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MICHÈLE FINCK, La Ballade des hommes nuages, Paris, Arfuyen, 2022, 272 pp., 18,5 €
 
L’elegante collana di poesia «Les Cahiers d’Arfuyen» giunge al suo due centocinquantesimo volume con una nuova silloge di Michèle Finck, poetessa, traduttrice, saggista e docente universitaria; silloge la quale fa seguito alle quattro pubblicate in precedenza: Balbuciendo (2012), La Trosième main (2015), Connaissance par les larmes (2017), Sur un piano de paille. Variations Goldberg avec cri (2020). La Ballade des hommes-nuages non esula dal percorso di ricerca sin qui tracciato dall’autrice, che è quello di convocare in poesia non già l’arte in sé (in senso, se si vuole, romantico), bensì il singolo oggetto artistico come un blocco esperienziale a sé stante, in quanto portatore di traumi, propri o altrui. Quello che comodamente chiamiamo ‘dialogo interartistico’ è infatti qui privato del la sua condiscendenza; esso sussiste, piuttosto, in forma privativa, prosciugata, ossificata, o, per usare un termine bonnefoysiano, «excarnée». Non è un caso, come Michèle Finck ricorda nella propria biografia (p. 269), che tale ricerca poetica sia segnata dalla scoperta di un testo di Yves Bonnefoy (poeta a cui ha dedicato la sua tesi di dottorato e molti lavori successivi): À la voix de Kathleen Ferrier (Hier régnant désert, 1958). Kathleen Ferrier, una delle poche autentiche voci di contralto[i], interpreta Das Lied von der Erde di Gustav Mahler con una voce spezzata, spasimante, e come sgorgante a fiotti da telluriche, minerali profondità. «Plus que toute autre», scrive Bonnefoy, «Kathleen Ferrier a su faire rendre à sa voix – la voix, instrument suprême de musique et suprême conscience – ce double accent [espoir, désespoir] qui renferme la nature même de l’âme». «Ici […] nous ne savons plus », aggiunge, « s’il faut nommer cet art et son interprète une poésie ou une musique»[ii]. Ci troviamo, infatti, proiettati retrospettivamente in quel grado zero dell’espressione in cui la voce è nuda ed esposta, prima di tramutarsi in arte, parola e canto. In un altro componimento, dal titolo: Mahler, Le chant de la terre (La longue chaîne de l’ancre, 2008) Bonnefoy sembra richiamare a sé il ricordo mitico della ninfa Eco, il cui corpo prosciugato è, come ricorda Ovidio nelle Metamorfosi (III, v. 398) voce soltanto (vox tantum atque ossa supersunt): «Plus rien de son visage, rien que son chant »[iii]. Quel primo incontro con una voce scabrosa, voce di terra e di fuoco rappreso, sembra permeare da sempre il tessuto della poesia di Michèle Finck. In quella che può definirsi una poesia di rimemorazione sembra correre infatti un filone magmatico sotterraneo dal quale emergono in superficie soli di frammenti mnestici. Frammenti spesso nominali perché sorgivi, e situati nella dimensione arcaica dell’ante-lingua. Nel poema liminare Entaille dans l’intime (pp. 9-15), mentre l’annominazione evidenzia il tratto ruvido e scabroso della dentale, la parola è un inciso, o, per riprendere la metafora carnale qui ricorrente, un’escissione: intaglio compiuto su un corpo pietrificato, o più propriamente, lignificato. Lo spazio interlineare, spalancato, apre un varco tra le parole irrelate come pietre emerse. Solo il ricorso alle varianti allografiche (corsivo, neretto) consente, unitamente al virgolettato, di riconoscere nella nebbia vociferante che avvolge i frantumi la provenienza di alcuni di questi. Ed ecco riaffiorare ad esempio, tra le altre voci drammatiche, la voce lontana di Yves Bonnefoy, come risucchiata su dal profondo dalla memoria, forse grazie alla forza attrattiva esercitata dall’intertesto: la silloge precedente si apriva sugli ultimi entretiens tra i due all’Hôpital Cochin[iv]. Sulla voce-altra del poeta amato, contrassegnata dal corsivo, ecco la sin tassi riannodarsi in qualche punto per riportare lacerti di conversazione, come quello sulla follia del poeta-amico Paul Celan: «Vertige la voix d’Yves Bonnefoy au 63| Rue Lepic. […] | «La médecine psychiatrique a fait|Des progrès depuis Paul Celan.»|L’être qui souffre n’a pas de nom »[v].
Come nelle sillogi precedenti, Michèle Finck disidentifica la propria voce, la oggettiva attraverso voci di supporto e protesi citazionali. Così, ad esempio, il tema o motivo dell’«assenza del nome» che costituisce l’ossatura, insieme all’esperienza corporea della pazzia, dell’intera raccolta, è mediato da un dramma musicale di Schönberg, il Moïse et Aaron. L’epigrafe ne trascrive un frammento: «O Wort, du Wort, das mir fehlt!/Ô Mot, toi Mot, qui me manques!», il quale ritorna periodicamente, come un leitmotiv, in molteplici variazioni («Manque toujours mot: |“O Wort…”», p. 44; «O Wort…[…] Tenue de note au violon serre gorge| Jusqu’à glotte Tout devient noir|Moïse-Schönberg peut plus plus parler», p. 100). L’«œuvre métaphysique» (p. 94) di Schönberg, in quanto capace di sublimare il dolore riverbera, con la disincarnata e siderale voce dei suoi personaggi, lungo tutta la raccolta come esperienza iniziatica, scioccante, di ascolto («Écouter Moïse et Aaron. Choc| Électrique dans tout le squelette. Feu| Dans crâne», p. 40), mentre l’oratorio mistico L’Échelle de Jacob nell’esecuzione di Boulez sembra sollevare per un momento l’ascoltatore dal peso del silenzio morto della rassegnazione grazie al silenzio vivo dell’interrogazione: «Le mot qui manque est une question» (p. 104). La privazione di parola, o meglio di logos, è quella del malato psichiatrico nel suo mondo ospedaliero, oppresso da camicie di forza, o preda di amnesie, allucinazioni, movimenti corporei involontari, sillabazioni compulsive, ecolalie, silenziamenti o anomie, come attestano i frequenti punti di sospensione. È questa condizione che la poesia cerca di riparare, come essa stessa si dice tra sé e sé, in una sorta di aparté teatrale: «(Être poète:|Passer vie|À chercher|Mot qui manque») (p. 15).
La silloge si apre significativamente con una caduta agli inferi («Catabase», pp. 17-74) seguita da una risalita verso la luce («anabase», pp. 175-138) e da un intermezzo solare e marino rigenerativo posto sotto il segno della bilabiale mormorante e riposante («Ce que murmure mer», pp. 139-178). Una nuova fase si apre con una sintesi mentale tra salita e discesa, coincidentia oppositorum figurata da una crasi, «Catanabase» (pp. 179-230): «En un seul point|Mental […] À la fois| Je Descends…Je Monte» (p. 181). Il motivo ‘catanabatico’ si ripropone, ad esempio, in Sprechgesang, il canto parlato in memoria di Schönberg : «Je descends/Et je monte/Simultanément/À la recherche/Du mot/Qui manque/Les contraires/Fusion nent/Dans mon corps/Dans mon esprit» (p. 182). È la dissoluzione della logica in un continuum vocale che richiama a sé l’infanzia, o la maternità, sebbene ancora sotto forma di alienazione : « Je suis en tourée/De nouveaux-nés/Qui nagent/Au tour/De moi/Et en moi» (ibid.). La quinta sezione, portatrice del tema («Suite Nua ges», p. 231-255), contiene una serena «suite» di variazioni in stile bachiano sul termine-chiave «nuage», mentre l’«envoi» (congedo), in controtendenza rispetto alla tradizionale e formulare brevitas è costituito da una trenodia intitolata appunto Miserere. Come da sottotitolo didascalico, si tratta qui di un vero e proprio «chœur a cappella», visivamente riprodotto dalla disposizione diffusa, a costellazione, delle parole sullo spazio della pagina (pp. 259-263).
Se la malattia mentale come espulsione della parola dal corpo e sua riammissione in forma provvisoria e deviata (disfunzionale: non preposizionale e non articolata, ecolalica) è il tratto portante di questa raccolta, la musica, esperita per lacerti – siano essi di suoni o di immagini – è certo rimemorazione del dolore, ma forse anche espiazione e remota salvezza. Essa è protagonista indiscussa della silloge anche sul piano formale: il modello variazionale conferisce all’opera una struttura circolare, o meglio circolante, basata su motivi periodicamente ritornanti, e come vorticanti: («carnets d’hôpital»; «mots qui manquent»…), mentre la spazialità diffusa del testo, o disposta a costellazione, consente di far affiorare volta volta, in forma episodica, i diversi realia acustici («radiographies acousti ques») attraverso i quali si conosce e si addomestica in qualche modo la pazzia: dallo Sprechgesang schönbergiano, che ritorna ad ogni fase cruciale della salita e della discesa alla ricerca della parola mancante, al folle Wozzeck di Alban Berg (p. 51) con il suo risuonare ossessivo di idee fisse e di suoni ripetuti (pp. 51-52). Ma vi è anche, come si è detto, la trama silenziosa di fotografie, o spezzoni cinematografici di scene di pazzia o di traumi bellici (Polanski con Le pianiste; Wim Wenders con Pina; Bergman con Persona). Tutti questi frammenti culturali a valore memoriale, siano essi remoti (l’Eneide, p. 68; il Serment de Strasbourg, p. 62), senza tempo (il «Musée intérieur» ideale in cui si radunano tutti i Sogni di Giacobbe come infinite variazioni pittoriche dell’opera omonima di Schönberg, p. 194), o più recenti come la pazzia di Georg Trakl o di Paul Celan (p. 71), restano scomposti e sospesi nel vuoto perché privati dalla pazzia stessa del soffio che li animava: sono ora, appunto, oggetti incisivi, taglienti («Je taille des bloc de mots à même mon cerveau»; «écrire toujours| Comme avec un éclat de balle| dans l’âme», in Descendre, pp. 21-22).
Nella catabasi in cui si cerca la parola salvifica, «le mot pouvant vaincre le mal de celui qui souffre» (ibid.), affiorano via via anche ricordi d’infanzia: spezzoni autobiografici, talvolta organici (sebbene possano intendersi anch’essi come va riazioni memoriali di temi monosillabici in grassetto: ||ça|bat|pulse, pp. 86-89), talaltra in frantumi. Spesso aleggiano, sospesi, pezzi di memoria nelle due lingue madri dell’autrice, il francese e il tedesco: coesistenti al confine di due culture che troppo a lungo la storia ha voluto nemiche. «Avoir la conviction que le secret est là: le mot qui manque est un mot qui ne peut provenir que de la langue de l’autre» (p. 62). Qui i due frammenti in corsivo agli estremi sembrano riunificarsi al centro, in un discorso sanato e rifondato. La poesia è, come il mare con il suo mormorare, esperienza cosmica «qui relie/Au tout/ Au rien/Au tout» (p. 175). E, se rifondata anch’essa, è dono, e non commercio. «Soif de souffle» la poesia è, al contempo, l’«outre mort» e «l’outre-naissance» (p. 176). Di qui la sua non alienabilità: «mot manque ne s’achète|Pas Se donne Est don ou rien (Savoir pourquoi| La poésie se vend si peu|Parce qu’elle se donne » (p. 128).
Nel farsi, verso la fine, più aerea, più rarefatta e respirante, la silloge si chiude in nome della pietas per gli «hommes-nuages», con un lascito di villoniana memoria: «Pitié |Pour les hommes-nuages|Qui combattent effroi | aux frontières|De la folie |Humains |Sont êtres humains| N’en faites pas des proscrits| Des hors-la-vie« (p. 259).
 
(Michela Landi)
 
 
NOTE


[i] Si veda Benoît Mailliet le Penven, La voix de Kathleen Ferrier: essai, Paris, Balland, 1997.

[ii] Yves Bonnefoy, Poésie et musique, in Pierre Boulez, Yves Bonnefoy, Carole Bernier, Quêtes d’absolus, Montréal, Éditions Simon Blais, 2009, p. 13.

[iii] Yves Bonnefoy, Mahler, Le chant de la terre, ibid., p. 18. Yves Bonnefoy, L’opera poetica, a cura di F. Scotto, «I Meridiani», Milano, Mondadori, 2010, p. 208 e 940.

[iv] Michèle Finck, Aria. Pierre pour un tombeau. (À Yves Bonnefoy), in Sur un piano de paille, Paris, Arfuyen, 2020, pp. 9-10.

[v] Cf. Yves Bonnefoy, Ce qui alarma Paul Celan, Paris, Galilée, 2007.


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