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« indietro MARINA CORONA, I raccoglitori di luce, Milano, Jaca Book, 2006, pp. 128, Euro 13,00.
Dopo Le case della parola (I Quaderni del Battello Ebbro, 1993) e L’ora chiara (Jaca Book, 1998), Marina Corona dà ora alle stampe la sua terza raccolta di versi, in cui con fluiscono, tra l’altro, alcune poesie già pubblicate su «Semicerchio» (cfr. n. XXVIII). Il linguaggio ricco di accensioni metaforiche è al servizio di una costruzione limpidamente narrativa, in cui la ricerca del «segreto» dell’esistente si compie nel racconto della «storia», della propria storia. Il primo passo muove à rebours verso un’infanzia che, rivissuta nei suoi nodi edipici (il rapporto col padre «uomo tabù», con la madre/rivale e con l’altra madre, la madre buona, la tata Carolina che nutre, culla e scaccia le paure della notte, a cui è intitolata la prima sezione della raccolta), porta con sé la prima verità, il primo tassello di luce pazientemente raccolto, procedendo, come in una riuscita regressione ipnotica, per accumulo di immagini da libro illustrato (fiori, luna, barchette, streghe, aquiloni), cantilenando una lingua-filastrocca, una lingua esorcismo infantile (specialmente in La paura e oltre, in Bimba morte e nella Tata Carolina che intitola la sezione). Il percorso prosegue poi nelle sezioni successive, L’amore, Un cielo altro, Le radici del nulla, con un progressivo decremento di narratività (puntellandosi tuttavia sempre a riconoscibili passaggi biografici, ad una geografia reale, specialmente nella seconda sezione, con poesie come Castel Sant’Angelo o Pasqua 2000) e con una crescente densità dell’impasto metaforico. Nella quarta e ultima parte, Le radici del nulla, tornano protagoniste le figure del padre, e soprattutto della madre; qui però, ormai, la materia tipicamente di genere, e di genere femminile, manda definitiva mente in frantumi la coerenza narrati va del romanzo familiare per rifrangersi all’infinito nell’esuberanza sempre risorgente delle immagini, mentre la ‘raccolta della luce’, scandita con corrispondenza perfino troppo precisa nelle ultime poesie dal trascolorare dalla sera all’alba (la sequenza formata da Vespro, Brunilde, Margini, I globi), finisce, con scarto inaspettato quanto felice, non con la definizione di un acquisto di verità almeno provvisorio, ma con una nota sospesa, interrogativa, che si concede anche, civetteria inconsueta, di incastonare nel dettato nitido una citazione dantesca (La dichiarazione: «Posso aprirti la mano / per lasciare cadere il matti no / delle labbra mie / farfalle prigioniere? / le terrai come si tiene / fra le dita il giorno / la sua luce che non fa ritorno / e ci tace? / le terrai nella stretta / che mi assenta da me / e mi fa catturata e altera / voce della tua casa profonda / le terrai nell’onda tua dei capelli?»).
Elena Parrini ¬ top of page |
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