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« indietro ANGELO CASÈ, Taedium Vitae 1986-1997, Milano-Lugano, Giampiero Casagrande, 2005
Di Angelo Casè (Locarno 1936 Minusio 2005), critico d’arte, scrittore e poeta, per oltre quarant’anni insegnante nelle scuole elementari ticinesi, collaboratore alla Radio della Svizzera Italiana con racconti e radiodrammi, l’editore Casagrande ha pubblicato l’opera testamentaria, Tedium Vitae. La raccolta poetica riprende, fin dal titolo, una tematica cara al pensiero leopardiano. Ma qui il fastidio per il quotidiano, l’oppressione del tempo, la per dita dei valori e dei sentimenti assumono un significato più aspro – perché la componente pessimistica nasce da un’esperienza di lotta contro il dolore fisico – e al tempo stesso più vitalistico, perché va al di là dell’esame di coscienza e dell’investigazione personale, per assumere un valore inesorabile e definitivo. Il Tedium vitae di Casè è un’attraversata della morte, un’esperienza che si anticipa nella malattia e nella consapevolezza della disfatta, ma che sembra non esaurirsi con gli ultimi irriducibili atti e sentimenti. La morte è qui descritta come un passaggio, un momento di un viaggio compiuto in vista di un simbolico risorgere. Si veda Infido il sollazzo dalla sezione Sul discrime: «Fu l’incipit l’atroce male nel corpo, la subdola / l’ubriaca previsione dell’imminente fine – l’epilogo, / ugualmente feroce, sarà il silenzio che perdura nell’animo / trafitto. Aspro resiste il dubbio della farsa, infido / il sollazzo ti tormenta come a lungo nella carne / il virus maramaldo. Quale tristizia nell’aria / che s’imbruna, ora che la memoria sola ti soccorre / di uno sguardo, l’eco ti rallieta di una voce: nel nulla / sommerso, liane saranno che afferri per scampare». La vita si rivela allora nel suo lato più oscuro e incognito, mentre l’imminenza della fine appare come un nuovo enigma dell’essere. Questi temi, ricorrenti, rendono compatta e coesa l’intera raccolta, che riunisce duecentocinquanta sette testi di un decennio, dal 1986 al 1997, suddivisi in sezioni e nei tre tempi di «Preludio», «Interludio» e «Postludio». Un libro copioso, dunque, talvolta ripetitivo, con un preciso disegno narrativo – sono visibili elementi della difficile condizione auto biografica e psicologica del malato –, dove sono poche le concessioni alle brevi illuminazioni, e dove sono invece predominanti le descrizioni di incontri, di piccoli fatti quotidiani. Predomina il verso lungo, libero, ritmicamente elaborato e di matrice pavesiana, che è il segno distintivo di una musicalità lenta, che va ben oltre l’endecasillabo, respinto quasi regolarmente, forse perché sentito come troppo insidioso e usato. Eppure, anche in questo autore che sembra voler andare controcorrente, che sembra voler spingere lontano da sé – anche tematica mente – i percorsi della ricerca poetica novecentesca, riemergono con evidenza i debiti letterari: la musicalità di certe strofe lunghe, così come la presenza di parole in accezione desueta denunciano il compromesso con la poesia dannunziana; così come certe concessioni al quotidiano sembrano invece guardare, con brusco movimento di sguardi, alla cultura crepuscolare. Ma altrove si rintracciano altre autorità di riferimento, come Pascoli, per l’uso di certe figure onomatopeiche e per le immagini rurali e naturalistiche; o come Ungaretti, di cui si rifiuta la ricerca di sintesi linguistica e la funzione emotiva della lingua, ma di cui si assumono invece certe figure simboli che, come quella dell’uomo-nomade, tragicamente alla ricerca di una certezza temporale e spirituale. Altrove si insinuano rinvii al mondo poetico montaliano, con le sue sofferte ama rezze, come in Non ti affliggere, che ricorda una più celebre anguilla: «Vuoi sempre avanzare controcorrente come nuotano / le anguille dal mare a Sesto Calende fino a queste fosse / del delta, sfiorate dai venti delle prealpi. Ma tu, pure / scaltro quando vuoi, non saprai mai essere un’anguilla, / forse la placida tinca che s’infanga insolente e tra sé / rifugge le altrui mire. Non ti affliggere, pensa che il tempo / raggiusta in bene in male tutta una vita, sia pure / scompigliata dalle vanità delle anguille, dall’abulia / sorniona delle tinche. Abbi dunque fiducia». Raffaella Castagnola
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