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TIZIANO ROSSI, Cronaca perduta, Milano, Mondadori 2006, pp. 128, Euro 9,40.
 
In una recente antologia, Dopo la lirica (Einaudi, 2005), Tiziano Rossi, nato a Milano nel 1935, figura dopo Valduga, che è del ’53, e subito prima di Magrelli, classe 1957. Inopinato lifting, che lo proietta fra i poeti ‘giovani’. Una spiegazione c’è: il curato re, Enrico Testa, seguendo l’esempio dei Poeti italiani del Novecento di Mengaldo, adotta un ordine cronologico basato non sulle risultanze anagrafiche, ma sui tempi dell’affermazione poetica; e la prima raccolta di Rossi degna di entrare nel canone, per Testa, è quella, in effetti splendida, uscita nel ’98, Pare che il paradiso (bello già il titolo, che ne varia in paronomasia uno di Frénaud: Il n’y a pas de paradis). La motivazione è stilistica: prima, dominerebbero «fenomeni testuali di sfilacciamento discorsivo» e «nessi raziocinanti», dilatati «verbosamente»; dopo, la «sintassi scioglie i suoi grovigli» e il discorso si fa «pacatamente drammatico». Giudizio doppiamente discutibile: perché Rossi è poeta notevolissimo non inferiore al poco più anziano Raboni, oserei dire – fin dagli esordi del Cominciamondo (1963) e della Talpa imperfetta (1968): certo risentiti e a tratti petrosi, mai però involuti; e perché i primi cospicui indizi di una svolta verso cadenze più piane si colgono negli anni Ottanta. Come può verificare ogni lettore del volume che raccoglieva, fino a oggi, l’intera produzione dell’autore milanese: Tutte le poesie (1963-2000), con prefazione del compianto Piero Cudini (Garzanti, 2003). Appare ora nello ‘Specchio’ una nuova raccolta, Cronaca perduta. E, leggendola, forte è la tentazione di dar ragione a Testa, anzi di postdatare ancora il floruit del poeta. Si tratta di un libro, a suo modo, d’esordio, per ché interamente composto di poèmes en prose, cioè di poesie in prosa (non ‘poemi’ o ‘poemetti’, come si usa tradurre): genere già praticato da Rossi, ma a intermittenze, e qui promosso a strumento espressivo unico. Genere che ancora fatica, in Italia, a uscire da una protratta condizione di minorità; mentre altrove, soprattutto in Francia, da più di un secolo gli è riconosciuta dignità pari a quella dei versi. Certo è determinante, da noi, l’assenza di un archetipo autorevole come Lo spleen di Parigi; ma pesa soprattutto l’abbraccio mortale della prosa d’arte, che ha trasformato il poème en prose, già nel frammentismo d’inizio Novecento e sempre più negli esercizi ermetici, in palestra di sterile bellettrismo. Peraltro, se in Baudelaire vocazione narrativa e virtuosismo ritmico, prosa degradata della vita metropolitana e impennate liriche, trovano un equilibrio perfetto quanto precario, già nella sua immediata discendenza francese (per tutti: Rimbaud e Mallarmé), il primo elemento tende a affievolirsi. Ritorna invece in forze, fin dal titolo, in Cronaca perduta, che non esita a rivendicare – in coerenza con quella concretezza «rasoterra», di ‘linea lombarda’, cui Rossi da sempre è fedele una redenzione poetica del fait divers, degli eventi minimi e dimenticati, ma potenzialmente carichi di enigmatico senso, che punteggiano la quotidianità dei nostri anni «confusi». Come nelle quartine di Gente di corsa (2000), ogni testo, di norma, mette in scena un (o una) protagonista: la poesia di Rossi è corale; l’io abdica alla sua centralità lirica per lasciare spazio alle storie, e spesso anche alle voci, che si assiepano, «come su una gratuita ribalta», in una routine domestica in apparenza banale, in realtà stravolta. Non di rado inconsuete, le vicende narrate per brevi scorci «stralunati» contemplano un’irruzione dello strano nella normalità, che certo risente della lezione di Breton: ma in un’accezione di surrealismo laico e (se è lecito l’ossimoro) razionalista. E di là dalla commozione affettuosa con cui sono raccontati, questi autentici, densissimi, micro-romanzi tratteggiano i con torni sinistri di un mondo dove domina «la crudeltà, che s’insinua nelle occasioni più disparate». Sotto gli occhi del lettore si disegna, per frammenti, il quadro di una nuova mutazione antropologica, «perché davvero c’è un’altra trasformazione nei nostri paesi ed è cambiata ancora la convivenza delle persone». Ci vuole coraggio, oggi, per impiegare in poesia una subordinata causale: e non è un caso isolato; anzi, il ricorso a un’intonazione sapienziale, naturalmente di secondo grado, spesso ironica o in falsetto (ma non troppo), potrebbe perfino assurgere a cifra stilistica dell’intero volume. Un altro esempio: «perché come sempre – il tragitto è la cosa più bella». Il fatto è che del poème en prose Rossi riattiva con straniata originalità una delle possibili ascendenze: quella che in vari testi dello Spleen di Parigi lo ricollega alla tradizione della favola, da Esopo a La Fontaine. Meno ancora di quelli di Baudelaire, tuttavia, gli apologhi urbani di Cronaca perduta consentono un’uni voca traduzione allegorica; sono allegorie vuote, senza chiave. Non contengono una morale certa; se a tratti sembrano esibirla (i frequenti «perché»; certe conclusioni sentenziose), è per revocarla subito in dubbio. E però reclamano un’interpretazione: al tempo stesso impossibile e irrinunciabile. Storie e personaggi lanciano «i segnali», costruiscono i «simboli improbabili», di cui la nostra sopravvivenza «abbisogna»: «e siano pure contraddittori». Come la vita degli animali, «nostri astrusi cugini», da sempre enigmatici protagonisti dei testi di Rossi; come la salamandra, che «porta testimonianza, ma di che?». Anche se poi una costante di significato s’impone: spesso il tema zoologico genera gli scenari di una spietata lotta per l’esistenza, che proietta la sua ombra sul mondo degli uomini. Ovunque, «poca è l’assistenza e inflessibile la selezione». Cosicché, di Cronaca perduta, si potrà dire che è libro darwiniano; o, forse meglio, esopico-darwiniano, come sembra indicare, in Uccelli, la cruenta battaglia fra «due smisurati stormi»: di «passeri di campagna e passeri di città». La scelta della prosa non tradisce dunque, anzi approfondisce, i temi profondi del poeta. Accanto alle vicende mute degli animali, quelle di anziani, malati e bambini: vittime predestinate, perché «sfinito è anche il paese dei balocchi». Vittime «forse innocenti»: ma non sempre (a ognuno «la sua briciola di barbarie»), se è vero che «l’ottantacinquenne signora Saramenti», nel supermercato dove siede in senile feticismo delle merci, «ricorrerebbe tranquilla anche a degli sbudellamenti». E poi torna, dalle precedenti raccolte, la memoria dell’infanzia bellica: fra tenerezza memoriale e affioramenti dell’orrore; nella consapevolezza che «adesso non è finita la guerra, s’è trasferita più in là». A maggior ragione perché in prosa, le poesie di Cronaca perduta meriterebbero una puntuale analisi ritmico-metrica. Non soltanto sulle tracce di versi tradizionali nascosti nelle pieghe delle frasi, che pure non mancano: settenari, anche doppi («poi passo leggermente le parti da brunire»; oppure: «un po’di quel prestigio che è degli scampati», dove però il secondo può essere anche senario); vari endecasillabi, spesso ipermetri (come già in Gente di corsa), o comunque antipetrarcheschi, per esempio di quarta e settima («le sue figure estasiate e travolte»). Non soltanto per ascoltare la cadenza delle rime interne, alcune appena suggerite, altre esibite («blu» / «tivù»). Soprattutto, per render ragione delle sporadiche accensioni liriche, che si svincolano inaspettate da una sintassi lineare e perfino analitica, e che a volte si esauriscono nell’attimo di un soprassalto: come il «sussulto» del signor R.B., nella magnifica Formiche, che aspira a distinguere differenze di «carattere», non di «mansione», nelle «geometrie sapientissime», e «parecchio sadiche», che regolano «il mondo vorticante degli insetti». O, ancora, per sondare le ragioni musicali, oltre che semantiche, di un altro dei rari scarti stilistici della raccolta, il ricorso frequente all’infinito sostantivato (del tipo: «il tenebrore del campare»). Lessico in prevalenza colloquiale, ma non privo di increspature, capaci a tratti di ripristinare le fragili barriere del decorum letterario; sintassi piana, anche se tesa; impiego parco ma strategico delle figure ritmiche e retoriche, fra cui primeggia l’allitterazione. E poi, intensità drammatica, minimi e imprevedibili colpi di scena narrativi. Si potrebbe ripetere per la prosa poetica di Rossi quel che in Visita è detto dell’altruista signora Cralli, che s’industria «così da tender si (non senza impacci) verso il sublime». Impacci necessari: a una rappresentazione esatta della «storia contemporanea» e del suo «stridore»; della capacità umana di «adattamento a condizioni di macelleria». Dove resiste, però, la vocazione a una disperata dignità; e agisce il «tònico» di un possibile, minimo eroismo quotidiano: come quello balneare del signor Bolandini, che «va nuotando coraggioso verso il largo»; come quello del «restauratore» di Lavoro, o della bimba Santina che disegna, con araldica «virtù», in Quadro: trasparenti figure del poeta, che dà colore al «vuoto bianchissimo» della pagina, «dove prima non c’era la storia di nessuno» (ancora un doppio settenario). E se «tragica è l’opera perché ci incorpora», il recupero memoriale di Cronaca perduta è anche «festa provvisoria del creato»: «come un’arca che un poco la scampa». La poesia è sottrazione precaria al «transitare spedito degli anni», che ci disloca in «processione rigorosa». Forse è questo il bari centro della raccolta, che una volta di più giustifica la scelta prosastica e narrativa: una riflessione mai scontata, e solo in superficie elegiaca, sul tempo. E sull’oblio: la cui potenza disgregatrice, nella bellissima Antenato, è in opera fin dalla prima infanzia. Per il piccolo L.M., di otto mesi, che ormai «si sforza con successo di stare ritto in piedi», è preistoria l’era in cui «non riconosceva nessuno»; «di quel suo passato indifeso e invòlto», serbano un ricordo già «ap pannato» gli adulti che lo circondano; per lui, con buona pace della vulgata psicanalitica, «è disceso per sempre nel buio».

Pierluigi Pellini

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