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RENÉE VIVIEN, L’ardente agonia delle rose. Antologia poetica a cura di Raffaella Fazio, Milano, Marco Saya Edizioni, 2023, pp. 134, € 15.
 
«Proponendo Renée Vivien in questa nuova veste italiana, mi auguro che il lettore riesca a percepire il ricco cromatismo della sua poesia» scrive la traduttrice e curatrice del volume Raffaella Fazio nella sua prefazione (p. 6). La metafora musicale, spesso abusata, qui non poteva essere più calzante. Come ben vede Sylvie Croguennoc in un suo articolo dal titolo Renée Vivien ou la religion de la musique, «s’il fallait d’un mot caractériser l’œuvre de Renée Vivien […] c’est le mot musique qui d’abord viendrait à l’esprit»[i]. E se questa prerogativa è condivisa con altri poeti fin-de-siècle, tuttavia il gusto personale di Renée Vivien, pseudonimo di Pauline Mary Tarn (Londra 1877-Parigi 1909), è alimentato dall’educazione musicale ricevuta, forse più per contegno borghese che per autentico sentire della ricca famiglia di commercianti da cui proviene. Sta di fatto che l’incontro con l’arte, unito a una sensibilità mistica e dolente e a un’esistenza martoriata, ce la fanno inquadrare meglio nello spirito decadente e nevrotico tardo-ottocentesco che non nella gaudente Belle Époque incipiente in cui si trova a vivere. Pianista, esteta, collezionista di strumenti antichi, Renée è una preraffaellita tardiva. Mentre il suo romanzo autobiografico, Une femme m’apparut riecheggia, sul versante lesbico, il «donna m’apparve» dantesco (Purg., XXX, 31-32), la sua poesia si volge verso l’ellenismo dopo aver scoperto a Londra alcuni testi greci e aver appreso il greco antico per poterli tradurre. Vagheggiando quella Grecia ideale, simbolo dell’unione delle arti e della libertà del desiderio che era stato uno dei lasciti del wagnerismo, Renée s’interessa all’arte saffica fino ad acquistare un’abitazione a Mitilene per ricrearvi, con le sue consorelle, l’Accademia di Lesbo. Ella viene così a realizzare il desiderio di un altro esteta vissuto tra i due secoli, il belga Pierre Louÿs, le cui Chansons de Bilitis, messe in musica da Debussy, sono ambientate in larga parte nella città che dette i natali alla mitica poetessa. L’intento che anima la poesia di Renée Vivien è dunque l’unione originaria, nel canto, di parola e musica. Sin dalla sua prima importante silloge, Études et Préludes (1901) l’arte dei suoni, che fu al centro della cultura greca, occupa il primo posto. Seguiranno Cendres et poussières (1902), Évocations e La Vénus des Aveugles (1903). E ancora le Chansons pour mon ombre (1907); Flambeaux éteints (1907); Sillages (1908), mentre furono pubblicate postume, come ricorda la curatrice, Dans un coin de violettes (1910); Le Vent des vaisseaux (1910); Haillons (1910). La prima produzione della Vivien è improntata in prevalenza allo spirito della canzone, in nome del quale essa si richiama ad una struttura poetica tradizionale a ottonari e rime alterne. Ma s’incontra anche la strofe detta saffica, di quattro endecasillabi seguiti da un pentasillabo: verso impari che Verlaine aveva oramai sdoganato in Francia, contro la tradizione troppo carrée dell’alessandrino. Più tardi la sua ricerca si fa più raffinata, e si volge verso la riproduzione di certi procedimenti formali della poesia drammatica, come l’alternanza strofica tra voce solista e coro. Altro elemento stilistico rilevante è il raffinato trattamento del significante, e la ricerca paragrammatica che vi si associa. Tale paragrammatismo interessa soprattutto i nomi femminili associati alla musica, e sistematicamente femminizzati con sostituzione della vocale finale caratteristica alla latina: Aphrodite diventa Aphrodita; Perséphone, Perséphona; Selene, Selana. È il caso della stessa Sappho, rinominata Psappha con una bilabiale prostetica che, nel conferire più resistenza occlusiva e dunque più risonanza al nome, non manca di rinviare al verbo psallere. Ritroviamo questa variante, ad esempio, in Cendres et poussières: «J’entends gémir, au profond de l’espace,| Celle qui versa la strophe ardente et lasse,| Et dont le laurier fleurit et triompha |La pâle Psappha». La dinamizzazione del dettato coronata qui, ad esempio, dall’annominazione in rigetto, esige dal traduttore un raffinato lavoro sugli aspetti fonoritmici. Fazi traduce, come bene vede Maria-José Tramuta nella postfazione (p. 123), con notevole efficacia, anche nel disattendere, con effetto di rottura dell’ordine, la rima finale : «Nel profondo spazio riecheggiò gemente | Colei da cui sgorgò la strofa stanca e ardente,| colei per cui fiorì e trionfò l’alloro, | Saffo, nel suo pallore ». La raccolta che Vivien pubblica nel 1906, tre anni prima della sua precocissima scomparsa per le conseguenze di una lenta ma inesorabile consunzione fisica e psichica, s’intitola invece: À l’heure des mains jointes. Questo «livre de la résignation» secondo Croguennoc[ii], rivive lo spirito saffico ed erotico delle prime raccolte in forma di invocazione, preghiera (si veda: Psappha revit/Saffo rivive, pp. 60-61), e ritrova così lo spirito unanimista primonovecentesco. Erano gli anni in cui l’arte dismetteva la posa estetizzante per osteggiare, con certo ripiegamento intimistico e spiritualismo mistico, lo spirito laico e materialista borghese. Erano gli anni in cui appunto si firmava in Francia la separazione tra Chiesa e Stato. Prevalgono ora, nella poesia di Vivien, le forme ritmico-iterative della liturgia; la salmodia, la litania.
Nella sua breve prefazione metodologica Raffaella Fazio si vuole fedele alla lettera e allo spirito del testo, affermando che «la musica ha rappresentato […] il principio alla base della mia traduzione poetica di Renée Vivien» (p. 5); più specificamente, si è riproposta di «rispettare lo slancio e le pause del respiro» e di «ricrea re micro-unità lessicali» per ottenere nella lingua d’arrivo «lo stesso effetto di refrain voluto dall’autrice». Qualora la rima non fosse riproducibile, come in casi già in contrati, vi sopperisce, lo abbiamo visto, con consonanze e assonanze (ibid.). Così Fazi ci restituisce un dettato sì dolente, ma dove il languore è sempre contemperato dalla robustezza delle figure ritmiche, variamente modulate per produrre, anche in poesia, i cosiddetti «affetti»: «dolcezza» o «violenza», «desiderio» o «repulsione» (p. 6). Le scelte traduttive di Raffaella Fazio rispondono così a quanto lei stessa si augurava nel suo testo preliminare; tra i molti esempi possibili, uno basti a render conto dell’attenzione che la curatrice ha posto nell’assicurare a Renée Vivien, grazie anche al sostegno sillabo-tonico della lingua italiana, quella consistenza ritmica e risonanza che la lingua francese adottiva (come, d’altronde, la materna lingua inglese), non poteva conferirle: «L’aube, dont le glaive reluit,|Venge, comme une blanche Électre,|La fiévreuse aux regards de spectre,|Dupe et victime de la nuit» (L’alba, sguainata la fulgida spada,|vendica ora, candida Elettra,|colei che, febbrile, ha occhi da spettro|e che della notte fu ingenua preda; da L’aurore vengeresse/L’aurora vendicatrice, in La Vénus des aveugles/La Venere dei ciechi, pp. 58-59).
D’altronde, il titolo scelto per questa silloge è una celebrazione, mediante il significante vibrante, dentale e occlusivo, della resistenza della parola a quello smembrarsi decadente a cui ha ceduto, con il suo cupio dissolvi tutto personale, Renée Vivien: come altre eteree figure femminili contemporanee (si pensi a Lili Boulanger) Renée si trova a interpretare il mistero della coeva Mélisande, pallida e disincarnata protagonista del dramma di Maeterlinck musicato da Debussy: come ricorda Colette in una testimonianza, il lavoro poetico era da lei come segretato, dissimulato, per pudore o forse non-volontà. Come ricorda anche Corguennoc, «les œuvres postérieures à 1906 vont illustrer de manière tragique cette présence grandissante du silence»[iii]. Così si spengono, con il desiderio, la musica e la vita, fino agli ultimi «haillons» (stracci), sorta di celebrazione di un corpo ormai fatto spoglia. Poco a poco, in fatti, le sillogi si fanno più brevi, e così i componimenti, mentre la ricerca musicale degli stessi svanisce nel grado zero della lettera, che è morte: «Je n’entends plus le luth ni la musicienne», è la confessione che apre, appunto, Haillons, i suoi ultimi stralci di parola.
Per la sua postfazione al bel volumetto dove si raccolgono cinquanta testi della giovane poetessa, Marie-José Tramuta sceglie un titolo esemplare: «Una strofa stanca e ardente». L’ossimoro aggettivale ben restituisce l’ardore e il languore contemperati tra fine e inizio secolo, che Vivien incarna in modo così emblematico per le sue personali vicende biografiche: la madre anaffettiva che l’accusa di follia per appropriarsi della sua dote (p. 119 120); di qui forse, con il rifiuto della madre, il rifiuto della lingua-madre, l’inglese, e la scelta elettiva del francese. Poi, la morte precoce dell’amica-sorella Violette, e la sua lacerante e mortificante passione non ricambiata per l’«Amazzone» Natalie Clifford Barney, volto ardente della sua rosa femminile, e quasi un’Albertine proustiana ante litteram. Protagonista audace della Belle Époque parigina, animatrice di un salotto frequentato da intellettuali del calibro di Colette (cui Renée dedica un componimento, Je cacherai ma flûte…, p. 80), Cocteau, Hemingway, Joyce, Ezra Pound, solo per fare alcuni nomi, Natalie non provava per Renée, si dice, che un tenero affetto. Questa controfigura virile volle però conferire alla delicata e mistica fanciulla una risonanza postuma: lo pseudonimo androgino e beneaugurante della poetessa, come ricorda Tramuta (p.123), si fa memoria storica con il Prix Renée Vivien che Natalie Barney ha contribuito a fondare, nel 1935, con queste parole: «Si elle n’a pas pu réussir sa vie, elle a […] réussi sa survie» (p. 127).
 
(Michela Landi)
 
NOTE


[i] Sylvie Croguennoc, Renée Vivien ou la religion de la musique, « Romantisme » n. 57, 1987, pp. 89-100, p. 89.

[ii] Ibid., p. 96.

[iii] Ibid., p. 98.


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