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FABIO PUSTERLA, Tremalume, Milano, Marcos y Marcos, 2022, pp. 192, € 20,00.
 
Tremalume, nono libro di poesia di Fabio Pusterla, segue all’autoantologia Da qualche parte nello spazio. Poesie 2011 2021, con un saggio di Massimo Natale e autocommento dell’autore, Firenze, Le Lettere, 2022. Il volume riproponeva, insieme a una serie di componimenti inediti che anticipavano l’ultima raccolta, testi delle tre precedenti sillogi di Pusterla: Corpo stellare, Argéman e Cenere, o terra, tutte edite da Marcos y Marcos, rispettivamente nel 2010, nel 2014 e nel 2018. Con tale selezione è parso il poeta intendesse sancire o almeno suggerire la chiusura di una sorta di trilogia per aprire un’altra fase della sua opera. Eppure, Tremalume, sebbene con elementi di indubbia originalità stilistica, prosegue anche nel solco di Cenere, o terra. Alle immagini di rovina tipiche della poesia di Pusterla, nel libro del 2018, faceva infatti da contraltare la stessa luminosità baluginante che si ritrova nel titolo di questo libro. Un titolo costituito – giusta una chiosa dell’autore – da un neologismo nel quale, appunto, «il tremore, la minaccia e la preoccupazione non eliminano affatto la piccola sopravvivenza di un lume, di una minima luce a cui affidarsi». La nuova coniazione di Pusterla affiora subito nel componimento liminare, quale predicato della dantesca «Parola navicella» posta a incipit del libro (e ribattuta in una specie di acrostico che percorre circa in diagonale il testo, secondo un gusto per la sperimentazione e il gioco linguistico memore di certo Zanzotto e che riguarda nel complesso la raccolta, p. 9). Immediatamente, alla parola poetica viene quindi riconosciuta, in Tremalume, una funzione alta, di strenua opposizione alle distorsioni del reale. Nelle cinque parti che la compongono, l’intera silloge, pervasa da un’accentuata dimensione metapoetica e meditativa, sembra incessantemente confrontarsi con tale impegnativo mandato o, meglio, con la problematica ambizione della propria parola «a farsi luce» (per stare nei termini di Porte chiuse, incontri, cancelli, p. 47), a sollevarsi «in levità» (di nuovo [Parola navicella], p. 9, con grassetto nel testo a comporre il menzionato acrostico), come «lucepiuma», in un presente connotato invece di pesantezza.
Ecco allora che nella prima sezione, Le sbarre, in un poemetto (forma impiegata diffusamente in Tremalume, accanto a quella del frammento) intitolato Una lettura in carcere e che è una sorta di riscrittura di Una visita in fabbrica di Sereni, uno dei maestri di Pusterla, il soggetto poetante, l’io che nel libro appare spesso in cammino o, giustappunto, in visita, viene in vitato a misurare la tenuta della poesia in un contesto di segregazione: «Ma tu, una poesia sul carcere, / la scriveresti o no? Chiedeva serio uno [...]. | Voleva dire, se la parola è quello / che spera di essere e dice, / non egotica, / che dovrà pur par lare / anche di noi, di noi reclusi» (p. 33, corsivo nel testo). Al più recente Pusterla, che conferma dunque una sua spiccata vena civile, del resto interessano proprio i margini della società neocapitalistica, sottoposta a dura critica soprattutto nella sezione ambientata nella ‘sua’ Lugano, la quarta della raccolta, Lugangeles: «Qui nessuno può dirsi innocente / ogni cosa qui scaglia l’accusa / sei tu merce e di merce cliente» (12, p. 126). Nella seconda partizione, Requiem, si veda il Requiem per una casa di riposo lombarda, «ispirato ai tragici avvenimenti della primavera 2020» (Note, p. 184), ovvero alle stragi verificatesi a causa della malagestione dell’emergenza da Covid-19 in numerose residenze sanitarie assistenziali della Lombardia. Gli anziani consegnati all’abbandono e alla morte finiscono sintomaticamente per intonarvi i versi di Sull’aria della «Internazionale» di Fortini: «Cantiamo / chi ha compagni / non morirà. Un’antica aria / nella storia dei paria» (II, p. 56, corsivo nel testo). Sono loro i novelli «ultimi del mondo», come li chiamava Fortini, gli sconfitti della storia, ai quali Pusterla, in punta di penna, sempre interrogandosi sulla legittimità di un’operazione del genere, tenta di ridare la parola (non a caso, è frequente nel libro il discorso diretto dei personaggi evocati). Esplicita in tal senso la terza parte della silloge, Cielo dei vinti, una volta celeste in cui, coerentemente con la metafora portante della raccolta, le «stelle si sono spente», manca, cioè, ogni luce (Frammenti di Truganini, 12, p. 78).
Nella sezione si staglia in particolare la sagoma di Truganini, intestataria di ben due serie, i Frammenti di Truganini e le Canzoni di Truganini. Truganini – spiega il poeta – è «l’ultima aborigena della Tasmania: l’ultima a morire, dopo il genocidio del suo popolo, verso la fine dell’Ottocento» (Note, pp. 184-85). Simile al medievale Uomo di Bocksten cui Pusterla aveva dedicato nel 1989 la sua seconda raccolta, la donna è il residuo di una civiltà annientata e ridotta al silenzio: «Cos’è una roccia? un fiore? / Cosa una teleferica, cosa una mongolfiera, / un sentiero, un animale morto, una stella? // Cosa un bastone, un’aquila, un fiume, / cos’è una frusta, una pallottola, una malattia, / la fine di tutti, una rondine caduta? E il male cos’è? // Truganini saprebbe tutte le risposte» (Frammenti di Truganini, 6, p. 72). Ma è stata messa a tacere dal violento incedere dell’uomo occidentale: «Truganini non può dire io / Truganini non può ricordare nulla / perché io non esiste [...] / e la memoria è fuori corso» (Frammenti di Truganini, 1, p. 67). Con lei, stanno i morti, gli scomparsi, «Those who vanished», quelli che «hanno lasciato tracce / di non si sa più cosa» (Hohkam, p. 146, corsivo nel testo), ovvero le esistenze ancestrali e dimenticate, dagli «ominidi» del componimento Sotto il Monte Magiore, con Giovanni (p. 22), ai più vicini avi del ciclo Figurine d’antenati (pp. 101-11). Sulla pagina di Pusterla queste esistenze soppresse riacquistano in qualche modo uno spazio, una voce.
E si capisce come, entro una simile prospettiva, s’inserisca in maniera naturale un attualissimo orizzonte per così dire ecologico: alla cancellazione e al mutismo sono oggi costretti e di conseguenza «da proteggere» (Figurine d’antenati 7, p. 109) la natura, in Pusterla continuamente dolente e in pericolo, i paesaggi atavici destinati a essere sostituiti da autostrade e centri commerciali (Paesaggio verticale. Compianto per una valle fra le tante, pp. 52-53) e i ‘senza parola’ per antonomasia: gli animali. Presenza costante della poesia di Pusterla, in Tremalume, i «conigli dentro gabbie» di Polo Nord (p. 13), le «belve» fuggite dallo zoo di Kalemegdan (p. 42), le «scimmie» da laboratorio di Chimera (p. 43) o, ancora, il cervo con i palchi incagliati in un guardrail di Nell’afa (pp. 136-136) e perfino le «minime ontologie» batteriche «che provano ad alzarsi verso il cielo» di Nostoc (p. 139) paiono assurgere a figura di ogni oppresso e, a un tempo, lasciare intravedere uno spiraglio di future e migliori forme di vita collettiva: «Formiche ultima speme?» si domanda il poeta in Insettini, umanini, bambini osservando, sopravvissute a un incendio boschivo, «formiche / che vanno commoventi in lunga fila / verso una loro forma silenziosa / di perfezione a noi ignota» (p. 143).
L’adempimento di tali possibilità di domani, secondo Pusterla, passa attraverso il dispiegarsi della particolare condizione che, sulla scorta di due occorrenze del Fiore attribuito a Dante, definisce (è il titolo del la quinta e ultima sezione e di un’eponima poesia) Angelicanza: non «l’angelo non la sua trionfale / abbagliante figura metafisica, / non l’immagine; un’essenza, piuttosto, eventuale, / una grazia che appare insieme ad altre minori / e va con loro impresso la bandera / come tutti proviamo ancora a fare / nella fatica degli anni nel silenzio dei cuori | mentre là fuori avanzano / vessilli di pesti colori» (p. 133, corsivo nel testo). Ma, traducendo dalla lingua poetica a quella della politica, cui Tremalume – risulta ormai chiaro – non è affatto estranea, l’angelicanza ha probabilmente un altro nome: utopia. Sarà in definitiva l’aspirazione verso un avvenire diverso, di contro alle potenzialità del passato e del presente recise, che dà barlumi lungo tutta la raccolta: «Ubiqua e contumace, un’utopia / luccica in fondo al mare?» (Una lettura in carcere, 5, p. 39). Nella parte terminale del libro si consuma infine un ideale passaggio di consegne. Spetterà un giorno ai bambini, qui incarnati dai nipotini del poeta, Lucio (Dialoghi con Lucio, pp. 157-64) e Tullio (Nascita notturna, p. 165) con i quali viene inscenato un tenero scambio, rinfocolare la fiammella della speranza, dare ascolto alle «molte voci» portate dal vento (Altopiano dei fuggiaschi, p. 179) su cui si chiude il volume.
 
(Michel Cattaneo)

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