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GIAN MARIO VILLALTA, Vanità della mente, Milano, Mondadori, 2011, pp. 163, €14,00.

 

Villalta è uno dei principali rappresentanti di una generazione (quella dei nati negli anni ’50) che potrebbe ancora rivendicare di aver ricevuto in eredità diretta la possibilità di praticare una soggettività lirica di tipo modernista. Questa, dopo il passaggio delle avanguardie, prima, e del post-modernismo poi, è diventata una possibilità tra le altre. Semmai si è aggiornata con massicce dosi di poesia non italiana a correzione della dominante leopardiano-petrarchista. Vincitore dell’ultimo premio Viareggio per la poesia, questo libro nasce dalla concrezione di un numero consistente di testi nuovi ad un percorso di antologizzazione da raccolte precedenti. Si tratta, nel complesso, di materiali scelti per comporre un’‘auto storia’ del soggetto, o piuttosto la storia della sua saturazione, trovandosi ormai questo essenziale ‘strumento’ lirico ridotto ad una sorta di setaccio che non filtra più le impurità e i grumi del mondo che lo circonda. Colpisce come il centro sia ‘fisicamente’ occupato dalle poesie in dialetto di Revoltà, soprattutto se pensiamo come parte dei primi riscontri di Villalta poeta siano venuti proprio dalla parte più veneta della sua scrittura. Da subito questa si è accompagnata ad una poesia italiana al suo opposto: lontana da ogni espressionismo terragno, orientata a modelli di una monolingua lirica, pura e sperimentale: da Celan allo Zanzotto più cristallino e petrarchista. E Zanzotto (alla cui opera Villalta ha prestato cure importanti) è il pilastro su cui poggia l’immaginario stesso di Villalta: garante di territorialità, dell’archeologia del genius loci, irraggiante un’ermeneutica affilatissima pure se radicata nella propria micro-provincia: un continuo esperimento sulle radici, non certo come trionfo identitario, ma come sema su cui misurare tutte le strutture (lingua, psiche, politica), e sia ciò pure senza evacuare il proprio orizzonte sentimentale. Lo stesso Villalta è poeta resident, perché vive e lavora a Pordenone dove peraltro è tra gli animatori di un importante festival letterario. Ora, la presenza del dialetto al centro del libro rappresenta un’ipotesi di abitazione, per quanto minata alle fondamenta. Villalta da quel mondo e da quell’antropologia non si è allontanato ma è quel mondo che invece lo abbandona: il dialetto «’l me se à / revoltà» (‘mi si è rivoltato’), «so’ sta’ bandonà / te ‘sto discorso qua» (‘sono stato abbandonato in questo discorso qua’). Ne viene fuori un effetto di vertigine che investe molti altri testi territorialmente implicati. Si vedano i frequenti attraversamenti del paesaggio, tra il ‘pieno’ di una bellezza quasi geologica dei luoghi e i vuoti da post-industrializzazione, con la sua coda di case abbandonate (che sono altrettante ipotesi di abitazione azzerate). Le personae del poema (l’io lirico e anche il tu), sono rappresentate nell’atto del guidare: la ricerca dei limiti del paesaggio avviene on the road, ma sul posto. L’emorragia di senso del genius loci colpisce i fondamenti della Storia, rappresentabile (di nuovo con Zanzotto) come una sorta di ossario: «Pesta a ogni passo la terra che è stata ossa / […] / la voce dei morti / è questo cedere appena del suolo / nelle gambe». Che il cedimento nasca dall’interrotta fedeltà nella trasmissione generazionale è una spiegazione che affiora perfino troppo scopertamente nelle poesie di Mia colpa (dove, per l’abbandono del mondo contadino, «mia sarebbe stata la colpa / della sventura a venire») con corollario di condanna in toni da morale biblica: «Ora che il male ha contagiato anche il sole». Ma la diagnosi non può essere (solo) questa, anche se non c’è dubbio che è connaturata al formarsi della coscienza del decadimento di una comunità. E il tema della perdita dell’innocenza è riproposto anche per altre vie. Per es. col ricorso ad ‘allegorie’ della vita animale, vita che, sulla traccia di Jacques Derrida (tranne quando, tradizionalmente, gli animali funzionano da correlativi oggettivi: «tossiscono le volpi / dietro le sagome a forma di salici»), è anti-umanista e veglia alla decostruzione dell’ontologia metafisica di tipo heideggeriano. Si leggono dunque le prose crudeli di Kindergarten, con varie, naturali crudeltà contro gli animali, o altrove la crudeltà ‘neutra’ degli animali contro sé stessi (le trote d’allevamento divorano «la farina delle madri»). Nel complesso, la tematizzazione dei rapporti di distruzione e di abbandono, traccia la mappa di un ‘pessimismo lirico’ che se è inerente al mezzo e novecentesco, rappresenta assai efficacemente la sostanza sociologica di un degrado strettamente contemporaneo. Sorprende invece un po’ la scelta fortemente autoriale di connotare il congedo dalla rappresentabilità del mondo sotto il segno della vanitas. Evidente fin dal titolo, è ‘giustificata’ in maniera articolata in versi dal sapore davvero metafisico e barocco: «tu / simboleggi / e basta, a qualsiasi costo, / vanamente, come dev’essere, vieni // vanità della mente / senza chiedere se ci credi / incurante alla fine del vero». E si tratta di una dominante che batte anche altrove: «Avvengono molti contrari, / franano su di noi e noi li adoriamo / in nome dell’invano». Di fatto, conferisce al libro una patina di iperclassicismo certo molto consapevole ma non sempre complementare ai suoi fermenti lirico-antropologici: quasi bastasse a sé stessa e più che servire a ‘straniare’ il dominio letterario della parola sul mondo, lo restaurasse. Non ne è comunque toccato un altro momento che, teoricamente, potrebbe alimentare il trionfo della vanitas, quello delle bellissime poesie (Atto unico) di lutto sulla morte del fratello («la parola che hanno usato è incidente»), dove la non-interpretabilità del dato invece di imboccare la strada del simbolico preferisce la risposta cattiva, a muso duro: «e non ho portato fiori, / perché li ha fatti la terra, i fiori, e se li prenda». Certo, più volte la combinatoria degli elementi lirici puri (parole come: pane, latte, montagne, cenere, luce) coglie nel segno, così come funziona la riflessione dello scrivere sullo scrivere: «quel bianco immenso dove mi svegliavo […] restavano tracce di realtà / anche dove non si vedeva niente di riconoscibile, / anche dove non c’era scarto di immagine / o residuo di colore per collocare un oggetto, / la parte nascosta di un paesaggio, / lo sconfinare del corpo dal pensiero». È una riflessione a cui è consacrata, diagonalmente, un’intera sezione, La notte di San Niccolò, posta sotto la tutela della pittura di Nicolas de Staël, dove la meraviglia infantile dei regali che vengono dal buio della notte è quella del pittore che nelle grotte di Altamira vede sorgere dall’oscurità le figure dei graffiti. La lingua si fa qui felicemente icastica («Si adegua a volte alle forme dei corpi / la luce dei lampi»), con disegni concreti imbriglia provvisoriamente situazioni astratte, perché se la lettera (la scrittura), ha vinto sulla voce (il dialetto), gramma non ha ancora vinto la sua battaglia sul mondo delle immagini e comunque non la vincerà (è questa la vera vanità?).

(Fabio Zinelli)


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