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RABAN MAUR, Les louanges de la sainte Croix – In honorem sanctae crucis, Beaux-Ars de Paris éditions, Ministère de la Culture, Paris 2022, pp. 204
 
Edizione con facsimile, trascrizione, traduzione francese e qualche annotazione, del manoscritto del XII secolo conservato nella collezione delle Beaux-Arts di Parigi, Mas 122, proveniente dalla biblioteca del collegio dei Cholets e recante le iniziali di Jean Masson come donatore al Collège Louis-le-Grand. Messo in mostra solo in due esposizioni del 1927 e 1953, si compone di 40 fogli di pergamena che misurano 44x33,5 centimetri e contiene il capolavoro di Rabano Mauro (780-856 circa) In honorem sanctae crucis (che altrove si trova col titolo De laudibus sanctae crucis), l’opera di massima espressione medievale del genere dei Carmina Figurata che comprende 28 poesie (più un prologo e tre dediche) ispirate alla croce come concentrazione simbolica della storia sacra e della dottrina cristiana disponendo i versi in pagine regolari intessute al loro interno di figure composte da sequenze di lettere che formano a loro volta altri versi. Le poesie figurate sono accompagnate dagli auto-commenti (declaratio figurae) dello stesso Rabano e seguite da una parafrasi in prosa dei ventotto componimenti. La riproduzione fotografica, molto efficace e luminosa, include anche un sermone anonimo a tema mariano presente nel manoscritto dopo l’opera principale, che commenta Cantico 6, 9 ed è fiancheggiato da una miniatura a tutta pagina con Maria circondata da 7 medaglioni con colombe che rappresentano lo Spirito Santo e in grembo una mandorla occupata da una figura di Gesù maturo. La riproduzione è seguita dalla trascrizione e traduzione di ogni testo (articolate nella sequenza A, B e C che distingue poesie, spiegazioni e parafrasi), che offre anche un accurato diagramma che fa capire in quale sequenza leggere le lettere che compongono i versi inseriti nelle figure. Il facsimile alle pp. 109-110 riproduce, in formato più piccolo che non consente la lettura del testo, anche i tre fogli finali recto-verso del manoscritto, che contengono una parabola di Bernardo di Clairvaux e tre sentenze, una sua e due di Anselmo di Laon, testi che nel volume non sono né trascritti né tradotti.
Le introduzioni sono tre, in pagina grande (24x33 cm) a doppia colonna. Nella prima, Regard contemporain (pp. 11-17, con 14 tavole illustrate), Éric de Chassey, Direttore dell’Institut national d’histoire de l’art, ricorda di aver conosciuto l’opera di Rabano nel 1993, in occasione dell’esposizione Poésure e pentrie al Centre de la Vieille Charité di Marsiglia, esperienza poi rinnovata con la mostra Make it new organizzata da Charlotte Denoël ed Erik Verhagen alla Bibliothèque Nationale de France nel 2018, che poneva proprio il De laudibus crucis a confronto con l’arte minimalista di Jan Dibbets e altri. È ben consapevole che per la cultura carolingia e per Rabano in primis la scrittura era superiore all’immagine, ma osserva che in quest’opera la lettera condiziona la forma e viceversa, riducendo entrambe a una disposizione rigorosa e regolare “inserite in una geometria alla quale si sottopongono – e talora sfuggono – alcune figure e un numero limitato di colori”. Fra i circa 28 testimoni dell’opera questo manoscritto sembra distinguersi per una certa libertà e qualche maldestrezza. La prima caratteristica è la frontalità dell’ornamentazione, che secondo de Chassey potrebbe non appartenere al piano originario (ma, considerato che i primi esemplari uscirono sotto il controllo dell’autore, probabilmente lo fu). Ogni immagine si presenta come un pannello rettangolare o quadrato incorniciato da un bordo a colori e prodotto dalla ripetizione di motivi simili, ma di volta in volta un po’ diversi. L’impostazione conferisce un carattere monumentale, anche in dimensioni ridotte, e si modifica con l’inserimento di versus intexti nelle illustrazioni costituite da personaggi, figure geometriche, animali o vegetali. Nei termini, in verità piuttosto banali, di Ernst Gombrich (The Sense of Order: A Study in the Psychology of Decorative Art, 1984, p. 5) si tratta di “una struttura d’insieme dove è possibile individuare deviazioni rispetto a una regolarità” e di “osservare configurazioni semplici senza preoccuparsi del loro riferimento al mondo naturale”. In realtà, come aveva già intuito Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc nel 1863 (Entretiens sur l’architecture, pp. 471-472) “la décoration n’est point una parure banale (…) elle est écrite déjà dans la structure si la structure est sensée”, cioè la decorazione è consustanziale al principio che guida la creazione delle immagini. In realtà, diremmo noi, questi non sono i termini corretti per comprendere l’In honorem sanctae crucis, perché qui le figure non sono decorazione, come in architettura, ma espressione primaria che è nello stesso tempo lettera e immagine. Le lettere (anzi: i versi!) compongono forme e le forme condizionano la formulazione delle parole. Altre categorie qui considerate utilizzabili nella definizione di queste creazioni sono quelle definite da Oleg Grabar (in L’ornement. Formes e fonctions dans l’art islamique, trad. francese 1992, p. 9) potenza callifora (portatrice di bellezza), terpnopoietica (portatrice di piacere) e monottica (percepibile in un solo colpo d’occhio). Nonostante l’inappropriatezza (ai nostri occhi) della definizione di “decorazione” per le immagini dell’opera, de Chassey insiste con un rinvio a Rémi Labrusse, che in Face au chaos. Pensées de l’ornement à l’âge de l’industrie (2018, p. 61) sostiene che “Ce qui caractérise l’ornement, ce n’est donc ni l’avènement d’un signifiant sans signifié ni la fixation d’une forme symbolique, mais plutôt un relâchement du lien symbolique entre forme et représentation: l’ornement signifie faiblement, d’une façon tremblée, diluée, flottante”. Il che è certamente vero in generale ma non nella cultura medievale e soprattutto in quest’opera, dato che Rabano si sforza in ogni modo, nei commenti alle figure e nei testi stessi sia in versi sia in prosa, di spiegare il valore simbolico pieno e diretto, spesso polisemantico ma sempre determinabile e tutt’altro che galleggiante, di ogni sua figura. De Chassey ipotizza che all’epoca del manoscritto (XII secolo) la rigidità del simbolismo fosse affievolito, ma il rigore sistematico delle vetrate di Saint-Denis ci dimostrano il contrario. Lo “sguardo moderno” è utile a portare prospettive nuove ma rischia forzature. La scarsa regolarità delle lettere nel manoscritto delle Beaux-Arts conferirebbe loro un carattere meno “calliforo” rispetto alla sobrietà dei manoscritti carolingi, ma forse più creativo. Questo a nostro avviso non è tuttavia un fatto culturale, è un elemento tecnico. Secondo De Chassey nei carmina figurata “les lettres deviennent des petites formes ornementales, constituant un motif régulier, fait des répétitions et de variations”, secondo una griglia tracciata (a suo avviso con un pettine dentato) prima della scrittura di lettere e figure, che egli paragona brillantemente alle forme astratte generate dagli artisti del movimento De Stijl (cioè Mondrian, van Doseburg e Vantongerloo). La struttura a griglia dei carmina cancellata sarebbe una delle tante caratteristiche della poesia visiva moderna, come dimostrano gli studi del medesimo autore (“La grille, entre architecture et peinture”, in L’Abstraction avec ou sains raisons, 2017, pp. 15-57), e consentirebbe dei raffronti con Aurelie Nemours (1910-2005), che ha definito la compresenza di griglia e croce come “alfabeto plastico dell’universo”.
Molto interessanti sono anche le riflessioni sulla metrica “visuale”, cui noi moderni siamo ormai familiari, che cercherebbe di mantenere relativamente costante (da 35 a 41) il numero di lettera per verso. Qui è forse contestabile il riferimento alla metrica piuttosto che alla ritmica, perché anzi l’isosillabismo è garantito più nella poesia ritmica che in quella metrica, dove le sostituzioni fra una lunga e due brevi sono normali: qui si tratta di esametri, cioè di versi che per loro natura non sono isosillabici e tantomeno isoletterali, ma appunto lo diventano in questa conformazione specialissima. De Chaissy propone anche un raffronto audace con testi e cifre di Hanne Darboven (1941-2009) nella subordinazione di entrambi gli artisti a una logica numerica, di cui si percepisce la portata simbolica, teologica, mistica o esegetica (“au moins confusément”: ma Rabano spiega analiticamente il significato di ogni numero). Si potrebbe aggiungere forse anche qualche quadro numerologico di Giacomo Balla, ma bisogna ricordare che i suggerimenti proposti da Chaissey sono ulteriori rispetto ai molti artisti contemporanei già messi a confronto nella mostra Make it new, anche se purtroppo il link http://editions.bnf.fr/make-it-new è inesatto (“page non trouvée”). Nel quadrato rabaniano le figure si iscrivono isolando un insieme di lettere in maniera continua o discontinua che non mostrano cambiamenti di colore come nei manoscritti carolingi ma cambiamenti dello sfondo, e anche questo può richiamare un parallelo moderno negli “esercizi spirituali” di Simon Hantaï (1922-2008).
Il manoscritto delle Beaux-Arts mostra un uso molto maggiore di altri del colore oro, che secondo De Chassey conferisce un carattere eterogeneo alle figure in rapporto al testo, perché la lettera quasi vi scompare a vantaggio della forma geometrica, con un aspetto “suntuario” che costituirebbe forse una specie di divertimento rispetto alla radicalità carolingia pur essendone una semplificazione, perché rinuncia ai colori usati nei manoscritti carolingi (colori che secondo Denoël non avrebbero valore simbolico, mentre De Chassey giustamente nota che Rabano li collega ai quattro citati nell’Esodo: giacinto, porpora, lino e scarlatto) ma aggiunge alle figure un bordo in rosso variamente tratteggiato, che De Chassey acutamente interpreta come mirato alla diffusione del poema nello spazio, non tanto lo spazio cosmico o interiore quanto letterale e di lettura; e questo movimento contamina anche le figure di esseri viventi: solo 4 su 27, perché la celebre raffigurazione di Ludovico il Pio con scudo e lancia che abitualmente apriva l’opera qui manca, anche se ne è presente il testo, ma alla fine questa mancanza risulta coerente con l’astrazione del resto. Perfino il Cristo di B1, accuratamente commentato a p. 16, rivela un dinamismo individualizzante che si contrappone alla stereotipia trionfante del tipo carolingio. Lo stesso per gli angeli di B4, i quattro animali di B15 e ovviamente il monaco orante di B28 che rappresenta l’autore. L’immagine mariana che chiude il facsimile e accompagna il sermone colpisce invece per la sua monumentalità e per i due vortici in bianco su fondo blu che conferiscono alla miniatura una dimensione cosmica, con pochi confronti nell’arte romanica salvo il crocifisso appena descritto e i bassorilievi di Cristo del Museo Fenaille di Rodez.
La seconda Introduzione, Raban Maur et les origines du manuscrit des Beaux-Arts, è di Alexandre Leducq, Direttore della rete delle mediateche di Ardenne Métropole (pp. 19-23) e riepiloga i dati biografici di Rabano e le informazioni a disposizione sull’opera, completata nell’810, quando Rabano era maestro a Fulda ma non ancora abate, per adempiere – come ha mostrato Michel Jean-Louis Perrin in L’Iconographie de la Gloire à la sainte croix de Raban Maur, 2009 – a una promessa fatta dall’autore al suo maestro Alcuino. Rievoca opportunamente anche il contesto del conflitto carolingio-bizantino sul culto delle immagini sfociato nella stesura dei Libri Carolini o Opus Caroli; come già sostenuto dalla Denoël, la scelta della croce, figura astratta e indipendente da esseri viventi, sfuggirebbe a ogni discussione. E non manca nemmeno di richiamare brevemente la tradizione dei Carmina figurata che si fa risalire a Optaziano Porfirio (ma ci sono in realtà i precedenti greci) e l’ipotesi che Rabano abbia curato personalmente la diffusione di esemplari dell’opera sotto il suo controllo che sarebbe all’origine della sorprendente, dato l’altissimo costo, quantità di manoscritti sopravvissuti (28). La prima stampa fu eseguita nel 1503, dunque nell’epoca in cui si stampavano prevalentemente opere di consultazione e i grandi classici. Il manoscritto delle Beaux-Arts è di origine misteriosa e nemmeno l’analisi della rilegatura fornisce indizi in merito. Il Collegio dei Cholets era stato fondato a Parigi nel 1295 per accogliere gli studenti delle diocesi di Beauvais e Amiens e nel 1763 viene rifuso nel collegio Louis-le-Grand. Durante la Rivoluzione francese il codice fu portato in Inghilterra, come dimostra una nota nel foglio di guardia e ritorna in Francia grazie al commerciante di tessuti Jean Masson, bibliofilo, che potrebbe aver consultato una copia del De laudibus ad Amiens (223F) e, conosciuta così la bellezza dell’opera, aver acquistato da qualche parte (probabilmente in Inghilterra) l’esemplare che poi lasciò alla biblioteca delle Beaux-Arts nel 1925 col vincolo di esporlo ogni due anni, insieme agli altri manoscritti da lui donati.
La terza e ultima introduzione, La tradition des Louanges de la Sainte Croix (pp. 25-32), è dovuta a Michel J.-L. Perrin, curatore dell’edizione critica del testo presso il Corpus Christianorum (n. 100 e 100A, 1997), François Ploton-Nicollet, latinista dell’École nationale des Chartes di Paris e Laure Rioust del Département des manuscrits della Bibliothèque nationale de France. Presenta la storia del testo, inizialmente vergato su manoscritti di grande formato (30x42 cm) e ne descrive la disposizione: figure con versus intexti nella pagina sinistra e declaratio a destra, precedute da poche pagine di introduzione ma prive di titolo nei testimoni del IX secolo. La scelta del soggetto è ricondotta alla disputa sull’adozianismo, eresia sulla natura adottiva del ruolo di Figlio di Dio da parte di Cristo diffusa alla fine dell’VIII secolo, e alla querelle delle immagini sull’iconoclastia o l’iconodulia bizantina, di cui abbiamo riferito sopra. Si dimentica qui il testo principale sull’argomento, cioè il De adoranda cruce di Eginardo, il biografo di Carlo Magno, scritto in occasione dell’arrivo in Francia di un frammento della “vera” croce dalla Terra Santa. Quanto alla scelta del genere, secondo gli autori Rabano aveva probabilmente visto un manoscritto coi carmi di Optaziano Porfirio (che lui chiama solo Porphyrius) a Tours e conosceva gli esercizi di carmina figurata di Alcuino, Giuseppe Scoto, Teodulfo. Fra questi, lo stesso Alcuino aveva prodotto sei (numero perfetto, in quanto somma dei suoi divisori) variazioni proprio sulla croce. Rabano avrebbe dunque sviluppato il progetto del suo maestro impegnandosi in “metamorfosi e anamorfosi” di un disegno minimalista e astratto che può fare da riferimento alla storia dell’umanità e all’impianto teologico del cristianesimo. La forma dell’opus geminum (versi e prosa) si inscrive nella linea di Boezio e Aratore (il quale tecnicamente non crea un opus geminum perché ciò che scrive nei versi non è detto nella prosa). Si potevano citare anche Sedulio (Carmen Paschale-Opus Paschale) e Aldelmo di Malmesbury (De virginitate).
Il criterio numerologico, che assegna uno o più significati a ogni numero, è rapidamente ricostruito a partire dalla tradizione pitagorica, dalla scuola alessandrina e da Ticonio, ma soprattutto dalla Bibbia. 28 inoltre è il numero delle partizioni della cupola del Pantheon di Agrippa e anche per Nicomaco di Gerasa (II secolo) il 28 e la sfera erano modelli archetipici dell’ordine del mondo. Nella cultura cristiana 28 è formato da 2x10 (comandamenti) + 4 (Evangelisti), ma 28 è anche la larghezza del tabernacolo in Esodo, cap. 26. 28 è anche 4 (Vangeli, punti cardinali, elementi, virtù) x 7 (settimana della creazione, doni dello Spirito Santo, chiese dell’Apocalisse, ma anche peccati capitali e punizioni subite da Cristo). La numerologia è anche interna alle composizioni: i divisori di 28 (14, 7, 4, 2, 1) si ritrovano nella ripartizione delle poesie, con 14 poesie di versi di 27 lettere, 7 di 35, 4 di 39, 2 di 36, 1 di 41 (quello con Cristo che abbraccia il mondo).
Molto appropriata è la definizione dell’opera come una sorta di anno liturgico in miniatura, dato che il ciclo è insieme una storia sacra del mondo e dell’umanità che si conclude con l’Apocalisse, il commento di Beda al quale è ipotesto degli ultimi carmi di Rabano. E la sequenzialità dei testi, già raccomandata nel prologo da Rabano, è visivamente confermata dagli “agrafi” che legano B3 e B4, B 16 e 17, B 19 e 20, B 26 e 27.
Del colore si ribadisce qui il valore simbolico e anzi l’esistenza di una retorica dei materiali, in cui ad esempio l’oro e a porpora usate nel manoscritto Vaticano Reginense 124 hanno valenze imperiali, mentre rosso e giallo sono i preferiti dai carolingi (e predominano in Amiens 223), il blu giacinto del mantello di Ludovico (nei manoscritti in cui compare) è riferimento al colore dei sacerdoti dell’Antico Testamento. Talora è lo stesso Rabano a fornire indicazioni, come per gli angeli di B4 o i Sette doni di B22. Perfino le grafie possono comportare significati simbolici, come l’onciale per i versus intexti, la capitale rustica per le parti in evidenza, la carolina per il testo corrente. Le informazioni sulla storia del codice ripetono invece quanto già scritto da Leducq, e ipotizzano la caduta di un foglio o quaderno con il primo poema su Ludovico, ma mancano anche B5 e C5, forse per omeoarco con l’incipit di C4. Sul piano filologico, sebbene la forma rigida non consenta di solito variazioni significative, si segnala comunque qualche lezione che accomuna Mas 122 a una parte della tradizione e in particolare ad Orléans BM 145 dell’XI secolo e Bern, Burgerbibliothek 9 del 1000 circa, ma solo per alcuni dettagli.
Sul piano codicologico al lusso dei materiali e alla coloritura dei bordi, assente dai manoscritti più antichi, si contrappone il risparmio ottenuto cominciando, a parte D, immediatamente dopo C28 e qualche minore qualità nel disegno o della pittura. Qualche contraddizione nella descrizione di Cristo nel testo B1 in formam crucis ma non crocifisso, e l’immagine invece di Gesù in croce accanto.
La parte finale del manoscritto, riempita più tardi, presenta undici sermoni anonimi sulla Bibbia più una sentenza e una parabola di Bernardo di Clairvaux e due sentenze di Anselmo di Laon sulla simonia, testi che qui vengono dichiarati in corso di studio. Il volume ne trascrive e traduce il primo, che commenta in senso mariano il versetto 6, 9 del Cantico dei Cantici e sembra mostrare un’impostazione più vicina alla scolastica (e attenta a spiegare tutti i possibili sensi di ogni parola del testo) che alla mistica bernardina. La miniatura che l’accompagna (riprodotta qui a p. 33 e poi nuovamente a p. 109) riflette i simboli mariani di sole e luna trattati nel sermone e secondo gli autori si inserisce nel dibattito teologico sull’Immacolata Concezione, con particolare riferimento alla tesi secondo cui Maria non sarebbe nata senza peccato ma sarebbe stata purificata (azione qui forse allusa dalle colombe dello Spirito santo). La mandorla che contiene Cristo ha evidenti richiami bizantini che fanno della Madonna una Panagia Platytera, “Vierge du Signe” (in realtà “la santissima più ampia”), caratterizzata dal clipeo nel grembo. Lo schema dei 7 ovali con colomba (ispirato ad Isaia 11) richiama invece i diagrammi così frequenti nell’illustrazione scolastica del XII secolo. Secondo gli autori si tratta di uno schema raro, confrontabile solo con la pittura murale di Saint-Loup-sur-Cher e la nicchia 135 della cattedrale di Chartres (1205-1215). Altri paralleli stilistici sono proposti con altri manufatti. Anche se la giustapposizione testo-immagine può aver suggerito la collocazione del pezzo in una raccolta di Carmina figurata, l’illustrazione così sontuosa di un sermone è fatto rarissimo.
Dopo un piccolo glossario a p. 34 comincia il bellissimo facsimile, intitolato Le manuscrit, che arriva a p. 111.
A p. 114 inizia la trascrizione con la traduzione francese. In calce al sermone finale (p. 203) questa parte del lavoro è attribuita a François Ploton-Nicollet, ma è probabile che l'attribuzione sia riferita a tutti i testi e non solo al sermone finale.
Le dediche tradotte alle pp. 114 e 115 non sono presenti nel ms. Beaux-Arts ma sono comunque tradotte dal testo dell’edizione Perrin per maggiore completezza. La prima è a Otgario vescovo di Magonza a nome del predecessore Aistolfo, che aveva richiesto l’opera e l’aveva ricevuta da Rabano. Il secondo testo è l’intercessione di Alcuino di York, maestro di Rabano, per il suo antico allievo, presentato come franco, abitatore della foresta di Hêtraie, che era stato mandato qui (a Tours) per imparare le parole di Dio dal suo abate (di Fulda) e, a 30 anni, si era messo a scrivere producendo questo libro in cui mostra i numeri tipologici, le figure metaforiche (qui la traduzione include un rite rimasto invariato dal testo latino), producendo un grande sforzo anche se l’autore stesso riconosce di avervi lasciato molti difetti, scusato dalla giovane età. La terza preghiera è per la salute del papa Gregorio (si intende Gregorio IV) in un tempo di aggressione pagana (Avari, Saraceni, Bavari?): lo si prega di accogliere la santa lode della croce inviata con questo messaggio. Segue la dedica ai confratelli dell’abbazia di Saint-Denis, l’abbazia regia, cui pure invia copia dell’opera e infine, accompagnata dal testo latino, la lunga dedica all’imperatore rappresentato, anche a parole, come armato e corazzato, per il quale si invoca protezione anche dalle accuse (forse quelle di cui Ludovico era stato fatto oggetto dai figli e da parte del clero), mentre i popoli stranieri, come i Greci, cioè i Bizantini, e i Persiani, gli mandano doni così come il suo popolo gli offre dell’ambra augurandogli vita e prosperità, e anche l’esiliato nutre fiducia nel suo scudo. Grande – scrive Alcuino – è la sua capacità di diffondere la fede e di difendere il mondo dal mare del peccato giungendo nel porto della croce. Il libretto in versi e prosa che viene offerto si apre con l’immagine dell’imperatore in piedi.
Questa sezione si chiude con il testo A6 che mette in prosa i contenuti della precedente aggiungendo Germani e Franchi ai popoli che sostengono Ludovico. “Che egli non lanci invano il giavellotto della sua Parola ma le sue armi siano tanto potenti da compiere ogni azione buona e affrontino la sfrontatezza della carne, mentre egli invia dappertutto i suoi sacerdoti a predicare il Vangelo”. Prosegue poi come nella dedica precedente ma la completa con una poesia di 15 versi in tetrametri dattilici che affianca l’immagine dell’imperatore in armi con la croce sull’elmo e augura alla sua stirpe di proseguire il suo cammino, poi con due adonii nel cerchio che circonda la testa e due asclepiadei nella croce che porta con la destra, per concludere con due distici elegiaci nello scudo.
A p. 7 inizia la parte conservata anche nel manoscritto delle Beaux-Arts (A7). Col lungo prologo in prosa di cui non si trascrive il testo latino, Rabano si appella alla Legge divina che invita a offrire doni al Signore per spiegare che con queste lodi della Croce egli sta offrendo le sue primizie, non per aggiungere ornamenti ad essa ma per predicare la gloria della Croce a coloro che la servono con lui: con una lettura frequente e attenta “noi” penseremo assiduamente alla redenzione che essa “ci” apporta. Poi spiega la tessitura del lavoro, per evitare che venga respinta a causa della viltà del suo autore e per i suoi difetti di composizione, che invita ogni lettore a segnalargli, se possibile, tenendo conto che gli errori sarebbero comunque effetto di imperizia e non di scarsa ortodossia e, se non è possibile segnalargliele per la distanza, a pregare per lui. Esorta quindi il lettore a seguire l’ordine di esposizione e a non trascurare le figure: per una loro migliore comprensione ha affiancato ai carmi delle spiegazioni in prosa e una interpretazione. I versi di ogni pagina hanno lo stesso numero di lettere e, se contengono segni o punti, sono per chiarire il senso. Rabano qui sembra addirittura scusarsi di aver usato l’interpunzione o segni di abbreviazione, di cui fornisce alcuni esempi: nel caso di quae o di –que, della terminazione –us (come, ricorda, fa anche Porfirio, cioè Optaziano, al quale attribuisce il modello di versi in griglia) e al posto della lettera –m marcata con una tilde. Segnala anche di aver usato le sinalefi (in effetti frequentissime), sull’esempio di Lucrezio (che dunque era ben letto anche in monasteri così spiccatamente teologici come Fulda o Tours), di aver occasionalmente soppresso la u collocata fra la q e una vocale, e di non aver considerato h una consonante, cioè utile per la posizione metrica, ma solo un segno di aspirazione come del resto consigliano anche i grammatici, rivelandoci dunque che nella pronuncia l’h si faceva ancora sentire. Ammette anche l’uso di figure retoriche come i metaplasmi e in genere tutti i tropi consentiti dai metricologi e al tempo stesso di aver osservato scrupolosamente le leggi prosodiche e metriche, affidandosi comunque alla clemenza del lettore.
Con A8, ancora un paratesto di invocazione, comincia la parte strettamente poetica e figurale, di cui questa edizione offre anche una trascrizione, priva di numerazione dei versi. Il testo latino, come purtroppo quasi sempre in questa edizione, è pieno di errori di trascrizione facilmente correggibili con una verifica sul facsimile, errori che in molti casi sembrano generati da una cattiva resa dell’OCR (ad esempio si trova spesso n letto come rn o viceversa). In A 8 segnaliamo al v. 3 orbi (non orbis), al v. 7 loquela (non lovella), al v. 26 portem (non portetur) e spernere (non spemere). Il carme esprime il desiderio della Musa dell’autore di cantare in versi e in prosa la volontà divina, i doni del Padre e i trionfi del Re; presenta la Croce e ripete l’argomento biblico della necessità di offrire doni al tempio divino: ne elenca molte specie per poi dichiarare di offrire per parte sua dei piccoli brani. Le lettere colorate e inquadrate nel testo, lette di seguito, danno la firma dell’autore: Magnentius Hrabanus Maurus hoc opus fecit.
Una pagina di sommario (capitula, A9) è seguita dal primo testo del libro I, B1+C1, con la celebre immagine del Cristo in croce, le braccia distese fino ai margini del riquadro e un testo tutto cristologico. Nel latino occorre correggere almeno i versi 2 (perducet, non Perdocet), 10 (dubitet, non tubitet), 13 (praedam, non praèdain; profunda, non profundo), mentre al 20 manca l’ultima parola iniquis, che tuttavia è presente nella traduzione (pour les injustes), il che dimostra che la traduzione non è fatta sul testo qui trascritto ma su quello critico di Perrin.
La Verità è qui rivestita di un abito formato da lettere, che permette di spiegare ciò che Cristo mostra col suo insegnamento. Segue una lista pirotecnica di epiteti a volte comuni a volte originali, commentati uno per uno nella prosa di accompagnamento. L’immagine contiene 10 iscrizioni metriche ben illustrate nell’edizione.
B2-C2 riguarda la forma della croce ed è divisa in quattro quadrati per mostrare “che essa contiene tutto”, cioè che include tutti i livelli della creazione. Il testo spicca per alcune espressioni originali, come ai vv. 11-12 et bene te extulerat, dire ne dicere puppup / rancidus is valeat deceptor, dux et iniqui, riferito al diavolo, che adatta una citazione dalla prefazione di Aldelmo al suo De virginitate metrico. Le 6 iscrizioni qui corrono lungo i bordi dei quadrati e cominciano tutte per O crux quae etc. Il commento, basandosi su citazioni paoline (qui stampate in corsivo ma non individuate) si riferisce ai quattro bracci della croce, corrispondenti ai quattro luoghi dove si trovano le creature celesti, terrene, infernali e celesti dotate di ragione. Quattro sono anche le affezioni dell’anima (timore e dolore, desiderio e gioia) individuate dagli antichi e scambiate da alcuni sapienti per vizi, come in effetti diventano se provate da uomini perduti che se ne servono male. “La specificità dei sentimenti umani è testimonianza del creatore dell’uomo ma la loro qualità identifica una volontà buona o malvagia”. In fondo al testo Rabano spiega che ha collocato la O, che assomiglia a un cerchio, ai quattro angoli del quadrato e alle estremità della croce così come all’incrocio dei bracci, per mostrare la potenza della santa Croce che tiene tutto legato insieme e che unisce nell’adorazione in Cristo ciò che è in alto con ciò che è in basso.
Nella trascrizione da segnalare al v. 3 crucifixi, non cnicifixi. Di grande interesse B3-C3 sui nove ordini angelici, i cui nomi (Seraphin, Cherubin, Arcangeli, Angeli, Virtutes, Potestates, Throni, Principat, Dominationes) “sono collocati in forma di croce” o meglio iscritti nelle lettere dei due nomi crux in verticale e salus in orizzontale.
Nel testo segnaliamo condit Olympi / Sidereosque ai vv. 4-5 (non condit / Olympi Sidereosque), hanc e non banc ai vv. 17 e 18. Diverse sarebbero anche le modifiche da apportare all’interpunzione, ma le rinviamo ad altra sede.
B4-C4 riguarda più in particolare i Cherubini e i Serafini ed è ripartito in quattro quadranti ognuno dei quali contiene una figura d’angelo (due Cherubini sopra, due Serafini sotto), con i quali Dio ha voluto annunciare, nella rivelazione dei profeti (che di quegli angeli parlano), la forma (di Croce) che doveva prendere la nostra redenzione, e che Rabano dichiara di aver scelto come più appropriata fra vare interpretazioni diffuse. Nelle figure d’angelo si leggono 6 iscrizioni che in qualche modo riassumono in uno slogan le spiegazioni della declaratio.
Nella trascrizione da correggere al v. 4 socia, non soda; al v. 8 supernum, non supébnum, al v. 14 rupit, non tapit, al terzultimo auctum, non auctu.
B5 e C5 si occupano invece della Casa di Dio e rappresentano quattro quadranti all’interno dei quali sono disegnati quattro quadrati. Le iscrizioni sono lungo il bordo di ogni quadrato e lungo gli assi della croce, dunque 6 versi che compongono un unico carme e, come spiega la traduzione francese del testo di Rabano, “commmencent dans l’angle supérieur drot, descendent sur le côté gauche de haut en base m dix-neuf lettres, ensuite on revient an arrière à partir de la vingtième lettre; on commence dans l’agle supérieur droit, et on va, en descendant par langle inférieur droit, juqu’au côté inférieur gauche: on l’atteint en dix-sept lettres”. Il significato generale presenta sia Cristo sia gli uomini come tempio di Dio, le cui pietre sono anzitutto, sulla scorta di Agostino, patriarchi e profeti, apostoli e martiri, mentre le pietre preziose citate da III Re 5, 17 sono i sant’uomini, i dottori della Chiesa non solo Ebrei ma anche dei pagani.
Nella trascrizione correggere al v. 13 Tegminis, non Teginnis.
B6 e C6 illustrano, sulla base di numerose autorità bibliche e patristiche, il rapporto fra le 4 virtù principali e la croce che le ha prodotte come suoi frutti. La figura ospita 4 triangoli dai contorni disegnati in 7 gradini (i doni dello Spirito) distribuiti ai 4 lati del quadrato, ognuno con la base verso l’esterno, con al proprio interno iscrizioni dedicate a Prudenza, Giustizia, Fortezza (in audace tmesi: Forti sed in dexro cornu fert spicula tudo) e Temperanza (modesta, forma verbale spiegata da Rabano come sincope, invero audace, di modestia, ovviamente per motivi metrici).
Nel testo latino da correggere al v. 4 piis, non plis; al v. 10 piis, non pifs. Piuttosto dubbio il rinvio per la frase iniziale della declaratio a Pseudo Ildefonso, De corona virginis 7 (Tuus fructus est aeternus, cujus odor mundum replet, cujus sapor fideles satiat, cujus splendor solem superat) che è datato al XII secolo, come registra correttamente la nota 2 di p. 137, e dunque deve essere se mai una ripresa (con qualche variazione) del de laudibus sanctae crucis.
B7 e C7 continuano la celebrazione della divina quaternitas, dichiarata numero di perfezione, celebrando i quattro elementi, le quattro stagioni, le quattro regioni del mondo e le quattro parti del giorno. La figura, che l’autore presenta come disegnata da lui stesso, contiene quattro cerchi con quattro iscrizioni di 36 lettere (numero detto “circolare”, cioè quadrato di 6) dal tono piuttosto lirico lungo le circonferenze: una per stagione. La spiegazione è che “tutta la macchina del mondo è temporale [cioè scandita in tempi] e mutevole a causa della mescolanza di elementi e della successione delle epoche”.
Nella trascrizione da correggere al v. 3 superno, non supemo.
Molto belli gli elenchi virtuosistici di caratteristiche stagionali in versi ad articulus come il v. 10 imber, nubes, grando, glacies, nix atque pruina o la lista delle modalità con cui cantare le lodi al Signore al v. 14 ac modulos, cantus, odas cantet quoque iustus, dove la virgola dopo odas va eliminata. La necessità di concentrare favorisce la creazione di formule originalmente compresse come prex fiat et unda, tradotto con “elle [i.e.la force et la lumière du Christ] deviennent prière et eau (du baptême)”.
B8 e C8 riguardano invece il numero 12: i mesi, i segni zodiacali, i venti, gli apostoli e gli altri “misteri” (cioè significati spirituali”). La figura presenta due linee angolari, come due lati lunghi di un triangolo isoscele, che si diramano dalla parte finale di ognuno dei quattro assi della croce, producendo quattro iscrizioni riassuntive (due esametri più due pentametri) dei quattro argomenti principali. Rabano spiega però che gli assi diagonali e quelli centrali sono riferiti ai venti e alle le stagioni delimitate dagli equinozi e dai solstizi. Interessante il riferimento, nella prosa dichiarativa, al “giorno medio” che gli editori riferiscono al De imaginibus di Teodulfo, anche se il De imaginibus è un capitolare, per quanto si possa ipoteticamente ascrivere a Teodulfo, che comunque è più probabilmente l’autore dei Libri Carolini o Opus Caroli. Nel De imaginibus 13 tuttavia non si trova traccia del motivo citato (le 12 ore del giorno medio). Nella composizione poetica risalta lo sforzo di Rabano di conferire un significato spirituale agli elementi astronomici.
Altri riferimenti al 12 qui menzionati sono le 12 tribù di Israele, le 12 porte di Gerusalemme, che simboleggia la Chiesa e le 12 pietre sulla stola del sacerdote ebreo.
Nella trascrizione da correggere al v. 8 iniquus, non initquus e al 31 calle, non talle.
B9 e C9 trattano invece dei giorni dell’anno e la figura è un fiore composto di 4 petali esagonali, che producono 4 iscrizioni poetiche composte, nei due esagoni verticali, da due versi saffici, cioè “pentametro endecasillabo composto di un trocheo, uno spondeo, un trocheo, un giambo e un baccheo” e un dicolon dattilico (così scrive confusamente Rabano) o spondaico, con i “versi precedenti che hanno 92 lettere, perché attirano a sé la lettera C del centro e i seguenti 92”. I calcoli sono basati sul numero 365 (91, numero degli angeli, x 4+1). Il bottone al centro dei petali è la lettera C. Uno dei versi è di Alcuino (Carm. 7, 26). La spiegazione numerologica è basata su Agostino, De trinitate 4, 4, 8 attraverso Beda, De temporum ratione 39.
Nella trascrizione da correggere al v. 32 cernant e non cemans.
Particolarmente frequenti le clausole monosillabiche amate da Rabano (et sol, en sol, et, huc, spesso in elisione).
B10 e C 10 si occupano del numero 70 attraverso una figura di cinque cerchi, uno centrale e quattro laterali, le cui lettere (70, cioè 14x5) formano due esametri di lode della croce. 70 sono gli anni di prigionia del profeta Geremia e quelli dopo i quali annuncia la fine della cattività, cioè, in allegoria spiegata da Beda, della nostra ultima morte (secondo l’espressione di Paolo, I Cor. 6, 4). Rabano si lancia poi in una delucidazione del calcolo secondo il computo dei dodici mesi lunari, contando 490 anni lunari fino al battesimo di Cristo (15° anno di Tiberio), cioè 475 solari. Anche Mosè aveva scelto 70 anziani, per mostrare che solo chi comprende la Legge spiritualmente è capace di insegnare agli altri.
Nel testo latino vanno corretti i versi 2 (vincla, non vincula), 8 (Eden, non Een), 10 (inferni, non infemi), 12 (supremum, non supemum).
B11 e C11 spiegano invece come la Croce rinnovi in 5 libri di Mosè, cui corrispondono nella figura 5 quadrati (uno al centro, gli altri ai 4 lati) e le cinque iscrizione alquanto sconnessa di Rabano) di 36 lettere generate dai loro bordi. Il testo poetico ricapitola gli avvenimenti principali dei libri biblici in questione, ponendo in evidenza alcuni episodi più carichi di significati tipologici (il sacrificio di Isacco, il Mar Rosso, la vittoria sugli Amaleciti) e la declaratio insiste sull’importanza di “figura” in senso materiale e di “figura” in senso esegetico (sulla base di I Cor. 10, 11) invocando il rapporto ombra-corpo di Hebr. 10, 1 e giustifica poi la collocazione dei libri ponendo la Genesi in cima alla croce, in basso il Deuteronomio (ultimo della Legge), l’Esodo a destra sulla base di Salmi 118, 16 e 136, 10-13, i Numeri a sinistra perché raccontano gli scontri con le sinistre truppe di Coré, Dathan e Abiud e infine il Levitico in mezzo alla croce come libro di sacrifici.
Nella trascrizione al v. 1 doctorem, non doctprem; al v. 7 rerum, non itrum; al v. 21 va riportata da v. 22 l’ultima parola Eoum, al v. 29 inesse, non finesse.
B12 e C12 commentano il nome di Adamo in una figura con disegni delle lettere A Δ A M che formano un’unica iscrizione in 41 lettere con molte elisioni: Sancta metro atque arte en decet ut sint carmina Christo hinc. La spiegazione si basa sul significato figurale di Adamo come tipo di Cristo, secondo Adamo, che ne riscatta il peccato. ADAM diventa così acrostico di anatolé, dysis, arcton, mesembria, cioè di tutti i punti cardinali nel loro nome greco, le cui lettere alfabetiche corrispondono ai numeri 1, 4, 1 e 40, che sommati danno 46, gli anni della costruzione del tempio secondo Giovanni 2, 20.
Il testo poetico va corretto ai vv. 3 piacla, non piacula (ametrico); 4 decoris, non decorit.
Da notare l’invocazione alla Musa perché aiuti il poeta nella continuazione del lavoro.
La spiegazione in prosa si basa nuovamente su san Paolo (Rom. 5, 14 e I Cor. 15, 45) e ingloba ampie citazioni poetiche, come il Carmen Paschale di Sedulio, 5, 190-195 riletto attraverso le interpretazioni di Aldelmo e Beda. Nel testo in prosa da correggere al quartultimo rigo diaconu in diaconus.
B13 e C13 spiegano i giorni della concezione di Cristo grazie a quattro croci contenenti ognuna tre versi in verticale e tre in orizzontale, di contenuto piuttosto generico e celebrativo, mentre il testo è una sorta di inno all’albero della croce e la declaratio si focalizza invece sul numero di giorni nei quali il corpo del Signore è stato formato nel senso della Vergine, partendo dall’equivalenza (attribuita ad Agostino) di 6 = un anno e dunque dei 46 anni di costruzione del tempio come equivalente di 266, che è il numero di mesi di una gravidanza. Cristo infatti era stato concepito l’ottavo giorno delle calende di aprile (stesso giorno della Passione) e dunque il giorno della concezione sarebbe l’8 di gennaio. Applica poi il calcolo ai rami della croce, ognuno dei quali vale 69, che moltiplicato quattro dà appunto 266. Nella figura la barra verticale e quella orizzontale di ogni croce contengono 39 lettere e le lettere del centro di ogni croce sono comuni a tutti e due i sensi e sono 9. Il testo poetico va corretto al v. finale (tanto, non canto) e interpretato al v. 2 Qua summa vere sacro u fluit ordine bertas, qui tradotto “en vérité, la suprème fécondité découle de toi suivant l’ordre sacré” con tmesi u-bertas.
B14 e C 14 calcolano invece il numero degli anni dall’inizio del mondo fino alla Passione (5231), basandosi sulle Institutiones di Lattanzio e rappresentano una croce formata da lettere greche. Sarebbero 2242 da Adamo al diluvio, 942 dal diluvio ad Abramo, 2044 da Abramo a Cristo. Le lettere Z (7, speranza dei fedeli), T (300, la carità in quanto 50 di Pentecoste x 6 la perfezione, in due assi, amore divino verso l’alto e amore reciproco in orizzontale) e X (1000, la beatitudine eterna come cubo di 10) sono in sé cruciformi e tornano quattro volte nei rami della croce, al cui centro si trova la Γ (3, Trinità e Fede che si diramano dal centro come i discepoli si sparsero a predicare nel mondo). Nel testo latino va corretto il verso 1 (psallere, non jisallere), e osservata la presenza di lemmi o grafie rari come altatio, hexa, sussum.
B15 e C15 illustrano il rapporto della croce con i quattro evangelisti (di cui sono rappresentati i quattro animali simbolici) disposti in forma di croce intorno all’agnello nimbato, secondo le visioni di Ezechiele 1 e di Apocalisse 4, con 7 iscrizioni in tutto. Le interpretazioni legate agli evangelisti non corrispondono perfettamente fra versi e prosa: nei primi ad esempio Marco rivela i sette doni dello Spirito, nella seconda Marco è tradizionalmente è un leone che fa sentire il suo ruggito nel deserto secondo Marco 1, 3. I quattro vangeli corrispondono anche ai quattro fiumi dell’Eden.
Nel testo latino da correggere al v. 2 fari, non fah; al v. 6 fato, non fat; al v. 11 dant, non da nt; al v. 25 erat, non crat; al v. 28 Mattheus, non Matt.heus.
B16 e C16 si interessano dei sette doni dello Spirito santo elencati da Isaia 11, 1-2 in una figura composta da lettere insolitamente “fluttuanti”, che Rabano definisce “fiori” perché colorati coi quattro colori sacri (Esodo 25, 26, 36 e 39) giacinto, porpora, lino e scarlatto, intorno ai due assi della croce a formare un’iscrizione che è il semplice elenco dei doni. Il testo poetico è diviso in due parti e mostra una sinafia fra i versi 3 e 4 quem / Ex. Raro anche scammate al v. 8. Nella prosa si spiegano anche i 7 gradi della perfezione come spiegazione, su basi patristiche, dell’ordine di enumerazione dei 7 doni nel testo biblico. La doppia lista della figura è motivata dal riferimento ai due tipi di amore e ai due Testamenti, i quattro colori simboleggiano il giacinto la via celeste, la porpora la Passione, il lino la castità, lo scarlatto la carità. L’ultima parentesi (sacram gall) va completata.
B17 e C17 commentano le 8 beatitudini con 8 cerchi disposti due a due ai quattro lati dell’asse di croce, e formano appunto 8 esametri di 37 lettere che le descrivono.
Nel testo poetico da correggere al v. 2 saecli, non saeculi; al v. 5 respostum, non repositum; al v. 7 piis beat olim, non plis beat ohm; al 19 flentes, non Fientes.
Di interesse linguistico espressioni astratte e sintetiche imposte dal metro come prospera functio saecli (della croce), tradotta con “tu apporte le bonheur du monde”, o adnectit amantibus beata, o dolatio, atque refectio, pastio large et in arce (“tout cela forme et réablit [mon âme] et la rassasiera à profusion dans les cieux”). Molto bella Ergo beatorum est habitare in luce volentum et / Octono hoc numero ut super ardua dona requirant e il virtuosistico Crux, via, scala, rota, patria, dux, porta, triumphus.
B18 e C18 affrontano il mistero del numero 40, racchiuso in 4 triangoli che formano un unico esametro di 40 lettere secondo una complessa disposizione ben decrittata dall’edizione.
Il testo poetico va corretto ai vv. 5 pura, non purs; 7 cunctus, non synctus; 8 ordo est, non ordo este; 26 fauce, non faute; 35 ovat, non oyat. Di nuovo notevole il v. 2 sulla semiologia della croce Lingua, figura, manus, labium, vox, syllaba, sensus. La prosa spiega l’importanza del 40 come moltiplicazione del decalogo veterotestamentario per i 4 Vangeli del Nuovo Testamento, e significa anche i 40 giorni di lotta contro il diavolo, di digiuno di Mosè ed Elia, le ore che separano morte e resurrezione di Cristo (se si fa entrare nel computo la nona ora come in Agostino, De Trin. 4, 6) e i 40 giorni di permanenza sulla terra del Cristo risorto. 40 indica anche la vita temporale sulla terra perché il mondo è diviso in 4 zone e le stagioni son 4. 40 sono anche i nomi della genealogia di Cristo in Matteo e a 40 anni Isacco si è unito a Rebecca. Anche nel Tempio il Sancta sanctorum misurava 20 cubiti di larghezza e 20 di lunghezza.
B19 e C 19 si occupano invece del numero 50, raffigurato da cinque X e relative lettere (10 per ognuno, anche se una al centro è comune a più parole), che compongono un esametro.
Nel latino da segnalare solo al v. 31 amica, non arnica.
50 è il numero giubilare di giorni dopo la Pasqua e prima della manifestazione dei Comandamenti, il sabato dei sabati dopo 7 settimane, ed è uno dei numeri “imparimente pari” (secondo la definizione di Isidoro Etymologiae 3, 5, 5 impariter par) perché prodotto dal 40 diviso in parti uguali ma non riducibile all’1, e diviso 2 fa 20, diviso 4 10, diviso 40 1, numeri che sommati danno 50, simbolo della vita eterna come il 40 della vita terrena.
Il testo poetico va corretto al v. 31 amica, non arnica.
L’espressione physica ut arte del v. 20 non è tradotta eppure è di grande interesse come riferimento all’arte medica del crocifisso che guarisce, crux medicabilis. Interessante l’incipit crux mihi carmen erit, aures adhibete fideles, che impone di immaginare una fruizione orale o anche orale di un testo così raffinato e complesso. Altrettanto rilevante è a nostro avviso l’espressione hic decor exultat, che trasmette una sorta di esultanza della bellezza in linea con gli aspetti più moderni delle teorie dell’arte dei Libri Carolini. Acrobatica è la capacità di esprimere in versi i calcoli numerici: Quinque cruces praebet ramis denasque monades / X numerat, semperque cruci apta et amica figura.
Con B20 e C20 si passa al numero 120, rappresentato dalla lettera greca lambda Λ (= 30) da moltiplicare per i 4 poli della pagina nei quali è riprodotta (30x4=120) con disegno seghettato che compone 4 iscrizioni di 30 lettere ciascuna. 120 furono gli anni di penitenza dopo il Diluvio, 120 i cubiti di altezza del Tempio di Salomone, 120 gli uomini su cui scese lo Spirito santo a Pentecoste, mentre i significati del 4 (il numero di lambda della pagina) è ben noto. Importante nella parte finale della declaratio l’idea che “chaque peuple a été prédestiné à la vie éternelle, une fois que le ministère des anges aura chassé tous les scandales de l’Église”. Erroneamente la lambda è indicata come i nella traduzione.
Nel testo poetico da correggere al v. 7 orbe, non iyebe. Al v. 18 sagena è ametrico, forse sagna? Sulla stessa linea del precedente la bellissima espressione sociale decus (la bellezza della comunità), qui tradotta in ipallage la communauté splendide.
B21 e C21 trattano del numero 72, nella figura rappresentato da quattro petali eptagonali pieni di lettere che formano, due a due, due iscrizioni di un esametro, il secondo dei quali va letto di traverso (Gentes et linguae [Apoc. 17, 15] sociantur laude sacrata). 72 sono le lingue del mondo, dei discepoli, ed è il risultato di 24 (ore del giorno) x 3 (Trinità), significando che come il mondo è percorso e illuminato in 24 ore (il che presuppone la concezione della terra come sferica), così i discepoli lo illuminano con la loro predicazione. Anche 6 x 6 e 8 x 9 hanno significati spirituali.
Nel testo poetico da correggere i versi 3 portum capit, non portum’capit; 7 hac, non hee; 21 arte e non aile.
B22 e C 22 espongono invece il monogramma di Cristo, composto come d’uso da una P (rho) intersecata da una X e da una barra trasversale. Il testo poetico inizia in maniera molto affettuosa ed elegante: Christus, amor, votum mihi, qui pia munera dat haec, / Carminis hic pretium, hic via, portio fida quetis e continua come lode generale a Cristo. Vanno corretti i versi 11 (deteriora, non deterioq), 16 (meritis, non rneritis), 31 babtisma – così nel codice – e non baptisma, 31 his e non lis). La declaratio spiega il chresmon anche sul piano numerologico: P è 1260, cioè 3 anni e mezzo, il tempo della predicazione di Cristo e dell’abbattimento della città sacra e della fuga della donna dal drago in Apoc. 11, 2. È un numero che “contiene simbolicamente tutti i tempi della cristianità”. La lettera X “contiene questo numero” di cui la profezia di Daniele predice la corrispondenza con i tempi dell’Anticristo. Secondo Girolamo dopo la morte dell’Anticristo ci sarà un silenzio di 45 giorni prima dell’arrivo del Regno, il che metterà alla prova a pazienza dei fedeli. Questo risulta dal calcolo espresso in lettere greche; O COTHP JHSYS AΛHƟIA, 15 lettere di cui la prima (O) significa 70, C 200, H 8, P 100, J 10, H 8, C 200, Y 400, C 200, A 1, Λ (qui per errore scritto A) 30, H di nuovo 8, Ɵ (qui scritta H) 9, I (qui scritta J) 10, A 1. Sommate (secondo l’esposizione di Rabano, qui poco chiara), danno 1255, cui manca 5 per la perfezione. Lo stesso se si divide la figura della P in una parte superiore (Γ, qui erroneamente stampata A, dunque 4 e una parte inferiore con I. Lo stesso metodo applicato a X dà 1327, cui va aggiunto 8 per 1135.
B23 e C23 spiegano il numero 24. Con una figura formata da una croce ai vertici dei cui bracci si disegnano 4 piccolo triangoli che nel complesso compongono 4 iscrizioni, due di 12 lettere, due in esametro. Il testo poetico, partendo dal bell’incipit Nobilis ecce micat flos regis nomine pictus, dichiara che il numero 24 esprime la bellezza perfetta di tutte le cose create e redente. L’idea di bellezza torna prepotentemente ai vv. 27-28: Omnia nempe Deum verum haec testantur ubique / Perfectum perfecta quidem, formonsa decorum. Si ottiene moltiplicando 4 x 6 e rappresenta le ore del giorno naturale, i libri dell’Antico Testamento compresi Ruth e le Lamentazioni, il numero dell’estrazione a sorte della tribù di Levi da parte di David (II Par. 23, 26), il numero degli Anziani dell’Apocalisse (4, 10), cioè delle chiese dei patriarchi e degli apostoli generata dai due Testamenti. Le iscrizioni esprimono 4 nomi del trionfatore celeste, aperti alle estremità come i petali di un giglio aperto (III Re 7, 26 + II Paral. 4, 5 + Isaia 7, 26).
Il testo latino va corretto ai vv. 5 (inesse, non finesse), 7 (manca la parola finale finxit), 18 piis, non plis, 19 ludere, non indere.
B24 e C 24 si dedicano al numero 144, raffigurato con quattro pentagoni di 36 lettere in forma di bottiglia (i cui 4 tappi danno la parola CRUX), che disposti ai 4 lati compongono una croce e producono 4 esametri di esaltazione del canto per la croce. Il 5 del pentagono significa la Legge (Agostino, In Ioh. 25, 6), completata dal 4 dei Vangeli e dei bracci della Croce. Il testo poetico inizia invitando la comunità monastica o ecclesiastica a cantare un cantico nuovo (At nunc vos cantate novum, benedicite Christo, / plebs, cantum, dilecta Deo, sanctissimus ordo¸/ Psallite non aliis vosmet imitabile carmen). Va corretto ai versi 7 agno, non ag; 7 honores, non homes; 12 voces, non votes; 28 capit, non tapit; 34 Praemia laeta va a capo come inizio del 35.
La declaratio spiega che il numero, riferito in Apocalisse 7, 4 agli eletti delle tribù d’Israele ma indicazione di infinito, rinvia alla massa di tutta la Chiesa. È cubo di 12, significando la stabilità.
B25 e C25 presentano il significato di alleluia e amen, di cui vengono richiamate le citazioni bibliche, disegnati in forma di croce da gruppi di lettere che, nel loro insieme, compongono un esametro senza specificità di contenuto (Crux aeterna Dei es laus, vivis [qui erroneamente trascritto vi vis] in arce polorum). “Amen ha 4 lettere come i rami della croce formati dalle 8 lettere di Alleluia”. Il riferimento ad Apoc.19 e il relativo commento aprono uno spazio alla riflessione sul destino dei corpi, che dopo la morte attendono la fine del mondo. Si ricorda poi l’etimologia di Alleluia (“lodate il Signore”) e Amen (“fede o verità”), in ebraico per rispetto della sua santità, e il loro uso liturgico (Alleluia tutte e domeniche e nella Quinquagesima).
Nel testo poetico da correggere al v. 1 superna, non supema; al v. 7 munera, non mura. In generale qui come in tutti i testi le i antevocaliche sono scritte j, contro l’uso romano.
B26 e C 26 propongono il tema delle parole dei profeti su Passione e Redenzione, con una figura che si limita qui a verbalizzare gli assi della croce in un esametro di 37 lettere (che, letto alla rovescia, diventa un pentametro come prescritto da Optaziano) dove la si celebra come timone del mondo. Nel testo poetico da correggere il v. 7 pedesque, non pedesqte. Le decine di testimonianze dei profeti, relativa a molti aspetti della vicenda umana di Cristo, sembrano tratte da Rufino, Commentarium in symbolum apostolorum.
B27 e C27 ripetono lo stesso schema esplorando non i testi profetici ma le lettere degli apostoli. Qui i due assi della croce producono due versi, che vanno letti uno da destra a sinistra e dall’alto in basso, l’altro in orizzontale da sinistra a destra e in verticale, con doppio virtuosismo (lettura alla rovescia e palindromia). I versi sono degni di menzione perché metapoetici: Si do te tibi metra sono his te, Iesum in odis e Si do nisu ei et si honos artem ibit et odis. Da correggere solo il v. 5 vatum, non vatm. Curioso l’epiteto cuncta rapina rivolto alla Passione (“Toi qui emportes tout”).
I testi finali B28 e C28 contengono la famosa miniatura dell’autore in ginocchio sotto la croce e costituiscono una sorta di congedo in forma di inno che si conclude con la commovente preghiera di protezione per il “tuo poeta” : rogo … poetam agni proprium defendat ab ira / cui cano; iure canam Hrabanus versibus ore, / corde, manu, semper donum memorable cantu (…). La figurina del monaco supplice racchiude secondo l’autore un “distico asclepiadeo”, cioè esametro ed emistichio.
Da correggere il v. 3 hominum, non horiintim; il 5 care, non tare; 12 dirigo, non diriéo.
Acrobatico per le elisioni e sinalefi il verso centrale che è anche quello figurato: Spem oro te, ramus, aram ara sumar et oro hinc, dove Ramus può essere anche sincope di Ra(ba)nus. La declaratio presenta l’offerta delle preghiere a Cristo e la consapevolezza delle proprie colpe, che tuttavia non gli ha impedito di tener fede alle promesse. La conclusione conferma che 28 è il solo perfetto nelle sue parti e dunque degno di un canto che comprende tutte le cose.
Delle 28 prose del secondo libro, come anticipato, si pubblicano solo (pp. 184-199) le traduzioni francesi e il prologo, che si richiama agli opera gemina degli antichi (Prospero e Sedulio) e spiega che non si è preoccupato di utilizzare le stesse parole in prosa e in versi ma di rispettare il senso, secondo i consigli di Orazio in ars poetica che si riferiscono alla traduzione, di cui la versione in prosa è una delle tipologie (qui Rabano si rivela molto moderno nel pensiero traduttologico). Suo scopo è stato non il superfluo ma l’utile, e in particolare ciò che era utile al prossimo. Dunque queste forme testuali non aggiungono molto a quanto letto e commentato e rappresentano una sorta di lettura alternativa, con pochi riferimenti in più e molti in meno.
Chiude il volume la citata trascrizione e traduzione (con poche note), ad opera di François Ploton-Nicollet, del Sermone anonimo su Cantico 6, 9 che si rivela di grande interesse per il contenuto e soprattutto per lo schema espositivo e argomentativo, che presuppone un metodo già quasi tipico della Scolastica.
In generale non ci siamo soffermati su questa come sulle altre traduzioni del volume perché in ogni traduzione si può concordare e dissentire su centinaia di punti, ma certamente in questo caso va apprezzata l’ottima riuscita media che rende disponibile in una lingua moderna un testo difficilissimo indovinando sempre la tonalità e risolvendo con eleganza e talora con genialità molti punti critici; non possiamo che esserne grati a Poloton-Nicollet, come della splendida riproduzione fotografica di un codice così raro e prezioso. Unico rammarico i molti errori di trascrizione, che sembrano dipendere da un uso non revisionato dell’OCR.
 
(Francesco Stella)
Versione aggiornata della recensione pubblicata in "Studi Medievali" 2022

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Hodoeporica. Presentazione di "Semicerchio" 63 su Youtube

7 maggio 2021
Jorie Graham a dialogo con la sua traduttrice italiana

23 aprile 2021
La poesia di Franco Buffoni in spagnolo

22 marzo 2021
Scuola aperta di Semicerchio aprile-giugno 2021

19 giugno 2020
Poesia russa: incontro finale del Virtual Lab di Semicerchio

1 giugno 2020
Call for papers: Semicerchio 63 "Gli ospiti del caso"

30 aprile 2020
Laboratori digitali della Scuola Semicerchio

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