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« indietro Dire l’irrappresentabile.
L’utopia della lingua in Ingeborg Bachmann
Giuseppe D’Acunto
Se avessimo la parola, se
possedessimo il linguaggio,
non avremmo bisogno di armi.
I. Bachmann, Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte (1959/60), a cura di R. Colorni, tr. it. di V. Perretta, Milano, Adelphi, 1993, p. 16.
1. La bella e la cattiva lingua
In uno dei suoi saggi radiofonici, quello dedicato a Wittgenstein, la Bachmann, nel segno di quest’ultimo, prospetta una netta delimitazione fra i campi del «dicibile» e dell’«indicibile». Toccando il concetto di «forma logica» che, per il filosofo austriaco, è quel che hanno in comune la proposizione e la realtà, ossia ciò grazie a cui il linguaggio può raffigurare correttamente il mondo, così come esso è, ella afferma che tale «forma logica» funge da vero e proprio «limite», nel senso che «rende possibile la rappresentazione, ma non può venire a sua volta rappresentata».
In essa appare qualcosa che indica oltre la realtà. E indica oltre la realtà nella misura in cui nella forma logica si mostra qualcosa che per noi è impensabile. E poiché è impensabile non è possibile parlarne[1].
Ebbene, l’intera produzione letteraria della Bachmann può essere vista come un tentativo di infrangere proprio questa interdizione, per cui – parafrasando la famosa proposizione finale del Tractatus logico-philosophicus – si può affermare che, per lei, «tutto ciò che non può essere pensato (nel senso che è irrappresentabile), deve poter essere detto».
Wort, sei bei uns / von zärtlicher Geduld / und Ungeduld. […] / Wort, sei von uns, / freisinnig, deutlich, schön (Parola, sii con noi, / pazientemente tenera / e impaziente. […] / Parola, sii tra noi, / libera, chiara e bella)[2].
La Bachmann rileva, inoltre, una certa affinità fra il «mistico», in Wittgenstein, ossia l’ineffabile, proprio «ciò di cui non si può parlare», ma «si deve tacere», e il venir meno della parola di fronte all’essere, in Heidegger. Con la differenza che, mentre, per quest’ultimo, nel pensiero, l’essere perviene al linguaggio, per Wittgenstein, invece, non è così.
Secondo la tesi di Wittgenstein non è possibile parlare del «senso» dell’essere, perché non vi è senso in un mondo che è sì rappresentabile e descrivibile, ma non spiegabile. Per poter spiegare il mondo, dovremmo poterci collocare fuori del mondo[3].
[L]ebendig das Wort, das die Welt gewinnt, / ausspielt und verliert (è viva la parola che guadagna il mondo, / lo mette in gioco e perde)[4].
Riprendendo e continuando nel segno dell’osservazione critica di poco prima, relativa alla poetica della Bachmann, la parola da lei ricercata, nel suo abitare la soglia «mistica» del silenzio, nel suo procurare a quest’ultimo un «positivo compimento»[5], vuole darsi come una «significazione dell’indicibile»[6], ossia riuscire sì a spiegare il mondo, ma senza mai uscire da esso, permanendo «sotto il sole».
Nichts Schönres unter der Sonne als unter der Sonne zu sein… (Nulla di più bello sotto il sole che stare sotto il sole…)[7].
Infatti, per attingere l’espressione di quella sfera della realtà che, per Wittgenstein, resta inaccessibile alla spiegazione filosofica, ci viene incontro «l’arte con le sue molteplici possibilità»[8]. Nel senso che tutto ciò in cui prende forma un «sentimento della vita […] può esprimersi attraverso le vie della creazione artistica»[9]. E una riprova di tutto ciò sta nel fatto che, nel rapporto fra letteratura e lingua, la seconda si rinnova non quando lo scrittore se lo prefigge come obiettivo programmatico, ma quando è animato da una «spinta morale», dall’istanza di «una nuova possibile etica»: una «spinta morale» che funge da «forza d’urto per un pensiero […] che tende alla conoscenza e che vuole raggiunge re qualcosa con e attraverso il linguaggio».
La realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé. […] Una nuova lingua deve avere un modo nuovo di incedere, il che può accadere soltanto se un nuovo spirito la abita[10].
E dove il silenzio si configura come un esercizio attivo di significazione del non-detto è, esemplarmente, proprio in letteratura.
Il nostro desiderio fa sì che ciò che ha già preso forma grazie al linguaggio partecipi anche di ciò che ancora non è stato detto[11].
In tal senso, un suo tratto caratteristico è di essere abitata da «un sogno linguistico», da un «sogno di espressione che non sarà mai pienamente realizzato»: essa non è che uno di quei «frammenti in cui si avvera la speranza nella lingua intera, nell’espressione intera che dice i mutamenti dell’uomo e i mutamenti del mondo»[12].
[C]iò che conta son le belle parole, il poetico in sé.
[D]obbiamo lavorare duramente con la cattiva lingua che abbiamo ereditato per arrivare a quella lingua che non ha ancora mai governato, e che pure governa la nostra intuizione e che noi imitiamo. […] La possediamo, come frammento, […] e in essa sentiamo – con un respiro di sollievo – di essere f inalmente arrivati alla lingua[13].
Wo erscheinen / uns ganz begreiflich Blatt und Baum und Stein? / Zugegen sind sie der schönen Sprache, im reinen Sein… (Dove ci appaiono / comprensibili foglio albero e pietra? / Sono presenti nella bella lingua, / nel puro essere…)[14].
2. In lotta con le parole
In una lettera indirizzata a Celan, la Bachmann scrive che lui non può nemmeno immaginare quanto le riesca difficile «trovare una parola»[15].
Mein Wort, errette mich! (Mia parola, salvami!).
Hätt ich das Wort, / (verfehlt ich’s nicht) [Se avessi la parola, / (non la fallirei)][16].
A riprova di ciò, ella afferma che il suo non è che un «parlare nel vuoto»[17], laddove la parola del poeta amico potrebbe definirsi, piuttosto, come un respiro «mormorato verso ciò che è lontano»[18]. E, riferendosi ad una lettura pubblica di alcune liriche di Celan, a cui aveva partecipato, aggiunge che, al termine di essa, fra i presenti era «calato un gran silenzio» e tutti si erano disposti «ad ascoltare»[19].
Per la Bachmann, l’incapacità della parola di cogliere nel segno appartiene, in modo particolare, ai nomi propri.
Non esiste nulla di più misterioso dello splendore dei nomi e del nostro attaccamento a tali nomi. […] [A] me pare che la fedeltà [ad essi] […] sia quasi l’unica fedeltà di cui gli esseri umani sono capaci[20].
In qualche modo, siamo tutti ancora immersi nella coscienza primitiva che assegna un valore magico al nome.
Siamo da sempre così abituati a riconoscere le figure dai loro nomi, e con l’ausilio dei nomi a seguire le orme degli eventi, da credere che possedendo un nome possediamo anche la figura che lo porta[21].
Credenza che alimenta in noi l’equivoco che il nome abbia un profilo «iconico», ossia che, attraverso di esso, ci sia possibile identificare «la figura che lo porta». Ma così non è, perché, «ogni qualvolta tentiamo di afferrare un nome, veniamo piantati in asso». In un certo senso, siamo come dei cani segugi che, mettendosi sulle tracce di un nome, prima o poi le perdono, «perché un nuovo odore colpisce le loro narici».
I nomi sono […] simili a trappole[22].
Incrociamo, qui, un motivo molto caro alla Bachmann: quello relativo alla perdita, nella nostra epoca, della fiducia nel darsi di un rapporto fra io, linguaggio e cose. Perdita il cui primo documento sarebbe la Lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal, da cui, nelle Lezioni di Francoforte, vengono citati due lunghi passi[23].
Adieu, ihr schönen Worte, mit eurem Verheißungen. / Warum habt ihr mich verlassen? War euch nicht wohl? (Adieu, belle parole, con le vostre promesse. / Perché mi avete abbandonata? Eravate a disagio?).
Zwischen ein Wort und ein Ding / […] keins je ans andre sich drängt (Tra una parola e una cosa / […] nessuna si stringe all’altra)[24].
Ne discende che, per spingere le parole «ad arrivare alla loro verità»[25], bisogna sfidarle, ingaggiare una strenua lotta con esse, «fa[cendo] dell’esperienza, delle sue lacune, dei suoi abissi un esperimento linguistico»[26].
Ihr Worte, auf, mir nach!, / und sind wir auch schon weiter, / zu weit gegangen, geh’t noch einmal / weiter, zu keinem Ende geht’s (A voi parole, orsù, seguitemi! / Anche se già ci siamo spinti avanti, / fin troppo avanti, ancora si va / più avanti, si va senza fine)[27].
Abbiamo usato il termine ‘esperienza’. Ebbene, quando la Bachmann parla di quest’ultima, non va dimenticato che la intende come «una creatura in carne e ossa, che vede, sente, pensa, […] è travolta dagli avvenimenti e dalle emozioni»[28]. L’esperienza dispone, così, di un cuore ed è proprio ad esso che deve puntare la parola, la quale, in tal modo, riceve impressa su di sé una certa direzione: si trova proiettata «in una traiettoria per la vita e per la morte, il cui accesso è vietato a ogni cosa o parola casuale»[29].
E, a conferma del fatto che l’esperienza ha il profilo di una creatura, l’elemento di mediazione fra essa e la verità è dato dalla cognizione del dolore, come, appunto, si evince dalle seguenti parole:
il compito dello scrittore non è quello di negare il dolore, di cancellarne le tracce, di farsi illusioni su di esso. Al contrario, egli deve farsene carico (wahrhaben) e renderlo reale (wahrmachen) nuovamente, così che noi possiamo vederlo. […] E solo questo dolore segreto ci rende sensibili all’esperienza e all’esperienza della verità, in particolare. Quando giungiamo a questo stato di chiarezza, […] in cui il dolore si fa fecondo, diciamo, in modo molto semplice e giusto: mi si sono aperti gli occhi. […] E l’arte dovrebbe servire proprio a questo: a farci aprire gli occhi, nel senso appena chiarito[30].
Ich habe das Wort, ich nahm’s / aus der Hand der Trauer (Tocca a me la parola, l’ho presa / dalle mani del lutto)[31].
In virtù di questo riferimento al dolore, la pratica della scrittura, da «confronto esclusivo e diretto con i limiti e con le possibilità della lingua e delle forme», si converte in «appello, colloquio (spesso disperato) con ciò che […] viene incontro»[32], con ciò che, non appartenendo all’ordine della realtà che ci è data, permette, proprio per questo, di accedere ai fatti che costituiscono il mondo.
Immerzu in den Worten sein, ob man will oder nicht, / Immer am Leben sein, voller Worte ums Leben, / als wären die Worte am Leben, als wäre das Leben am Wort (Essere sempre nelle parole, che lo si voglia o no, / Essere sempre in vita, piena di parole sulla vita, / come se le parole fossero in vita, come se la vita fosse nella parola)[33].
E il motivo per cui la parola è vista sempre come la risposta ad un appello è confermato, nella Bachmann, anche dal fatto che essa, dandosi unicamente nello spazio del «segreto» che intercorre fra due persone, presuppone lo stringersi di un patto di confidenza e di fiducia fra loro, per cui sta sempre «in un rapporto di dipendenza con una parola data»[34].
Tornando al tema dell’esperienza, nell’epoca attuale, che Benjamin vedeva contrassegnata dalla sua dissoluzione, la scrittura, per la Bachmann, nasce proprio da un bisogno profondo di essa, in quanto «unica maestra»: da esperienze nuove che devono essere «fatte, non respirate con l’aria», da un sapere che deve continuamente alimentarsi al serbatoio esperienziale, altrimenti «finisce […] per logorarsi e girare a vuoto»[35]. Esattamente come il linguaggio, il quale, in quanto «forma di vita», se, da un lato, funziona in modo efficiente e sensato soltanto quando «vive e respira nell’uso»[36], dall’altro, decade a chiacchiera e a sequenza di «frasi prefabbricate»[37] quando di esso se ne abusa.
Das Wort / wird doch nur / andre Worte nach sich ziehn. / Satz den Satz. / So möchte Welt, / endgültig / sich aufdrängen, / schon gesagt sein (La parola / non farà / che tirarsi dietro altre parole, / la frase altre frasi. / Così il mondo intende / definitivamente / imporsi, / esser già detto)[38].
Ne discende che, di fronte al parlare che rispecchia un’interpretazione del mondo già data e strutturata, da coltivare è, piuttosto, quella parola che promuove non il progresso lineare, ma il «mutamento» istantaneo e repentino, che ci educa «a nuove percezioni, a nuovi sentimenti, a una nuova consapevolezza»[39].
3. Herzzeit: tempo secondo il cuore
Herzzeit suona il titolo che, nell’edizione originale tedesca, ha il carteggio della Bachmann con Celan, nonché è quella parola con cui inizia una lirica del poeta (Köln, Am Hof: Colonia, Am Hof) apprezzata particolarmente dalla scrittrice austriaca[40].
Si è già detto che, per quest’ultima, il compito della parola è quello di puntare al cuore dell’esperienza. Esperienza che, in quanto creatura, porta impressa su di sé l’impronta esistenzialistica del tempo individuale. E – ricordiamo – Il tempo dilazionato (Die gestundete Zeit) è proprio il titolo della prima raccolta di liriche della Bachmann. L’ultima strofa di una delle poesie che vi è compresa (Fall ab, Herz: Staccati, cuore) suona così:
Und was bezeugt schon dein Herz? / Zwischen gestern und morgen schwingt es, / laut und fremd, / und was es schlägt, / ist schon sein Fall aus der Zeit (E che testimonia allora il tuo cuore? / Si muove a pendolo tra ieri e domani, / estraneo e senza rumore, / e con i colpi batte / già il suo precipitare al di fuori del tempo)[41].
Qui, si parla di una testimonianza del cuore, del fatto che esso è intessuto di una temporalità dal carattere «estatico», la quale, eccedendo la misura del tempo meramente cronologico, lo configura, esistenzialisticamente, come un «accadimento», un’«occasione» (dove, nell’etimo latino di entrambi i termini, è presente, come si sa, il riferimento al precipitare, al cadere)[42].
In un’altra poesia della raccolta in questione, dopo che il cuore è stato definito come una «ciotola (Schüssel)», si legge che, là dove il cielo si tinge di nero,
sucht die Wolke nach Worten und füllt den Krater mit Schweigen, / eh sie der Sommer in schütteren Regen vernimmt (la nuvola è in cerca di parole e colma il cratere di silenzio, / prima di avvertire nella pioggia rada l’estate).
In questi versi, alla parola è assegnata una dimensione cosmica, celeste, mentre il silenzio è visto come la bocca di un vulcano che, nell’imminenza dell’arrivo di un temporale, si riempie di quei vapori elettrici che emanano dalle nuvole cariche di pioggia. La poesia termina con un riferimento all’«indicibile»:
Das Unsägliche geht, leise gesagt, übers Land: / schon ist Mittag (L’indicibile, pronunciato sottovoce, trascorre nel paese: / già è mezzogiorno)[43].
Qui, l’«indicibile» è visto come un mormorio che, propagandosi in modo flebile e sommesso, rivela il suo casto segreto a cielo aperto, «sotto il sole», nell’«amabile azzurro».
Proseguendo nella lettura di versi scelti da Il tempo dilazionato, troviamo un altro riferimento al silenzio, configurato sempre come una cavità naturale. Eccolo:
In die Mulde meiner Stummheit / leg ein Wort / und zieht Wälder groß zu beiden Seiten, / daß mein Mund / ganz im Schatten liegt (Dentro la conca del mio mutismo / metti una parola / e leva alte pareti d’alberi fitti / ai due lati: / che la mia bocca / resti tutta in ombra)[44].
Salmo, il titolo di questa poesia, conferisce ad essa l’andamento solenne di una composizione destinata al canto e alla lode, così che la parola è vista come un’escrescenza arborea che fiorisce in bocca: essa, soggiornando nella regione del silenzio, trova qui riposo, prima che la voce dia luogo alla sua modulazione timbrica.
Siamo, così, al tema del silenzio come ciò che cir confonde ed entro cui prende vita l’avvenimento della parola: avvenimento che si produce e si consuma nella soglia muta della voce umana.
Ein Wort? Wir habens’s gut im Mund verwahrt (Una parola? La serbiamo in bocca)[45].
E proprio per questo la parola ricercata è detta «chiara», oltre che «libera» e «bella», come recitano, appunto, i versi di una poesia citata in precedenza. Nel senso che, secondo il significato originale del termine latino, «claritas è, innanzitutto, un attributo della voce»[46].
Rede ab deinen Vorrat an Worten / wein ab, red ab (Dilla fino a esaurirla la tua provvista di parole / piangila fino in fondo, dilla fino a esaurirla) [47].
Note
[1] I. Bachmann, Il dicibile e l’indicibile. La filosofia di Ludwig Wittgenstein (1954), in Id., Il dicibile e l’indicibile. Saggi radiofonici (1952-1958), tr. it. di B. Agnese, Milano, Adelphi, 1998, pp. 45-79: pp. 53-4. [2] I. Bachmann, Invocazione all’Orsa Maggiore (1956), a cura di L. Reitani, Milano, A. Mondadori, 1999, pp. 80-3 [Rede und Nachrede: Discorso e diceria]. Sui limiti del linguaggio, nella Bachmann, cfr. B. Casper, Die Grenze der Sprache. Überlegungen zum Werke Ingeborg Bachmanns, in «Archivio di filosofia» 1-3 (1983), pp. 237-52. [3] Il dicibile e l’indicibile, cit., p. 61. Come si sa, la Bachmann dedica la sua tesi di laurea in filosofia alle critiche rivolte al pensiero heideggeriano, dal versante non solo neopositivistico, ma anche fenomenologico e storicistico. Cfr. i. Bachmann, La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger (1950), tr. it. di S. Cresti, Napoli, Guida, 1992. Sul fatto che «la lettura incrociata che Ingeborg Bachmann fa di Wittgenstein e di Heidegger si risolve in un manifesto di poetica», cfr. L. Reitani, «Il canto sulla polvere», postfazione a Invocazione all’Orsa Maggiore, cit., pp. 193-239: p. 221. Sulle matrici heideggeriane dell’opera della Bachmann, cfr. F. Cambi, Matrici heideggeriane nella letteratura di Ingeborg Bachmann, Pisa, Nistri Lischi, 1990, il quale afferma che la valenza conoscitiva dell’opera della Bachmann passa attraverso una ripresa degli «esistenziali» di Heidegger (angoscia, cura, comprensione, essere-nel-mondo), «immersi nella problematica e drammatica apertura dell’uomo, progetto calato nella storia» (p. 13). Lo stesso Autore ha studiato anche la recezione di Wittgenstein presso la scrittrice austriaca. Cfr. F. Cambi, La recezione della filosofia del linguaggio di L. Wittgenstein nell’opera di Ingeborg Bachmann, Pisa, Giardini, 1979. [4] Invocazione all’Orsa Maggiore, cit., pp. 60-1 [Die blaue Stun de: L’ora azzurra]. [5] Il dicibile e l’indicibile, cit., p. 77. [6] E. Mazzarella, «Introduzione» a La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger, cit., pp. 5-12: p. 9. [7] Invocazione all’Orsa Maggiore, cit., pp. 128-9 [An die Sonne: Al sole]. Circa il fatto che la Bachmann conferirebbe al suo sforzo di scrittura «la funzione, rimasta incompiuta, di indagare l’abitabilità del mondo», cfr. C. Miglio, La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann, Macerata, Quodlibet, 2013, p. 33. [8] La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger, cit., p. 117. In tal senso, si può dire che, nella Bachmann, «la poesia si sostituisce in extremis alla filosofia nel punto in cui questa fallisce di fronte al compito di un’esposizione dell’indicibile. […] L’esposizione del limite della filosofia è, insieme, l’annuncio di un compito poetico». Cfr. G. Agamben, Il silenzio delle parole, introduzione a i. Bachmann, In cerca di frasi vere. Colloqui e interviste, a cura di C. Koschel e I. von Weidenbaum, tr. it. di C. Romani, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. V-XV: p. VII. [9] Il dicibile e l’indicibile, cit., pp. 57-8. [10] Letteratura come utopia, cit., pp. 23-4. Per Ch. Wolf, Pretesa di verità. La prosa di Ingeborg Bachmann, in Id., Pini e sabbia del Brandeburgo. Saggi e colloqui, a cura di M.T. Mandalari, e/o, Roma 1990, pp. 49-59, al centro della scrittura della Bachmann starebbe proprio «la questione della possibilità della vita morale umana. Questa impostazione costituisce uno dei moventi principali della [sua] prosa» (p. 54). [11] Letteratura come utopia, cit., p. 109. Sulla pronuncia del non-dicibile, nella Bachmann, come ciò che richiede «un’inversione dal detto al non-detto», cfr. F. Masini, Il geroglifico d’anima di I. Bachmann, in Id., Il travaglio del disumano. Per una fenomenologia del nichilismo, Napoli, Bibliopolis, 1982, pp. 179-82, p. 181. [12] Letteratura come utopia, cit., p. 120. [13] Ivi, pp. 26 e 123. [14] Invocazione all’Orsa Maggiore, cit., IX, pp. 26-7 [Von einem Land, einem Fluß und den Seen: Di una terra, un fiume e dei laghi]. [15] i. Bachmann - P. Celan, Troviamo le parole. Lettere 1948-1973, a cura di B. Badiou, H. Höller, A. Stoll e B. Wiedemann, ed. it. a cura di F. Maione, Roma, Nottetempo, 2010, p. 21 [Lettera del 25 agosto 1949]. Questo motivo ritorna anche in un’altra lettera, dove si legge che lei prega per loro due, affinché riescano finalmente a «trovare le parole». Cfr. p. 159 [Lettera del 18 novembre 1959]. [16] Invocazione all’Orsa Maggiore, cit., pp. 82-3 e 48-9 [Rede und Nachrede: Discorso e diceria; Curriculum vitae]. [17] Troviamo le parole, cit., p. 52 [Lettera del 21 febbraio 1952]. [18] Ivi, p. 34 [Lettera del 17 luglio 1951]. [19] Ivi, p. 54 [Lettera del 19 febbraio 1952]. [20] Letteratura come utopia, cit., pp. 83 e 86. La citazione è tratta dalla IV Lezione delle cinque comprese in questo vol.: quella dedicata, appunto, all’onomastica letteraria («Il rapporto con i nomi», pp. 83-101). [21] Ivi, p. 93. [22] Ivi, p. 98. [23] Cfr. ivi, pp. 20-2. [24] i. Bachmann, Non conosco mondo migliore, tr. it. di S. Bortoli, Parma, Guanda, 2004, pp. 14-5 e pp. 174-5 [Meine Gedichte sind mir abhanden gekommen: Sono scomparse le mie poesie; Immerzu in den Worten sein: Essere sempre nelle parole]. [25] In cerca di frasi vere, cit., p. 44 [Intervista del 1961 (?)]. [26] L. Boella, Ingeborg Bachmann, in Id., Le imperdonabili. Milena Jesenká, Etty Hillesum, Marina Cvetaeva, Ingeborg Bachmann, Cristina Campo, Mimesis, Milano-Udine 20132, pp. 127-55: p. 138. Secondo A.G. Gargani, Il pensiero raccontato. Saggio su Ingeborg Bachmann, Roma-Bari, Laterza, 1995, la lotta in questione consisterebbe nel fatto che la parola, mentre, da un lato, «manifesta il suo dire», dall’altro, invece, esorta a ritirarsi, «a non dire il mondo» (p. 17), a far tacere il linguaggio logoro e consunto. «È nel silenzio con il quale la parola poetica fa tacere il linguaggio ordinario che il mondo […] viene restituito alla sua innocenza originaria» (p. 22). [27] i. Bachmann, Poesie, a cura di M. Teresa Mandalari, Milano, TEA, 1996, pp. 154-5 [Ihr Worte: A voi, parole]. [28] L. Boella, Ingeborg Bachmann, cit., p. 138. [29] Letteratura come utopia, cit., p. 25. Al riguardo, A. Rußegger, Il non detto. Tentativo di una lettura costruttivista della poesia di Ingeborg Bachmann, in La lirica di Ingeborg Bachmann, a cura di L. Reitani, Bologna, Cosmopoli, 1996, pp. 43-55, afferma che, sulle orme di Musil, la Bachmann intende l’utopia «non come meta, ma come ‘direzione’, ossia come linea di tendenza che si oppone alle norme vigenti» (p. 45). [30] Die Wahrheit ist dem Menschen zumutbar (1959), in i. Bachmann, Werke, a cura di C. Koschel, I. von Weidenbaum e C. Münster, vol. IV: Essays. Reden. Vermischte Schriften, München-Zürich, Piper, 19935, pp. 275-7: p. 275. [31] Poesie, cit., pp. 66-7 [Ein Monolog des Fürsten Myškin zu der Ballettpantomime «Der Idiot»: Un monologo del principe Myškin per il balletto-pantomima «L’Idiota»]. [32] L. Boella, Ingeborg Bachmann, cit., p. 133. [33] I. Bachmann, Non conosco mondo migliore, cit., pp. 174-5 [Immerzu in den Worten sein: Essere sempre nelle parole]. [34] C.-C. Härle, «Io senza me», postfazione a i. Bachmann, Libro del deserto, a cura di C.-C. Härle, tr. it. di A. Pensa, Napoli, Cronopio, 1999, pp. 89-110: p. 99. [35] Letteratura come utopia, cit., pp. 15 e 22. [36] Il dicibile e l’indicibile, cit., p. 75. È un motivo, questo, che la Bachmann riprende dal Wittgenstein delle Ricerche filosofiche. [37] In cerca di frasi vere, cit., p. 142 [Intervista del 1971]. [38] Poesie, cit., pp. 154-5 [Ihr Worte: A voi, parole]. [39] Letteratura come utopia, cit., p. 27. [40] Questa lirica, appartenente alla raccolta Grata di parole (Sprachgitter), è riprodotta e tradotta in P. Celan, Poesie, a cura di G. Bevilacqua, 2 voll., Milano, A. Mondadori, 1998; vol. I, pp. 296-7. Essa, secondo il riconoscimento stesso del poeta, dovrebbe la sua composizione proprio alla Bachmann. Cfr. Troviamo le parole, cit., p. 80 [Lettera del 1 novembre 1957]. [41] I. Bachmann, Werke, cit., vol. I: Gedichte. Hörspiele. Libretti. Übersetzungen, p. 31; tr. it. in R. Svandrlik, Ingeborg Bachmann: i sentieri della scrittura. Poesie, prose, radiodrammi, Roma, Carocci, 2001, p. 50. [42] Gargani, Il pensiero raccontato, cit., parla del «tempo dilazionato» della Bachmann non come un «neutro e lineare scorrere in differente di istanti», ma come «tempo urgente», tale che «esige prese di posizioni, decisioni». «L’urgenza del tempo è tutt’uno con l’impegno etico della scrittura della Bachmann» (p. 13). [43] Poesie, cit., pp. 44-5 [Früher Mittag: Mezzogiorno precoce]. [44] Ivi, pp. 54-5 [Psalm: Salmo]. [45] Invocazione all’Orsa Maggiore, cit., V, pp. 18-9 [Von einem Land, einem Fluß und den Seen: Di una terra, un fiume e dei laghi]. [46] G. Agamben, Il silenzio delle parole, cit., p. XV. [47] Non conosco mondo migliore, cit., pp. 180-1 [Verdacht: Sospetto]. ¬ top of page |
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