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MARIAGIORGIA ULBAR, Hotel Aster, Venezia, Amos Edizioni, 2022, pp. 121, € 14,00.
 
Le soglie da varcare prima di entrare nel vivo di Hotel Aster di Mariagiorgia Ulbar, ovvero le tre brevissime dediche che seguono la pagina con l’occhiello e, nella doppia ancora successiva, un esergo da Susan Sontag, sembrano particolarmente indicative della stoffa, del principio che si muove al cuore del libro, strutturandolo pur nell’assenza di palinsesti, articolazioni interne (sezioni).
Partendo dall’esergo, la domanda su cui si apre la citazione («How far from the beginning are we?») pone immediatamente l’accento sulla questione nodale, che rintocca fin dal testo incipitario (fuori dalla numerazione progressiva che fa le veci dei titoli), ovvero la questione del ritorno all’inizio. Vale forse la pena ricordare come il motivo della ri-conquista dell’origine costituisca un proprium dei racconti gnostici, che cominciano in genere con un soggetto catastroficamente precipitato in una dimensione che non gli appartiene e la cui miseria lo porta all’oblio, a dimenticare cioè la sua provenienza; salvo poi riscoprirsi, ossia ri-appropriarsi della memoria, seguendo un percorso (la narrazione stessa) orientato verso la propria, autentica nascita.
Recita quindi il testo proemiale, il ‘punto-zero’ di Hotel Aster: «Eppure non mi sembrava grave. Avevo disturbato? / Non lo credevo quando entrai in quel luogo e ancora oggi non lo credo, sebbene sia trascorso molto tempo, sebbene io abbia seguito il programma e gran parte delle persone incontrate all’epoca siano scomparse. / In seguito al grande terremoto, l’asse terrestre si spostò di alcuni centimetri e molte cose cambiarono. L’Hotel Aster crollò sul lato occidentale. / Ci furono ore di stasi dopo quel grande rumore, poi tutti uscirono, lentamente, abbacinati dalla luce, e si persero nella macchia» (p. 15). L’entrata in scena dell’io cortocircuita con l’evento di un grande crollo, con la rottura di un ordine geologicamente precostituito (descritto anche come un fenomeno acustico, «quel grande rumore») che determina prima una fase di assoluta immobilità, quindi una nuova fuoriuscita nel mondo selvoso e spaesante, equivalendo l’abbaglio all’oscurità di una notte epistemica. All’avventura di «tutti» è prometeicamente incatenato lo sguardo di chi dice «io» («Non posso fare a meno di concentrarmi […] devo descrivere tutto ciò che accade», p. 23): ma la condanna all’incameramento dei dati (alla coazione a ripetere un gesto narrativo sistematicamente abolito dalla radicale ulteriorità del narrabile rispetto al narrato) fa tutt’uno con l’elezione, con l’investitura poietica di questo sguardo narrativamente operante, che si ricostituisce sincronicamente come voce («Mi chiedono di scrivere, di essere precisa, di narrare gli eventi. / […] Narro, per questo motivo, ogni immagine traducibile in parole in mio possesso», p. 81).
Tornando quindi alle dediche liminari, risulta paradigmatico che i due numi tutelari invocati siano Patrizia Cavalli e Carlo Bordini. Nell’opera della poeta di Todi, infatti, il sentimento della cacciata edenica, dell’esilio in terra straniera (tematizzato, per esempio, nella prima sezione del libro del 2006, Pigre divinità e pigra sorte) da un lato, e la costrizione, il male di essere sempre testimoni di se stessi (come recita il titolo del ’92, dell’io singolare proprio mio; quelli in corsivo sono termini cavalliani) dall’altro lato fanno da rimbalzo a un gesto radicale di autoinvestitura, alla felice ostensione del lusso che è il proprio mestiere: niente più e niente meno di niente, di continuare a perdere qualcosa che non si ha. Il genius loci bordiniano emerge in particolar modo in rapporto alla meccanicità descrittiva in cui si dissipa la pseudo-vicenda di Hotel Aster, evidente nei rari passaggi versificati (in un’economia compositiva che privilegia la giustificazione, o ‘prosa’ che dir si voglia), nei quali la ripetizione allucinata di una canzone diventa un principio strutturante («Nella terra dei lupi tornerai prima o poi? / Nella terra dei lupi, nella terra dei lupi / che la luna portarono fino a quaggiù. / Nella terra dei lupi ti incontrerò più?», p. 86).
La terza dedica infine (che in realtà è la prima delle soglie del libro) si indirizza enigmaticamente «Alle perline in fondo al cuore». Come nel Canto della Perla (la breve composizione gnostica di origine siriana tramandata anche dagli Atti apocrifi dell’apostolo Tommaso), il soggetto poetico di Ulbar sembra incarnare il gesto iniziatico del recupero della res amissa, la cosa smarrita o dimenticata, in un’avanscoperta che è allo stesso tempo un ritorno a un punto iniziale che illumini retroattivamente lo stesso cammino che consente di accedervi: «Solo molti anni più tardi seppi che quella notte aveva rappresentato un bivio nella mia esistenza e io, restando immobile, avevo innescato il corso degli eventi che mi hanno portata fino al luogo in cui ora mi trovo» (p. 78). A orientare chi dice «io» nel suo percorso (che è il percorso di «tutti»: «How far from the beginning are we?») verso la fonte che lo detta è dunque un esercizio di ascolto attivo, un ascolto cioè letteralmente mobilitato alla restituzione del racconto («Raccontare da questa stanza porta con sé uno sforzo non indifferente. Una musica risuona per il corridoio antistante […]. L’ho inseguito per giorni, tendendo l’orecchio. È difficile riuscire a comprenderne la fonte e provenienza. Ho scovato ieri ciò che produce il suono», p. 80). Non a caso, anche quando l’origine è di natura linguistica, l’«esercizio», lo sforzo di concentrazione, pertiene comunque la dimensione sonora, e l’etimologia da riconquistare è quella di delirare – che, come recita il biglietto scritto a mano a p. 88, indicava originariamente il movimento di allontanamento dal solco della lira: «e la lira è il canto».
 
(Giulia Martini)

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