![]() |
|||||
« indietro GUILLAUME APOLLINAIRE, Alcool, edizione bilingue, prefazione, traduzione e note a cura di Fabio Scotto, Passigli Editori, collana «Passigli Poesia», Firenze, 2023, pp. 247, € 19,50.
Con la sua nuova traduzione di Alcool, uscita nella primavera di quest’anno, proprio per i 110 anni della raccolta, Fabio Scotto ha risposto nuovamente alla chiamata della casa editrice fiorentina Passigli, offrendo così a tutti gli appassionati della letteratura francese del XX secolo un’edizione italiana d’autore di raro pregio. «Nuovamente» perché il legame che unisce lo scrittore genovese e la collana di poesia fondata da Mario Luzi nel 1989 è ben più antico. Infatti, già nel 2017, gli stessi editori di Bagno a Ripoli avevano proposto a Scotto di cimentarsi nella traduzione apollinairiana di Poesie per Lou. Accettando, l’autore aveva poi tradotto e aggiunto altri testi di natura amorosa, editando così una piccola silloge romantica intitolata Poesie per Lou e altri versi d’amore. Inoltre, come non ricordare che proprio con Passigli Fabio Scotto ha pubblicato alcune delle sue raccolte poetiche: dalla più antica Genetliaco (2000) alla nuovissima A. L’abbandono (2021), passando per Bocca segreta (2008) e per In Amore (2016).
Accettare un incarico di questo calibro porta con sé una complessità plurima, al tempo stesso poetica e traduttologica. Infatti, per quanto lapalissiano è bene ricordarlo, prima di avvicinarsi alla traduzione di un autore è necessario conoscerlo a fondo e Fabio Scotto questo lo sa bene. In tutto l’arco della sua introduzione (pp. 5-15), coincisa ma al tempo stesso chiarificatrice, si percepisce la volontà dell’autore di rendere omaggio a tutta una generazione di studiosi italiani e colleghi che lo hanno preceduto. Ricordandosi di Zoppi, Jannini, Richter, Bruera e Boschetti, il traduttore riconosce il suo debito col passato e si inserisce fruttuosamente in una filiazione critico-letteraria imprescindibile, dimostrando così una notevole agilità di movimento all’interno di un panorama poetologico estremamente ampio e variegato. Sulla stessa linea d’azione vanno collocati i numerosi rimandi a Michel Décadin, Didier Alexandre e Daniel Delbreil, riferimenti immancabili per ogni esperto di Apollinaire.
Ma non è solo in rapporto alla critica che Fabio Scotto si situa. Se da un lato questa complessità stratificata a cui accennavamo interessa il letterato e la sua conoscenza del poeta, dall’altro essa non può che riguardare il traduttore e il suo legame con coloro che prima di lui si sono cimentati nell’ardua impresa di rendere la difficoltà di Alcool in italiano. Anche in questo caso, Fabio Scotto non si dimentica dei poeti traduttori che sono venuti prima di lui e si mostra estremamente a suo agio in un orizzonte di rese traduttologiche vaste, che spaziano da Sereni, a Caproni, passando per Frezza, Raboni e Cucchi.
Un esempio valga per tutti. In una recente intervista radiofonica, dialogando con il musicologo e compositore Riccardo Giagni, Scotto racconta proprio di come avesse studiato la bella traduzione caproniana de Les colchiques, riservando un interesse particolare alle rime. La resa del ligure, però, gli era parsa un po’ troppo marcata, soprattutto perché Caproni incrementa il numero di avverbi: «io – spiega invece Scotto – ho cercato di essere più aderente, anche perché qui il verso è un verso ampio, quasi prosastico, quindi ho pensato che non bisognasse aggiungere niente di quantitativo sul piano sintattico» (Rai Radio 3, Suite, 33:04). In questo caso, se Caproni si apre a libertà traduttive prossime alla lingua d’arrivo – ci si ricorderà di quanto l’autore si domanda in una delle sue interviste radiofoniche, proprio a proposito di questo testo: «[…] se Apollinaire avesse scritto in italiano, come avrebbe scritto questa chanson?» (Era così bello parlare, Il nuovo melangolo, Genova, 2004, p. 149) – Scotto predilige invece una maggior vicinanza alla lingua del testo fonte, esemplificando implicitamente ancora una volta quella dicotomia traduttologica ladmiraliana che vede da sempre contrapporsi «ciblistes» e «sourciers».
Riorientandoci sull’introduzione della raccolta, Fabio Scotto segue un filo discorsivo chiaro. Lo studioso apre la sua riflessione con una veloce contestualizzazione socio-cronologica – situando temporalmente l’autore francese nella modernità poetica, «se per modernità s’intende quella già in precedenza tratteggiata nel secolo precedente da Baudelaire, Rimbaud […] e Mallarmé» (p. 5) – per poi offrire alcuni cenni biografici relativamente agli anni che precedono la pubblicazione di Alcool e soffermarsi sull’evoluzione del titolo e sul ruolo capitale svolto da Cendrars nella la soppressione della punteggiatura. In un secondo momento della sua analisi, Scotto passa in rassegna tre importanti difficoltà intrinseche alla raccolta, ovvero l’ermetismo di numerosi testi, l’estrema diversità dei tipi di scrittura praticati e la grande eterogeneità tematica, raccontando che tale ampiezza contenutistica e formale trova risposta nella «ricerca di nuove strade poetiche per forme e modi che il poeta persegue da anni» (p. 7).
Chiarite queste prime difficoltà, Scotto accompagna il suo lettore in una rapida disamina dei tratti fondamentali che compongono la poetica e l’estetica di Apollinaire, offrendo così una crasi ragionata di oltre un secolo di studi critici, senza dimenticarsi però di appoggiarsi anche alle parole dello stesso poeta. Si delinea così l’Apollinaire di Alcool, poeta la cui arte «intende fondere sensibilità e immaginazione, al di là di ogni idealismo» (p. 8) e in cui si riconosce una «concezione anti-naturalista della creazione che rifiuta la mera imitazione della natura» (p. 8). A questi primi principi si affiancano poi quell’orfismo di cui parlava già Mario Richter e quell’estetica della rottura apollinairiana teorizzata invece da Jean Burgos. Questi cenni estetico-poetici lasciano spazio ad alcune brevi riflessioni sulla metrica della raccolta, dove Scotto ricorda la scelta del poeta di alternare forme regolari tradizionali a versi liberi.
Proprio questa dialettica formale tra classicità e modernità si rispecchia su di un piano più prettamente strutturale in quello che il traduttore ha definito «un rapporto imprescindibile tra tradizione e modernità» (Rai Radio 3, Suite, 10:30). Infatti, strutturalmente parlando, Alcool si caratterizza proprio per l’assenza di una divisone in sezioni e per il mancato rispetto cronologico dei testi, risultando così in un assemblaggio assai eteroclito, ricorda ancora Scotto. Ma questa dialettica quasi dicotomica tra classico e moderno trova riscontro anche in altri modi d’essere della raccolta, soprattutto a livello contenutistico, laddove fioriscono «tematiche letterarie classiche, della ricerca di sé, dell’amore» (p. 9). Proprio questo porta Scotto ad affermare con forza che Apollinaire «non si astrae scomparendo dal testo che scrive […], semmai ricorre a tutti i mezzi memoriali e sensibili utili a manifestare la piena presenza del soggetto nell’esperienza che racconta» (p. 9) e che proprio in questo risiede «il segno della sua profonda cultura, della sua intelligenza poetica e della sua originalità e attualità» (p. 9).
Le ultime due pagine dell’introduzione sono invece dedicate ad alcune riflessioni sull’attività traduttologica di Scotto e sulle sfide che questa ha comportato, utili a evidenziare la ricercatezza del suo lavoro. I primi due elementi con cui il traduttore ha dovuto confrontarsi sono stati la ricchezza del lessico e «la forza dello scarto poetico che viene dalla voluta moltiplicazione del senso» (p. 9) causata dalla soppressione della punteggiatura e dalla maiuscola all’inizio di ogni verso. Ma è soprattutto a un livello metrico-prosodico che si riconosce l’estrema attenzione portata dal traduttore, che si muove abilmente fra attenzione alla rima e aderenza al ritmo. La prima trova riscontro principalmente nei testi brevi o isostrofici, dove il traduttore deve riuscire a «confrontarsi con la melodia cercata dal testo conchiuso nella pregnanza della sua forma» (p. 9). Al contrario, la seconda si ritrova in quei testi più ampi e prosastici, dove Scotto predilige un’«aderenza ritmica alla progressione dei lessemi e del phrasé» (p. 9).
Da queste poche parole si riesce già a intuire che, se vi è un punto nevralgico che permea l’analisi poetologica e traduttologica di Fabio Scotto, visibile in contro luce lungo tutto l’apparato prefatorio così come all’interno della raccolta, questo è certamente l’attenzione al suono, preso nella sua più ampia accezione possibile, inglobando così i concetti di musicalità, ritmo, metrica e lessico. Lo studioso afferma infatti di avere cercato di fare «risuonare in italiano […] il suo [di Apollinaire] dire, senza tuttavia mai forzarne per ragioni meramente rimiche o melodiche la peculiarità del senso, ma consapevole del fatto che il suono sia portatore di senso e che solo in una dimensione quanto più fono-ritmica possibile esso potesse preservare la sua energia e la sua piena eloquenza» (p 10).
Un esempio lampante di questa affermazione si ritrova ancora una volta nel la traduzione de Les colchiques. Come racconta ancora Scotto a Giagni, l’allontanarsi del soggetto poetico dal luogo dell’amore è reso metricamente attraverso un ritmo anapestico, coadiuvato dalla presenza degli avverbi, a cui si aggiungono poi i vari aspetti non rimici del ritmo, come le allitterazioni e le catene fono prosodiche. A tal proposito, un esempio particolarmente rilevante si ritrova al v. 14 («Mentre muggendo le mucche abbandonano lente»), spiega il traduttore. Qui, l’alternarsi di m e di n da una parte avvicina l’occhio e l’orecchio alla chiusa della poesia («[…] mal fiorito dall’autunno», v. 15), mentre dall’altra rimanda circolarmente all’inizio del testo («[…] ma bello in autunno», v. 1).
Questa attenzione estrema al suono come portatore di senso non deve sorprendere, perché si inserisce da anni all’interno delle ricerche dell’autore. Non casualmente, Il senso del suono è proprio il titolo di un suo recente saggio (Donzelli, 2013), incentrato sulle interrelazioni fra ritmo e traduzione poetica, dove fra l’altro sono indagate anche le traduzioni di Apollinaire proposte da Giorgio Caproni e Vittorio Sereni. Ma, già nel 2006, Scotto aveva riflettuto sull’importanza del ritmo nella resa italiana del poeta, in un articolo dal titolo simile, sintomo di un’attenzione ininterrotta per la tematica. Ulteriore conferma dell’importanza di questa linea di ricerca poetico-traduttologica giunge da un suo recentissimo seminario: non è un caso che proprio il ritmo sia ciò su cui Scotto abbia scelto di soffermarsi, quando è intervenuto all’Università di Catania con una lezione intitolata «Alcool di Guillaume Apollinaire tra avanguardia e tradizione: tradurre il ritmo».
In conclusione, quella di Fabio Scotto è una ritraduzione poetica notevole, che sa situarsi in un panorama critico e traduttivo ampio e che è capace di dialogare con le ormai numerose esperienze traduttive passate. Al tempo stesso, questa riscrittura ha il pregio di non perdere di vista la propria personalità, ovvero quella ricerca del senso del suono che da anni accompagna le riflessioni dell’autore e che si sente viva nella filigrana del testo. Insomma, l’ultima fatica di Scotto non lascerà insoddisfatti gli studiosi di letteratura francese né gli appassionati di Apollinaire e troverà senza fatica il suo posto al fianco delle già note traduzioni d’autore italiane di Sereni, Caproni, Frezza, Raboni e Cucchi.
(Francesco Vignoli)
Università di Firenze
¬ top of page |
|||||
Semicerchio, piazza Leopoldo 9, 50134 Firenze - tel./fax +39 055 495398 |