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« indietro UMBERTO FIORI, Autoritratto automatico, Milano, Garzanti, 2023, pp. 128, € 18,00.
È un giudizio generalmente condiviso che la poesia di Umberto Fiori non ammetta grandi evoluzioni. In effetti, fin dall’esordio del 1986, con Case, compattezza e omogeneità caratterizzano una scrittura che ha nella serialità uno dei suoi tratti formali e contenutistici più tipici. Tuttavia, o per meglio dire proprio per questo motivo, una volta fissato il suo sistema poetico Fiori ha sempre cercato nuove strade per arrivare nello stesso luogo, nuovi modi per ripetere la stessa lezione, quella ovvia eppure inafferrabile lezione che dagli anni Ottanta gli mostravano le facciate delle case: l’esempio e l’invito a un semplice stare in mezzo alla gente e alle cose, dove tra l’annullamento nell’altro da sé e la sua prevaricazione si scelga un terzo tipo di rapporto, fondato sulla necessità di deporre la propria identità in quanto volontà di potenza per arrivare a un mondo in cui l’io sia figura tra figure e una reale coesistenza sia possibile. È in particolare nelle raccolte dopo il Duemila che Fiori sembra avere intrapreso questa ricerca di nuovi mezzi per il medesimo fine: tenta forme prima assenti o solo accennate, come il poemetto nella Bella vista (2002), l’allocuzione drammatica, strutturata come un lungo monologo teatrale in Voi (2009), il vero e proprio racconto in versi, suddiviso in parti e capitoli, nel Conoscente (2019); introduce anche nuovi temi e paesaggi, per esempio quelli della natura e della grande storia. A cambiare è poi lo statuto dell'io poetico. Dall’impersonalità presso ché assoluta delle prime raccolte si passa a una soggettività via via più individuata e presente in modo costante nello spazio testuale, senza che questa nuova centralità implichi, d’altra parte, una restaurazione del monologismo lirico, perché la presenza diretta del soggetto è quasi sempre contestuale alla sua critica (quello del Fiori post-Duemila è un io pervasivo, ma debole, spesso attaccato sia dall’interno che dall’esterno, svergognato nelle sue contraddizioni e nel suo falso umiliarsi).
Questa ampia premessa per dire che l’ultimo libro di Fiori, Autoritratto automatico, si inserisce pienamente nella linea tracciata. Qui l’occasione-novità è la collezione di fototessere che l’autore ha messo insieme dal 1968 a oggi. A partire da questo piccolo archivio privato, Fiori sviluppa un discorso in tutto e per tutto coerente con la sua poesia di sempre. La continuità è già stilistica: dal lessico quotidiano, concreto e generico insieme (per la forte tipizzazione delle scene), alla sintassi vicina al parlato, ricca di dislocazioni, focalizzazioni, segnali fatici e di scorsivi (in Autoritratto automatico però spicca la figura dell’elenco, utile a rendere la ripetizione, la serialità automatica dell’operazione), dall’asciuttezza dei tropi, con la predilezione per la più razionale similitudine rispetto alla metafora (lo stilema tipico della similitudine in chiusa abbonda anche nel nuovo libro), alla metrica, con i suoi versi mediamente brevi e svarianti, che seguono gli snodi del discorso, ma puntellati con rime e con l’affiorare diffuso di misure tradizionali, in particolare endecasillabi e settenari. Ma la continuità riguarda anche la riflessione intorno ai temi caratteristici della poesia di Fiori. La collezione delle fototessere permette una meditazione sull’identità che si muove lungo il confine tra individuale e generale, tra privato e pubblico: «Nell’autoritratto prodotto dalle macchinette mi sembrava di cogliere l’intreccio fra un elemento altamente individuale, singolare (la mia faccia, la mia identità) e una dimensione collettiva, “di massa”» (così dalla Presentazione, p. 8). Questa è sempre stata, con i dovuti assestamenti, l’identità nel mondo poetico di Fiori, un’identità una e multipla, unica e seriale, personale ma collettiva, inter na ma esterna. Proprio la faccia, al centro della prima e più nutrita sezione del libro, ne è la testimone più attendibile e insieme più sfuggente. Perché «La faccia è nostra. Ma proprio mentre lavora / con sguardi e con sbadigli, grinte, sorrisi, / vene gonfie e pallori, / proprio quando è più lei, / non ci appartiene» (p. 60). La faccia è ciò che più ci identifica e allo stesso tempo è qualcosa che, continuamente mostrato all’esterno e invisibile dal nostro interno, appartiene più agli altri che a noi stessi. Dalla stessa poesia: «La faccia è fuori. Là fuori / in fondo alla pupilla luminosa / della macchina, io la andavo a cercare». Proprio il suo carattere anfibio e ambiguo muove la ricerca del soggetto (Verso la faccia si intitola del resto la sezione) con il suo ripetere e moltiplicare l’atto di fissare le proprie infinite facce e di collezionarle tutte, consapevole del fatto che ognuna di esse potrà al massimo somigliargli e che l’identità, come sta tra sé e gli altri, così sta da qualche parte tra le numero se e sempre cangianti espressioni che di volta in volta si trova a mostrare: «Questo, cercavo: l’aria di famiglia / che corre tra me e me» (p. 44).
Autoritratto automatico è insomma una ricerca dell’ e sull’identità, ed è soprattutto questa portata riflessiva universalizzante a scampare la raccolta dal rischio di apparire «un abnorme esercizio narcisistico» (p. 10), come l’autore dichiara di temere nella Presentazione. Forse gli album di fototessere che Umberto Fiori ha riempito negli anni davvero ammucchiano «la spazzatura dell’ego» e davvero sono una specie «di discarica della ‘personalità’, dell’identità»; di certo il libro di poesie da questi ispirato è molto lontano da essere il collettore delle «scorie tossiche della sua scrittura» (cito dal Colloquio in prosa, tra l’autore «Ritratto» e un giovane «Visitatore», posto al centro del volume). Se si escludono le poche poesie dell’ultima sezione, Seconda singolare, dedicate fin dai titoli a figure care, la presenza di un io direttamente riconducibile all’autore empirico non è più invasiva rispetto alle raccolte precedenti. Nel Colloquio è detto che «in questa operazione il vero soggetto non è la mia biografia: è la mia faccia. O meglio, la faccia in generale» (p. 76), e in effetti, al di là delle ossessive cautele anti-narcisistiche, è proprio la citata – e di nuovo tipica – astrazione del discorso poetico a rendere l’io di questo libro molto simile all’uno e al tale che si aggirano nei paesaggi di Fiori fin da Case, secondo un processo di generalizzazione dell’identità funzionale a quel tipo nuovo di rapporto intersoggettivo, spoglio giustappunto di qualunque narcisismo, del quale si è detto all’inizio.
Finora si è insistito sulla continuità fra Autoritratto automatico e quanto lo precede. L’aspetto invece più originale sta nel fatto che intorno a quella che più sopra è stata chiamata occasione-novità si struttura l’intero libro, con la parziale eccezione delle ultime due, assai più brevi sezioni. Il tema unico è osservato da diverse angolature, che viene facile paragonare alle diverse espressioni della stessa faccia che popolano gli album delle fototessere raccolti meticolosamente dall’autore. Se dalla Bella vista in poi Fiori ha fatto ricorso a modalità narrative o drammatiche per immettere nuova linfa nella sua poesia, si potrebbe dire che qui la forma unificante sia piuttosto quella del racconto-saggio, che nel riportare un’esperienza soggettiva ne analizza e ne sviscera la dinamica e le implicazioni. Il che spiega come mai tanto le fototessere riportate in vari luoghi del libro (copertina, quarta di copertina, p. 15) quanto le prose ivi contenute (non solo il Colloquio ma anche la Presentazione iniziale) siano perfettamente integrate nel discorso e in un certo senso equiparate alle poesie, come del resto dimostra la grande permeabilità tra versi e prosa, che in più casi si parafrasano a vicenda.
Non stupisce che un simile intreccio analitico dia vita a diversi momenti metapoetici, di sguardo all’indietro e di riflessione critica dell’autore sulla propria poesia. Si tratta di un’altra novità di Autoritratto automatico, benché non assoluta, perché un atteggiamento simile era già riscontrabile nel Conoscente, dove, come avviene qui, venivano convocate e discusse varie categorie critiche ormai generalmente associate alla scrittura di Fiori. Preoccupazione da ‘stile tardo’ per eccellenza, la rivisitazione e magari ridefinizione della propria poetica emerge nelle parti in prosa ma anche in alcune poesie, condensandosi alla fine in quello che for se è il più bel testo dell’intera raccolta. È quello dedicato A mio fratello Andrea (p. 115), e si apre con due strofe che sono la perfetta descrizione dell’universo poetico di Fiori: «Com’è marcato, com’è / caratteristico / il mondo. Com’è visto e rivisto, com’è / intensamente qualsiasi. La gente / sta lì: perfetta, tipica, tutta intera. / Ha i suoi modi di essere, di parlare. La gente / c’è un verso per cui va presa. // E non c’è quasi altro. Le persone / – nessun bisogno di inventarle: / si sanno già benissimo, / come in sogno. / È tutto pronto. Nessuna sorpresa: / il solito mistero risaputo / con cui si son dovuti / in tanti e tanti anni / fare i conti». La terza strofa, però, piazza un colpo a sorpresa: si sta parlando non delle poesie di Umberto ma delle barzellette del fratello Andrea: «Questo io sento / – e ascolto, e mi emoziono – / nelle trecentomila barzellette che ci racconti». Allo stesso tempo, il lettore più smaliziato non è preso del tutto alla sprovvista, perché sa probabilmente che proprio alla forma barzelletta la poesia di Fiori è stata paragonata dalla critica e dall’autore stesso. Con un gioco sottile, l’introduzione dell’elemento personale e sentimentale fa insomma tutt’uno con l’introduzione, non dichiarata ma in realtà facilmente riconoscibile, dell’elemento metapoetico. Segue una quarta strofa, in cui il discorso sulle barzellette di Andrea e quello sulle poesie di Umberto sono ormai completamente sovrapposti: «Non però nel momento / in cui la storia svolta, e si sghignazza: / dico nei tuoi preamboli, / dove i pupazzi e le bambole / diventano uomini vivi / e donne, con i loro bei discorsi / meravigliosamente scontati / parola per parola, e la vita / un passo dopo l’altro / esibisce la sua / terribile ovvietà». A questo punto la velatura non ha più senso, e in perfetto stile Fiori la chiusa esplicita la similitudine e insieme consegna una dichiarazione di poetica memorabile, dove l’understatement e l’apparente tautologia racchiudono uno dei maggiori obiettivi di una poesia che, fin dagli esordi, ha ribattuto sull’importanza decisiva del tornare a vedere quello che abbiamo sempre sotto gli occhi e che, proprio per questo, finiamo per dimenticare: «Così vorrei io che suonassero / a chi la vita la sa già / le quattro poesie che scrivo».
(Marco Villa)
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