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GIULIANO MESA, Poesie 1973-2008, La Camera Verde 2010, pp. 424, €38,00.

 

 

«[invece non c’è parola o suono / che si salvi dalla vanità, è tutto / un fumo di varianti, di ripetizioni. // invece le cose accadono e, / a pensarlo con una certa disperazione, / scovata in una pausa di peristalsi, / in un attimo di sordità, / la vita da vivere, poi, si fa più breve]». Ecco, l’esperienza poetica di Giuliano Mesa (1957-2011), ora disponibile in questo volume dalla copertina così silenziosa (semplicemente bianca con le scritte, come è in uso dall’editore) ha – au contraire – tutto il sapore di una vittoria… Di una vittoria e di un paradosso, se davvero il poeta ha avuto ragione del corpo a corpo con la lingua per costringerla a parlare dal vuoto. Col tempo l’obiettivo di Giuliano Mesa è stato infatti una semantica del suono – al modo di Samuel Beckett – or ganizzata, ad esempio, con parole ‘vuote’ come i deittici e con figure cristalline di paronomasia, così da rovesciare lo stallo e rilanciare il collegamento tra discorso e mondo. Ma a spiegarlo è lo stesso Mesa: «qualcosa è suono dopo suono / che si forma, / frangia di profitto, / schema di aorte ipertraenti, / lucido ludico, per donare / ancora un’ora / al magistero del proficuo // […]». Ed ecco poi un esempio più aderente al modello: «è come se andarsene non fosse che questo, / questo restare, e fare ancora un gesto / (è come se dirlo fosse soltanto vero, / e non più vero, ancora, del non dirlo) // […]». Nel testo che presenta l’opera, Alessandro Baldacci propone il quadro di una periodizzazione stretta. Fin dal suo esordio «che cade alla fine degli anni Settanta con Schedario (1978), dunque nel pieno della stagione segnata dalla nascita della nuova poesia italiana contemporanea, Mesa pone le basi per una scrittura che mostra quale proprio drammatico rovello l’alienazione del presente dall’esperienza della realtà». Il volume raccoglie i libri di uno scrittore di culto, ed esce dopo una lunga attesa in un momento storico fallimentare, di fronte al quale – con le denunce di Mesa – riecheggia di tutta la sua luce: Schedario (1973-1977), Poesie per un romanzo d’avventura (1978-1985), I loro scritti (1985-1995), Da recitare nei giorni di festa (1996), Quattro quaderni (1995 1998), chissà (1999), Tiresia (2000 2001), nun (2002-2008). Questione fondamentale è però spiegare la distanza di Giuliano Mesa dai reparti d’avanguardia, tenuti inizialmente d’occhio. Viene in mente il nome di Pasolini. Impegnato in una celebre polemica con l’articolo La fine dell’avanguardia (1966), lo scrittore sostenne che sul piano dello stile la descrizione dei versi lunghi di un avanguardista corrispondeva «perfettamente a ogni possibile descrizione di testo classicistico». Ecco in sintesi l’analisi di Pasolini: «l’uguaglianza di valore» instaurata tra tutti i tipi di parole; «‘la democraticità verbale’» che toglie – per protesta – le punte espressive alla lingua: tutto questo non produce che «‘sèguiti’ ritmici di parole livellate, allineate tutte su uno stesso piano, isocefale, isofone, frontali». Pasolini parlava di un «rifiuto ad esserci» che si manifestava con un effetto stilistico di appiattimento, rivelando alla fin fine il tabù e l’ossessione per la Realtà. Ma è, questo, un problema posto da un’angolazione un po’ diversa anche da Mesa. Lo si vede nella prosa dedicata a come ‘Dire il vero’, piccolo scritto apparso nel volume a più mani Scrivere sul fronte occidentale (Feltrinelli, 2002). Il rovello, ricorda Mesa, è ricucire lo strappo tra parola e mondo. «Un legame che rendeva coessenziali il modo di esprimere un certo contenuto e la verità di quel contenuto sembra essersi spezzato. Non la verità intesa come assoluto […], bensì come funzione necessitante, reciproca, tra modo e il senso del dire». Tornano in mente i versi di un prodigioso passaggio: «(di più falso non c’è nulla / che il voler dire il vero)». L’affondo senza filtro di Mesa parla allora di una «verità comportamentale – etica – nel pronunciare le parole: ‘dico questo perché davvero penso che possa essere così’, così stabilendo, con me stesso, con il mio pensiero, e con l’interlocutore, un rapporto fondato su un presupposto di verità. ‘Dire il vero’…». Giuliano Mesa è stato un maestro appartato. Il testo con cui si vuole chiudere per ricordarlo è tratto – come gli altri che abbiamo ricordato – dallo splendido Quattro quaderni. «(scritto, nulla // che non sia polvere, che vola, se ne va – / che non sia luce, che brilla, e dopo è buio / – e dopo è luce e dopo è buio, e dopo e dopo) // (non scritto, nulla // che non sia polvere, che vola, se ne va – / che non sia luce, che brilla, e dopo è buio / – e dopo è luce e dopo è buio, e dopo e dopo)».

(Daniele Claudi)


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