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« indietro GIOVANNI ORELLI, Un eterno imperfetto, Milano, Garzanti, 2006
Poeta e critico letterario, per anni docente di italiano al Liceo di Lugano, Giovanni Orelli è soprattutto noto per la sua scrittura in prosa: ha pubblicato i romanzi L’anno della valanga (1965), Il gioco del Monopoly (1980), Il sogno di Walacek (1991), quest’ultimo di discreto successo e tradotto da Gallimard (1998). Ma Orelli ha, prima di questa raccolta garzantiana, già fatto sentire anche la sua voce di poeta, con alcuni testi in dialetto leventinese, Sant’Antoni dai padü (1986), con Né timo né maggiorana (1995), L’albero di Lutero (1998) e con le più recenti Quartine per Francesco. Un bambino in poesia (2004). Un eterno imperfetto manifesta, fin dal titolo, il desiderio di giocare con le molteplici possibilità della lingua: l’imperfetto è allora il poeta, o l’uomo comune descritto in alcuni brevi squarci di vita quotidiana; ma l’imperfetto è anche un tempo verbale. L’intera raccolta è infatti scandita in cinque grandi parti (a loro volta suddivise in sezioni), che riguardano i «Tempi» (declinati dal presente all’in finito), i «Nomi» (da quelli comuni ai superlativi), le «Preposizioni» (da quelle semplici a quelle articolate), le «Proposizioni» (dalle avversative alle temporali), chiuse dalla quinta sezione di «Varia», che raccoglie poesie dal titolo emblematico di «Metafore», «Anacoluto», «Iperbole», con concessioni ai numeri e ai giochi consonanti. In apparenza il libro è un tardo omaggio agli esercizi di sperimentazione grammaticale in voga negli anni Settanta. La coppia di sonetti sui Nomi propri (onomastica ticinese) e sulla Toponomastica (ticinese) sono affini a certi giochi ludici alla Umberto Eco, il quale si limitava però al puro divertimento, con vistose concessioni all’ironia e al paradosso, senza pretese ontologiche. Sono più interessanti quei testi che, al di là della capacità di saper abilmente danzare con le parole e di costruire con esse delle brevi folgorazioni, contengono anche una riflessione sull’uomo, sulla sua precarietà e fragilità. Tornano in nuova veste immagini di tipo crepuscolare, che ben si intonano all’argomento prescelto per la sezione, quello dei «Diminutivi». Ecco allora un testo dedicato alla figlia Chiara, Diminutivi 2, nel quale l’autore sembra identificarsi col poeta-saltimbanco di Palazzeschi o col poeta di provincia di gozzaniana memoria: «Come mi sento? (l’hai chiesto / oppure ho sognato che lo chiedi): / sono un ex professorino un ex / soldatino, ex giocatorello di scopa / che ha perso la memoria delle carte: si può dare / di peggio? […]». Il paradosso, il divertimento linguistico, la semplicità delle immagini e la giocosità delle rime ci permettono di sondare alcuni misteri del mondo e dell’uomo, di quell’eterno imperfetto che dà il titolo al libro. Senza risolverli, naturalmente, ma tuttavia percependoli in maniera leggera, attraverso cantilene infantili, proverbi, rime meccanicamente combinate, lapsus e calembours. Si danza e si gioca, con la disinvoltura dei ragazzini, ma anche con lo sguardo disincantato del l’uomo adulto, che sa cogliere, nelle piccole cose, gli impercettibili passaggi tra finito e infinito. La grammatica (ma anche le strutture metriche e ritmiche della tradizione poetica, perché si trovano sonetti e gruppi di quartine, endecasillabi e settenari), che delinea chiaramente i confini di questi testi, mostra dunque i meccanismi delle associazioni e delle variazioni, ma evidenzia anche le sue imprevedibili eccezioni, le assurdità, le ardite combinazioni. È regola, ma è anche infrazione alla regola: si presta allora bene come metafora delle norme (e degli scarti dalla norma) del vivere, come suggerisce l’ultimo testo, che si chiude con un’ironica firma d’autore: «Un poco di grammatica fa bene / due gocce al dì in un bicchiere d’acqua: / osservare le feci quando evacui / perché la lingua ha in sé un suo veleno; / di grammatica un poco fa più belli: / è deposito fossile di stile / cioè dell’espressione: né pallida et umìle / serva né passe-partout per stenterelli; / di grammatica un poco fa più belli / lo dice il prete il politico l’oste / il lapicida i pittator di croste / lo dice un santo: san Giovanni Orelli».
Raffaella Castagnola
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