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« indietro ELIO PAGLIARANI, Tutte le poesie (1946-2005), a cura di Andrea Cortellessa, Milano, Garzanti, «Gli elefanti» 2006, pp. 512, Euro 19.
Lo scaffale di una libreria a Ferrara, una domenica mattina d’inizio Febbraio. Non ci potrebbe essere, forse, un contesto più adatto entro cui imbattersi, per una circostanza fortuita, e prendere confidenza con l’opera che per la prima volta raccoglie tutta la produzione poetica di Elio Pagliarani, sdoganata da filoni di realismo/neorealismo sotto la cura di Andrea Cortellessa (che firma anche un ampio saggio introduttivo) con l’ausilio di una ricca antologia critica. Non dunque Milano, scenario dei testi fra i più celebri e celebrati di questo autore: le tante Milano sorvolate da cieli metallici «colore di lamiera» che riflettono le fabbriche «a Sesto a Cinisello alla Bovisa», concentrate a scandire la vita quotidiana dei lavoratori – impiegati «All’ombra del Duomo» o operai, abitanti autoctoni o forestieri; bensì, la Ferrara degli «Epigrammi» omonimi– per la verità citata e presente solo nel titolo – molto meno industriale, meno d’«acciaio», decisamente più a misura d’uomo, poco distante dal mare (unica via di fuga ormai, dato che in precedenza, nel poemetto La Ballata di Rudi, era stato suggerito che «dobbiamo continuare come se non avesse senso pensare che s’appassisca il mare»), una città che trattiene ancora tracce della voce del ferrarese Savonarola della quale il riminese Pagliarani ha voluto rialzare il volume riscrivendo, manipolando, traducendo brani tratti per lo più dalle Prediche Sopra Ezechiel del predicatore quattrocentesco. Sono componimenti lapidari, secchi e scarni, di pochissime righe, non ci sono scenografie o ambientazioni in questi versi perfetta mente estranei a ogni paesaggio. Lo spazio testuale è occupato tutto dal solo ‘cogitare’ fulmineo della mente, a mo’ di sentenza, su argomenti quali fede, religione, società, popolo, potere, in un’atmosfera di sospensione temporale. Non conta che il materiale utilizzato nell’arte sia di cinquecento anni prima, manipolare e dialogare con passi del Savonarola vale come confrontarsi e confondersi nelle parole dette o scritte o lette della contemporaneità. «Non dire anche tu che l’arte non c’entra col tempo / quando è uno dei modi del tempo / di essere, quando sono di più / i modi di non essere del tempo» era stato anticipato in «Fecaloro». Essere del tempo (e non nel tempo) significa assumersi responsabilità anche nell’arte, le cui modalità di operarvi rispecchiano la posizione nei confronti del proprio tempo verso il quale ci si può anche sentire estranei o fuori tempo. La difficoltà di comunicazione, il balbettio dei codici linguistici saettano negli «Eccetera di un contemporaneo» come lampi, come «scorregge», e danno in conclusione una risposta morale a tutto ciò, perché «Non so se avete capito: siamo in troppi a farmi schifo», che non è, si badi, una «implosione arteriosclerotica / ovverosia casino confusionale» di un «pacifico bisonte», quanto piuttosto la constatazione amareggiata di come l’afasia sia una delle reazioni plausibili e civili di argine individuale contro il riflusso della deriva politica sociale culturale e anche umana dell’esistenza odierna. Del resto, nelle «Lettere» di Lezione di Fisica e Fecaloro il lettore era stato preavvisato di questo passaggio e stilistico e metrico e semantico: «Lo vedi anche tu / siamo in un ottocento di appendice; non si può cavarne una storia / nemmeno da mettere in versi: ci sono esperienze / che non servono a niente che si inscrivono / come puro passivo». Si assiste quindi negli Epigrammi da Savonarola Martin Lutero eccetera a una continua sottrazione testuale, in sintonia con un processo, quello appunto della sottrazione, che sembra attraversare l’opera intera di Pagliarani, lucidamente e consapevolmente, disseminando spunti (concetti o modi poetici diversi) nel passaggio da un libro all’altro, che come germi contamineranno e prolificheranno nel lavoro successivo. E così, se passando da Cronache e altre poesie a Inventario privato si perde un po’ la determinazione di luogo e di tempo (tutti i componimenti delle Cronache riportavano in calce l’anno di stesura), l’ingombrante e poliedrico io poetico (a volte al femminile: «In casa, adesso faccio la sarta») di supporto scenografico e di effetto emotivo degli esordi, nel poemetto La ragazza Carla si sottrae al ruolo di protagonista costante e si accuccia nelle varie voci e lingue dei personaggi (i pensieri di Carla, la terza persona narrante, Aldo, un noi corale e condiviso…) parlate senza soluzione di continuità, cosicché, non separate una dall’altra neanche ortograficamente, fioriscono in quella che Guido Guglielmi ha chiamato «plurivocalità». Sul piano metrico i versi vanno perdendo la loro estensione normale e questo loro bisogno di maggiore espansione affiora in qualche riga della Ragazza Carla, per farli poi pro tendere in «Fecaloro» oltre la lunghezza della pagina quasi abitualmente, mentre nel contempo sul piano narrativo viene meno un canovaccio di trama o argomento che leghi i testi all’interno della singola sezione, e viceversa, da una parte prende piede un trattamento astratto delle parole e parti di frase o di discorso come blocchi materici o masse di colore, per i quali non conta più la sintassi e il significato linguistico ma il loro ‘movimento’ e le loro variazioni/spostamenti possibili all’interno dell’opera e dello spazio, dall’altra parte diviene pressoché sistematica l’assunzione di vari linguaggi tecnico-scientifici a lingua poetica («La produzione aurifera è in aumento e nel ’55 / tocca i 27 virgola 5 milioni di once;») che aveva visto nel poemetto di Carla brevi sprazzi nei pochi paragrafi riportati tout court da un manuale di stenografia. Neanche il tempo di familiarizza re col «verso lungo, […], della fisarmonica spalancata», che già si annuncia una riduzione di esso («il verso si fa compiacente, niente è più facile di questo ma io lo spezzo») per «riacquistare facoltà di articolazione più variegata», ci chiarisce la nota d’autore in fondo agli Esercizi platonici, prodromi degli Epigrammi. Diversamente La Ballata di Rudi, coprendo un arco temporale di gestazione più che trentennale, racchiude, accavalla, rime scola tutte le forme, metriche stilisti che tematiche, che hanno caratterizza to i testi in questi decenni, dalla plurivocalità, a una trama-pretesto che si perde di vista ma poi ritorna, ai linguaggi scientifici e massmediatici, agli esperimenti estremi col linguaggio, dove qui la parola (corpo, oro, rosso…) è alla incessante ricerca di trovarsi un ‘posto’, quasi una giustificazione ontologica della propria esistenza, ma proprio così facendo esaurisce qui tutto il suo senso, nel decoro della composizione, nella rincorsa ossessiva dietro alla propria eco. Il volume contiene infine le «Poesie disperse»: alcune sono state a suo tempo «escluse» da una raccolta, oppure hanno seguito altri canali di pubblicazione o vi si sono sottratte, altre sono inedite. Nell’ultima che chiude il libro, datata 2005, l’autore era un ragazzo di diciassette anni nel ’44; fermato da un drappello di tedeschi, si toglie «la protesi oculare» e mostra all’ufficiale «l’orbita cava dell’occhio», per poi fuggire via. È forse quel senso di sottrazione e di perdita che ci pare percorrere tutta la sua opera poetica, quando ogni volta gli spunti anticipatori rispecchiano lo sforzo maggiore di messa a fuoco e di visuale a cui è sottoposto l’occhio residuo?
Giuseppe Bertoni ¬ top of page |
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