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« indietro EDOARDO SANGUINETI, Varie ed eventuali. Poesie 1995-2010, Postfazione di Niva Lorenzini, Milano, Feltrinelli 2010, pp. 168, €18,00
![]() Se è vero che una «umana partecipazione all’umano» – a detta di Niva Lorenzini in postfazione – è la voce di congedo di questo libro pubblicato postumo (una filastrocca: «le befane, che vecchie streghe, e brutte! / […] / le calze stanno sempre piene, piene: / sembrano mostri, ma sono sirene:») la stessa voce non si fa, forse, altrove nel testo, allo stesso modo, disumana all’impatto con una materia di sumana («operando operose operazioni, / raschiando, rosicchiando, rovinandomi, / aprendo in me acerbissime aperture:»), o sovrumana (un’analisi metapoetica: «in strutturati complessi: verifica / caos, il caso: (e caos, cosa vaga, / è causa): (è cosa viva): e si vivifica / (ma con il suo no): è scena che divaga») al limitare di un ambito sovrumano? In ogni caso, sa comunque di sovrumano la capacità ancora ruminosamente onnivora di alternare, alterare, variare codici linguistici, riproducendo, istantaneamente quasi, e puntualmente, con radicata, caustica ironia, aspetti di un reale assimilato in abitudine e assorbimento passivo di ciò che ‘gira’ intorno di illusorio, propinato e millantato in nome di un rinnovamento, financo di un miglioramento derivante dall’utilizzo e consumo immediato di ‘novità’, ossia improvvisazioni, sollecitazioni, involuzioni o sviluppi del cosiddetto progresso, del mercato, del pensiero, della politica, dello stile di vita da parte dell’uomo, individuo, ovvero cittadino spettatore/consumatore. Registro argomentativo dal tono satireggiante che costituisce una costante imperterrita della poetica sanguinetiana lungo tutto l’arco della sua produzione artistica. E difatti, una linea di continuità con le raccolte precedenti spicca quantomeno nell’ultima sezione, «Nove filastrocche per Luca» accomunate da una resa percettiva minuziosa della sensibilità infantile a un paio di testi pedagogico-fiabeschi canti lenati di «Purgatorio de l’Inferno» del ’62. Con l’espressione, dimessa in una certa misura, Varie ed eventuali, di solito, in linguaggio burocratico – allineato sugli antecedenti Codicillo e Corollario – l’ultimo punto all’ordine del giorno di una qualsivoglia, tanto diffusa quanto estenuante, inappetibile, agguerrita assemblea con dominiale o sociale etc., è come se la parola passasse alla platea, a chi, fra i suoi componenti, volesse dire la sua, lasciando dunque uno spunto di passaparola al lettore; ma esponendosi anche l’autore, viceversa, nella veste dell’interlocutore convenuto che prende il microfono di fronte al mondo ‘plateale’, assembleare, stile forum, blog, talent, reality, talk-show. Gioca su questo sdoppiamento di senso il titolo, che oltretutto finge di porsi, con una certa dose di umiltà dissimulata, sia quale raccolta di testi sparsi, sorta di zibaldone (varie), sia quale proposta di testi in divenire, ancora in fase di cernita, scelta, stesura definitiva, sorta di work in progress (eventuali); indicazione contraddetta al primo approccio di lettura che si vede sfogliare un impianto organico e cronologico di composizioni certo non provvisorie di argomenti poliedrici. In più, nel contempo – se è concessa una licenza poetica – si può azzardare che come tempo sta a temporale, in questo contesto evento stia a eventuale nel senso di qualcosa di possibile, di probabile a verificarsi, incombente sotto un clima minaccioso: come quello che prelude un temporale imminente, appunto. Diversa, a differenza del passato, è l’attenzione riservata al tema della perdita, non tanto riguardo la morte altrui, degli amici più cari, come Luciano Berio, per il quale il tono sembra anzi uniformarsi a quello del sonetto a suo tempo dedicato ad Adriano Spatola per esempio, forse ora con una commozione meno trattenuta («i mortali, agli immortali, […] non è lecito […], piangerli, neanche, mai: / (ma se è per questo, poi, però, ci pensiamo qui noi, adesso, per fortuna, per forza:)»); quanto piuttosto rispetto al disfacimento del proprio, di corpo, da decenni motivo di scherzo, di autosarcasmo, autodileggio un po’ scaramantico che, peraltro, perdura nel «Similsonetto speculare»; talvolta, però, va in sordina l’eco beffarda, sarcastica e affiora un sentimento struggente, accorato, meno celato aprendosi al pianto, al dolore vero, soggettivo e oggettivo insieme, dell’io poetico. Sintomatici sono «Tre sonetti verdi»: «fatalmente fetale, io più non oso / dire a te, figlio, la mia cruda sorte: / il mio silenzio è il mio lamento, e un forte / grido è il mio chiuso pianto silenzioso: // ma che dissi! io deliro, inquieto, ansioso: / perdona il genitore: e con assorte / voci io ti cullerò: dolce, amoroso, // placida pace, in ninnenanne accorte»; e più oltre ancora: «il mio universo è in te, florida figlia: / tergi, ah tergi il tuo pianto disperato: / madre a me sei, sei tu la mia famiglia: / mi sei sorella, in cuore, oh me beato! // […] a te ti faccio l’occhiolin di triglia, / il piedino, il solletico col fiato:». Una lontana, impercettibile sintonizzazione sull’atmosfera del testo ungarettiano per la morte del figlio sembrerebbe aleggiare a ruoli capovolti, fra qualche immancabile spiraglio dal sapore trecentesco, alla Jacopone, condita da un tocco burlesco domestico e sdrammatizzante. Ma poi, subito la pagina dopo, spunta «Geno/va»: l’intimismo si dirada e si fa largo l’esterno, un amore ancorato alla città natale («Guardala qui, questa città, la mia:»), come inquadrata dall’alto in un unico sguardo a colpo d’occhio, riprodotta a mezza via fra Lisbona, San Francisco e qualcos’altro, mitteleuropea, mitteltutto («Vedilo, il mondo: in Genova è raccolto»), da parte di un ‘irriducibile’ che si svela offuscato d’amore e affetto smodati, qua si al pregiudizio, per la propria città. Più avanti «Canzonetta delle Canzonette» rifà il verso al Cantico dei Cantici («ah, ruscelli del Libano / che le labbra delibano! / azzurra mia fontana, / umana, disumana!»), e, di sfuggita, al Pascoli del Ritorno a San Mauro («vedi, di là dal muro, / chiaro, su sfondo oscuro, / improvviso si affaccia, / per me, un muso, una faccia:»). L’invettiva, lo sdegno politico dell’intellettuale militante, si riversa tutto sull’«Itaglia» tutt’oggi dantesca col corteo dei suoi malèfici «berluscocchi» mentre acrostici pittorici affrescano enigmatiche stanze (l’inseparabile Baj, Nespolo, Pozzati…). Fedele alla linea, il componimento finale chiosa un «viva la Cina», meno ironico che iconico, forse un po’ vetusto, da «arciobsoleti», utilizzando l’appellativo coniato per condividerlo con «il novissimo Pagliarani». Tuttavia, «caro münchhausen», ci aveva raccomandato diverse pagine prima, «continuaci a esisterci, / in questo mondo, buonamente, e a scriverci:». Che nel libro si attui un continuo rimescolio delle carte – un’operazione di autocitazioni, rivisitazioni, rima neggiamenti, smontaggi e rimontaggi di propri temi e scritture – come dentro una casseruola ‘satura’ di ingredienti, contorni e condimenti («Tre quartini d’olio d’oliva in forma di quartine», «Distichetti alfabetici artusiani»), un consuntivo critico in versi, insomma, della propria poetica (si rivedono «strutturati complessi», «complessioni strutturali», «palude di putredine»), parrebbe manifesto fin dal punto di partenza, fin dai giovanili «Frammenti» su Don Chisciotte del ’49. Come Münchhausen e Don Chisciotte, sono favole Lucrezio, Ovidio, Eschilo; Dürer, Neruda, Saramago; Cenne de la Chitarra, Michelangelo, Mantegna: favole tradotte, imitate, commentate, condivise, ma anche ‘verità’ (nell’accezione epistolare del ’57 rivolta a Pasolini). Per loro tramite lascia in eredità una storia – una ricetta, rimanendo in cucina? – che veleggia, sulle ali dell’utopia, a cavallo fra antichità del presente e attualità del passato in un contatto vertiginoso, annientando le distanze fra sogno, ragione, conflitto di classe, infanzia, invenzione, bugia creativa, menzogna, errore, verità, ‘giuochi innocenti d’amore’, libertà, fantasia, riscatto, scaltrezza, apertura al mondo, alla luna; con balzo di gatto, in agguato lupesco, imprendibile ‘oulipuzziano’.
(Giuseppe Bertoni) ¬ top of page |
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