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ITALO TESTA, La divisione della gioia, Massa, Transeuropa (“Nuova poetica”), 2010, pp. 79, €9,50.
 

 
Che una musica possa servire da colonna sonora per i momenti più intensi della nostra vita è un’esperienza in noi ben radicata, soprattutto da quando la musica si è fatta facilmente trasportabile. Questa premessa ‘di costume’, probabilmente tanto più valida per la generazione che ha incominciato col walkman, cioè di fatto, uno, massimo due LP trasportabili per volta (mentre un IPod è un archivio larghissimo), serve a prendere la temperatura ‘sentimentale’ del libro che omaggia, nel titolo, le romanticissime sonorità post-punk e cold wave dei Joy Division. Testa (n. 1972) è attento da sempre a disporre la sua poesia in forme-sequenza ben calcolate, tracks (per restare in musica) di lunghezza diversa, scomponibili e soprattutto seriali, a volte sollecitando anche le forme la cui serialità è sancita dalla tradizione: si veda, qui, il sonetto che chiude il libro, dove (sobre el volcán la flor!) i fiori abbandonati dell’amore finito rinascono, nella «felicità inattesa / delle tue piante ancora vive, e nuove». Più in particolare, al centro di La divisione della gioia si situa un lavoro sulla forma lunga: pezzi di poema sono rimontati insieme per formare essi stessi un poema. Siamo dunque nel nocciolo formale di ogni anima modernista, dove anche il frammento si piega alla necessità sempre possibile di un racconto (finiti i miti resiste ancora il mito del racconto). Oltre la forma c’è poi il centro immaginativo del libro, filo modernista esso stesso, cioè la pittura di Edward Hopper, nella quale non è il simbolismo della luce, la sua metafisica, che conta, ma la luce del sole sui palazzi in un particolare momento, l’oggi. L’immobilità liquida della luce sulle cose è un’ipotesi di immanenza (todayness avrebbe detto Stevens). In poesia la cosa si traduce nell’esposizione della vena scopertamente lirica: immagini che corrispondono ad altrettanti momenti di esperienza vengono bloccate e separate dal flusso del tempo. Non mondi, dunque, ma soglie di mondi, prendendo il rischio (un residuo?) di lasciare affiorare, a tratti, una vena quasi crepuscolare: per es. le «statue / mute che si tengono i gomiti / nell’aria domenicale». Per sfuggire alla realtà tutta lin guistica di tali regressioni novecentesche, più che con gli squilli di luce («appena la sera / ci abbraccia nel suo artiglio dorato»), si tenta di dialettizzare l’alone di vuoto intorno alle nostre vite tematizzandolo come alienazione del senso. Sono reali come noi «le merci esposte nel silenzio / di una vetrina», e, quasi a prescindere da noi e su scala più grande, reali sono i fondali dell’alienazione post-industriale: come le immagini di Porto Marghera (nella sezione Cantieri) proposte in in atmosfere poetiche che si ispirano a Deserto rosso di Antonioni. Va notato che il dato della loro semplice oggettività non basta per poetizzarle, ma si interviene per via sentimentale, a cominciare dal tocco pasoliniano (anche formale, per la disposizione dei versi come fossero distici elegiaci, se pensiamo infatti agli epigrammi di Umiliato e offeso, del 1958) di Romea mattina, così che pale meccaniche e «cuore tremante», sanno tanto dell’aggiornamento (intimista, a-populista) del pianto della scavatrice. Le merci in vetrina si trovano invece nella storia d’amore raccontata a partire dalla parte centrale del libro e, sorprendentemente, servono a rinforzarne la dimensione di canzoniere che è sua. Se ci sono dubbi su questa si legga il verso: «la bella mano piegata ad arco». Soprattutto, quelle merci sono prossime a emblemi, immagini di vanitas: «di questa vanità che ci afferra / e scuote» (così come il ripe tuto «non c’è altro», o ancora le contabilità a perdere di «una partita dove vince / sempre il banco contro il tempo baro», «questo è il conto / e noi gli zeri stornati dal resto»). Le tipiche «cisterne sui tetti» di Hopper sono allora più che correlativi, oggetti lirici, e trattenerne la luce che le bagna vuole dire che «nella luce inesausta ci apriamo all’oscuro». Sono situazioni, lo si suggeriva, ancora molto novecentesche, sia linguisticamente che dal punto di vista immaginativo. Più presenti qui che in altri momenti del lavoro di Testa stridono a volte con quella che è l’altra tonalità del libro, quella più acida della colonna sonora punk, forse più immaginata che riascoltabile, per quanto finisca davvero per entrare nelle vene della forma lunga, per pulsare nell’alternanza degli enjambements che fanno correre il testo e gli stop, anche dissonanti, per cui invece un verso è tutta una frase e tutta una frase un verso. Strappa via così gli effetti, classici, di una sintassi a volte coscientemente sostenuta e dilazionata (anafore a inizio di strofe, disgiuntive: oo …, ipotetiche: sese …). Che non ci sia nulla di pacificato in queste ricerche contrapposte, ce lo dice più che l’evocazione della caccia linguistica dell’ultimo Caproni («oggi è tornata la bestia bianca / dalla pagina è balzata alla mente»), il come suoni più dura la corrente sotterranea di quella colonna sonora: non così definita da sentirsi di per sé, ma abbastanza per distorcere il suono dei versi, introdurre echi, rimbalzi. Del resto la sfasatura è, generazionalmente, costituzionale: quella poesia del Novecento abbiamo studiato e intanto quella musica, davvero tutta diversa, ascoltava mo. Andavamo insomma a due velocità. In questa ricerca a spiccano due testi bellissimi in fuga dalla struttura (né poemetti, né troppo corti, di versi e forme del tutto irregolari), veri e da riascoltare: ogni notte, l’ultima e, in particolare, Skyjuice (= fami liare, per acqua): «dal succo del cielo / un’altra volta, ancora / solo lampi inconcludenti dal mare», e «i muri lo sapranno / il cielo lo saprà / il mare avrà memoria», «eppure tremi, e non fai finta, / godi davvero ad occhi rovesciati».

(Fabio Zinelli)

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