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ALESSANDRO BALDACCI, Il dio di Norimberga, peQuod, Ancona, 2023, pp. 180, € 18,00.
 
Il titolo originale del film di Werner Herzog conosciuto in italiano come L’enigma di Kaspar Hauser (1974) recita Ognuno per sé e Dio contro tutti (Jeder für sich und Gott gegen alle) con una formula che può essere utilmente adottata anche per abbordare Il dio di Norimberga, l’esordio poetico di Alessandro Baldacci pubblicato nella primavera del 2023 per la collana Rive di peQuod.
È infatti dalla vicenda di Kaspar Hauser che Baldacci – docente di Letteratura Contemporanea all’Università di Varsavia e autore di numerose monografie dedicate alla poesia del Novecento – sceglie di partire per comporre, in cinque sezioni, un macrotesto che è allo stesso tempo racconto di formazione (o meglio, ‘de-formazione’), romanzo in versi, neoepica, e altro ancora. Analogamente al caso del bambino apparso sulla piazza di Norimberga nel maggio 1828, genealogie ed etichette restano perlopiù misteriose, o comunque distanti dal centro del testo, che non contiene alcun ammiccamento ad ambienti accademici o poetici facilmente riconoscibili.
Se, infatti, si può sentire a tratti una consonanza con certi esiti della poesia di Vito Bonito, ad esempio fabula rasa (Oèdipus, 2018), per una forma metrico ritmica vicina alla canzonetta ma non per questo meno crudele (in senso artaudiano), e il radicamento dell’esperienza traumatica e post-traumatica – sin dal titolo, attraverso il toponimo ‘Norimberga’ e poi in molte altre occorrenze – nelle politiche di sterminio nazifasciste ricorda un auto re molto studiato da Baldacci quale Paul Celan, già la lezione di Giuliano Mesa, altro autore coltivato a lungo da Baldacci, risulta assai meno esibita. A questo proposito, vi è certo un richiamo costante alla qualità etica della pratica poetica (ad esempio: «[…] fissando allo specchio / le baccanti venute a cercare / chi si perde o non esce dal foglio, / come Kaspar da sotto la sabbia», p. 37, corsivi aggiunti), ma questa pare inscindibilmente legata ad alcuni miti – come quello di Orfeo e Euridice, fondante per la lirica moderna – e tragedie, come appunto le Baccanti di Euripide, che si distinguono, talora nettamente, da quelli frequentati da Mesa. Il caso forse più eclatante è quello di Attilio Bertolucci, autore ritenuto canonico da Baldacci nella sua attività critica, ma che offre un esergo all’intero libro, dalla Camera da letto, più funzionale all’introduzione di personaggi e tematiche del libro di Baldacci che non a un preciso riferimento formale o stilistico. Non si può tuttavia parlare di autentici e intenzionali depistaggi: non nel caso di Bertolucci, e sicuramente non in quello della Nota finale. Quest’ultima, in particolare, fornisce informazioni importanti riguardo alla costruzione del testo e ai riferimenti culturali che vi sono introdotti, come ad esempio la presenza di un «accostamento ‘allucinatorio’ fra l’inermità [di Kaspar Hauser] e la furia del dio delle Baccanti euripidee», o ancora il fatto che «le due immagini che appaiono in Guarda Kaspar provengono dal film di François Truffaut L’enfant sauvage del 1970, ispirato al rapporto sul ‘ragazzo dell’Aveyron’ […] redatto a inizio Ottocento dal medico ed educatore francese Jean Itard» (p. 176). La paginetta di annotazioni di Baldacci, dunque, aiuta chi legge ad associare ai personaggi delle varie sezioni del libro – Kaspar, Victor (nome del ‘ragazzo dell’Aveyron’), Sasha, gli ufo, le baccanti, il dio delle mosche, il dio dei topi, etc. – utili chiavi interpretative che restano valide per l’intera opera, ma che non sono mai adottate in senso univoco o strettamente determinista. Anzi, i significanti restano spesso fluttuanti – esemplari, nonostante vengano pronunciati da personaggi non necessariamente attendibili, i versi «‘a Norimberga, / oppure a Padova, fa lo stesso’» (p. 35) e anche l’eco melvilliana, verso la fine del libro, del verso: «’Chiamatemi Kaspar’» (p. 154) – e disponibili per il libero lavoro interpretativo del lettore.
In ogni caso, si resta inevitabilmente entro alcuni determinati confini, secondo una concezione del testo coerente con quella dell’Opera aperta teorizzata da Umberto Eco. Ne consegue che un’interpretazione complessiva e ‘forte’, dal punto di vista epistemologico, resta sempre possibile, spaziando dal romanzo in versi o autobiografia in versi all’affresco trans-storico (andando forse in direzione di quella ‘transmodernità’ teorizzata da Francesco Ottonello nella sua recensione online al libro del 17 luglio 2023, pubblicata su Medium Poesia); risulta tuttavia ancora più interessante, per chi scrive, osservare come si possa sempre anche uscire da queste ipotesi interpretative globali, più o meno improntate a una matrice allegorica.
Tali ‘vie di uscita’ sono disponibili, a livello formale e micro-testuale, con gli inciampi metrico-rimici che si susseguono nel testo: se la prima sequenza della prima sezione, che dà il titolo al libro, è una delle più stringenti dal punto di vista metrico (i testi delle sotto-sequenze sono composti da due quartine, variamente rimate o assonanti), di seguito si assiste a uno sfilacciamento progressivo di tali regole che non è mai radicale o radicalmente esibito (i singoli testi delle sotto-sequenze, ad esempio, restano sempre composti da due quartine), per poi arrivare ad alcune, episodiche, ricomposizioni finali. Una simile compattezza, punteggiata, al tempo stesso, di piccole aperture, si riscontra anche sul piano della ricorsività narrativa (non di rado digressiva e convoluta rispetto alla possibilità di una narrazione lineare) dei personaggi e del registro linguistico, il che produce un’impressione di monolinguismo, in senso continiano (con alcune intromissioni del tedesco, lingua del terrore nazista, ma anche dell’analisi, della fiabistica, etc.), che ha effetti spesso vertiginosi, nella lettura, ma risulta anche disseminato, appunto, di inciampi liberatori.
Non che questo determini una qualche consolazione di fondo, riconsiderando il testo nella sua interezza. Basti pensare ai riferimenti alla letteratura considerata generalmente dell’infanzia (e che tale non è, in senso assoluto) come Pollicino, Hansel e Gretel o Alice, usati non per confortare attraverso un posticcio lieto fine ma «per aver sempre paura» (p. 156). Soprattutto, però, sono frequenti i riferimenti ai traumi collettivi – da quello che viene esemplificato in modo paradigmatico dal toponimo ‘Norimberga’ fino a ‘Vermicino’ e ‘Chernobyl’ (particolarmente interessante a questo proposito è la nota finale, dove si scrive che la tragedia di Alfredino Rampi, a Vermicino, fu «un massacro operato dalla società italiana a seguito della caduta in un pozzo artesiano di un bambino di sei anni», p. 156, corsivi aggiunti, in perfetta consonanza con altre letture di tale evento nella letteratura e critica con temporanea) – ed è costante l’incapacità di venirne a capo, di superarli.
Quest’ultima appare una tendenza costante di quella storia che, da una collocazione generazionale o presuntivamente tale («“Siamo negli anni Ottanta”, / cantavano le mosche», p. 143), arriva fino ai giorni nostri, con la progressiva amplificazione del ‘riflusso’ o comunque del ritiro dalla politica tradizionalmente localizzata nell’agorà: illuminante, a questo proposito, all’interno di una topologia costantemente basata sulla dicotomia dentro/fuori, è la presenza ricorsiva della piazza, della quale una particolare enunciazione (non attribuibile, a differenza delle altre, ad alcun personaggio) dice piuttosto chiaramente: «Kaspar, giuro che adesso finisce / questa storia di noi nella piazza / dove danzano i topi, le mosche, / e io e te come due burattini…» (p. 102). D’altro canto, un’opposizione flebile, ma coriacea nella sua resistenza, a questo scenario è fornita invece dalle sporadiche occorrenze pronominali della prima persona plurale, a costituire un ulteriore inciampo per un testo, o macrotesto, prevalentemente costruito sulla terza persona, singolare e plurale (ad esempio, e an cora una volta senz’alcuna consolazione o autoassoluzione: «cantano le baccanti / in coro a Vermicino, / e noi sotto il cuscino / tremiamo come i topi», p. 58).
Oscillando continuamente tra grandi affreschi e opportune distorsioni e deviazioni, Il dio di Norimberga non può che concludersi con una serie di interpretazioni alternative (nella sequenza Oppure, dall’omonima sezione finale) e allo stesso tempo con la narrazione che si ripiega su sé stessa, fino a creare il dubbio di non essere mai avvenuta. È un finale di abiezione, anche per la lingua («coperta di vermi», p. 174, o anche «nelle feci», p. 172), e insieme di rinnovata leggerezza, a suggerire forse che, nella sua peculiarità magica e un po’ in quietante, questo libro stesso è un Kaspar Hauser. E, come già per il romanzo incompleto di Paolo Zanotti, KH, ciò segnala il libro come rara avis e, per questo, come un caso assai affascinante nel panorama letterario ultracontemporaneo.
 
(Lorenzo Mari)

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