infine è ammesso alla visione del Demonio, una scena che detorce le ierofanie religiose e imperiali). Il poemetto di Eudocia riserva queste e molte altre sorprese, che il lettore potrà apprezzare pienamente grazie alla guida sicura del volume di Bevegni. Una poetessa ritrovata.

Gianfranco Agosti

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