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« indietro LUCIANO CECCHINEL, Perché ancora, note di C. Mouchard e M. Rueff, Vittorio Veneto, ISREV 2005, pp. 174, s.i.p.
Fa riflettere il sodalizio a tre voci che caratterizza l’ultima opera in versi di Cecchinel, annotata e come ‘soccorsa’ dai compagni d’oltralpe, Claude Mouchard e Martif Rueff. Quasi che una poesia destinata a rievocare tragiche vicende resistenziali, valido spalto all’opera corrosiva di «smemorati» e «mentitori», necessitasse di poggiare su una coralità unanime. Preso atto dell’obbligo morale che ha, nel sessantesimo anno della liberazione, costituito il fomite a scrivere ancora di questa guerra civile «fogo cain» appiccato contro il fratello in una lotta che da sociale (tra padroni e contadini) scivola in un conflitto tra due opposte ideologie (di morte l’una quanto di vita e di ragione l’altra) –, Perché ancora è raccolta che non può non avvincere anche il lettore più distante per motivi cronologici da questo passato di orrori. E non è solo la fatale bellezza delle sciagure umane a coinvolgere; non sono di per sé i tanti fatti d’arme di una terra che fu teatro di resistenza alle milizie tedesche e fasciste; è la rivisitazione poetica di questa cronaca di lotta, non spogliata della sua crudezza, né avvolta in sudari di retorica, a fare dell’opera di Cecchinel una voce degna della migliore tradizione della poesia civile post-resistenziale. Riuscito, quanto non mai ostentato, il processo analogico, che privilegia nella narrazione dei drammi (nella maggioranza le liriche si presentano quali cippi simonidei, che recano una dedica alle vittime) l’accostamento con un comune (altre volte più erudito) immaginario sacrificale. La morte dei giovani partigiani si sostanzia del valore assoluto di antichi beaux gestes, esemplari martirî accettati a rilasciare una testimonianza eterna. Di notte provvede a dare umana sepoltura a Nino il parroco dei Tempi che son dati, contro le ‘creontine’ ingiunzioni dei fascisti; un destino di morte è segnato a fuoco in quei due nomi di battaglia, Claudio e Tiberio, che i fratelli combattenti di Redenzione di sangue scelgono, quasi a rendere consapevole la madre della loro sorte imminente. Ma è il sacrificio per eccellenza, quello del Cristo amato a propria immagine dai contadini, a spiccare come esempio di tormento immanente nella vita degli oppressi: il Cristo delle patetiche deposizioni, dove la scala, strumento impiegato per staccarne il corpo abbandonato al sostegno di donne e uomini di carità muta nel mezzo di trasporto di un partigiano piagato, condotto dai suoi persecutori al luogo dell’ultimo, liberatorio supplizio (Speranze). Efficace, perché ancora condotta in termini analogici, la raffigurazione di questa lotta di classe e civile insieme, guardata secondo un’ottica tipicamente rurale, dove la bestia e il suo rapporto duplice con l’uomo, di vittima o di temibile presenza, diviene il termine di paragone di un atavico conflitto che nel regime e quindi con la guerra conosce il suo grado supremo. Poiane feroci si fanno gli sgherri di un ‘bertolucciano’ fattore in camicia nera (Da ’n zˆimitèrio a bas na montagna, identico paragone animale torna in Le parla agre le piere), non trattenuto dal suo inetto signore nel dar tormento al «Checo Rosso», il contadino antifascista, non mai ridotto a cane «mestegà», neppure dal «canped-èl» ‘con siepe e con fossetto’ che il conte a guerra finita tenta inutilmente di offrirgli per infossare quella scomoda verità, che riaggalla nella memoria degli uomini del paese, come la talpa invano tumulata (la giusta interpretazione del detto contadino che agisce dietro il verso, «a sepolir, par coparla, la rùmola», mi è stata gentilmente riferita dallo stesso Cecchinel). Così, deportati in campo di concentramento, a Buchenwald, il ‘non luogo’ che snatura della propria essenza ogni internato, i prigionieri costretti al trasporto di carri pesanti vengono dai loro aguzzini nominati a disprezzo «cavalli cantanti», ancora una volta uomini asserviti, instrumenta vocalia di cui fare scempio nella rigida legge dell’«a ciascuno il suo» (Nel bosco dei faggi). Convincente pure quel riconnettere ai crudi riti feriali del mondo agricolo le atrocità di questo ‘stato di eccezione’. Gli attrezzi del lavoro divengono termini di raffronto per altre spietate opere, come quei banchi da macello su cui sono mattati adesso corpi di uomini ribelli (Via d-a i òstri taolaz d-e bechèr). A dirne tutta la debolezza, la fune usata per la straziante impiccagione che fallisce nel suo primo tentativo di Spaventauomini, è definita «corda da fieno», inadeguato arnese di morte ora impiegato in un’«Italia da fieno», terra non più di ‘tiglia’ soda, prostrata dal giogo dei tempi. Il ritorno alla vita non può che procedere inversamente: gli automezzi militari ceduti dagli alleati ovvero conquistati ai nemici costituiranno i primi strumenti per riattivare l’unica forma di onorata fatica, non lavoro di dipendenza, ma opera di collettività cooperativa (Paesi). Così, le armi segreta mente custodite dagli ex-combattenti, nel timore di un rimpiagarsi dell’ulcera fascista (Sorelle di paura), verranno trattate, ormai in un paese tornato ai suoi ritmi normali, con tutte le benigne cure che il contadino riserva ai frutti del proprio lavoro: nascoste sotto le pietre delle «masiere», oppure coperte sotto più lieve cumulo, le carte usate nell’allevo dei bachi da seta; esse, larve riposte a maturare, nella speranza di una più nuova primavera.
Francesca Latini ¬ top of page |
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