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GIOVANNI NADIANI, Guardrail, con un’introduzione di Flavio Santi, Ancona, Pequod, 2010, pp. 142, €13,00.

 

Nei due brevi testi in epigrafe, rispetti vamente di Beckett e di George Tabori, il lettore può trovare da subito due concetti chiave dell’intero libro: la scoperta e l’attesa. «Ora è del fango. / Poco fa era polvere. Deve essere piovuto», scrive Beckett, che a partire dalla lettura della realtà, attraverso la semplice concatenazione degli eventi, arriva alla formulazione di un’ipotesi che dovrebbe rivelare il fenomeno nascosto o semplicemente sconosciuto. Anche i per sonaggi di Nadiani – e in particolar modo il ‘noi’ della prima parte del volume – sembrano esistere solo per osservare, ascoltare, annusare le apparenze del mondo e poi, facendo tesoro della loro esperienza, formulare ipotesi sul futuro («a l’sinten cabëla / ch’u n’i srà sól ch’tegna / par la timpësta», ‘lo sentiamo già / che non ci sarà sole che tenga / per la grandine’), sul senso di un’intera vita («e donca / e’ stêr a e’ mond / l’è tot a cvè / tra l’aviês d’int un pöst / senza ch’u s’n’adega incion / e turnêr int un pöst / senza arcnosar piò incion», ‘e dunque / lo stare al mondo è tutto qui / tra abbandonare un posto / senza che se ne accorga nessuno / e tornare in un posto / senza riconoscere più nessuno’), sulla consistenza dell’identità e della comunità umana, come attesta la poesia manifesto che chiude la prima parte del libro: «nó / da par nó / a n’sen incion … / nó / s’a n’sen gnît / pr incion / a n’sen incion … // e nenca acsè / un dè / u i srà sèmpar / chijcadon / ch’u i tucarà / pr amór o par fôrza / d’tu só da lè / cla masa d’gnît / che fiê d’incion / försi pr un mument / j onich d’seg / d’chijcadon» (‘noi / da soli / non siamo nessuno… / noi / se non siamo niente / per nessuno / non siamo nessuno… // e anche così / un giorno / ci sarà sempre / qualcuno / a cui toccherà / per amore o per forza / di raccogliere / quel mucchio di niente / quella puzza di nessuno / forse per un attimo / gli unici segni / di qualcuno…’). E poi c’è l’attesa, a tratti straziante (come nel caso delle splendide poesie per la madre, tra le più belle sul tema insieme a quelle di Tony Harrison), sempre spietata, capace di vincere qualsiasi desiderio di fuga e, alla Sbarbaro, di mettere a tacere le ‘sirene del mondo’. I personaggi del teatro di Nadiani sono lì da sempre, immobili («ch’a n’sen mai andê invel» ‘che non siamo mai an dati da nessuna parte’), compiaciuti della loro immobilità («nó tot cvel ch’a vlen / l’è stêr a cvè incóra un pô» ‘noi tutto ciò che desideriamo / è stare qui ancora un po’), in attesa di avvenimenti ciclici come le stagioni o di chissà quale salvifico destino che non arriva mai. Il risultato è un’angoscia curiosa di sé stessa, che viene messa da Nadiani a disposizione di coloro che abbiano intenzione di abitare questa realtà – quella particolare realtà culturale che è l’Italia contemporanea – senza rinunciare alla fatica di vivere pienamente i conflitti e le assurdità di una vita che acquista senso solo nella lingua, ovvero nella comunione sia pure malriuscita e incerta della pronun cia e dell’ascolto.

(Simone Giusti)

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