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La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio, a cura di Giancarlo Alfano, Roma, Giulio Perrone 2011, pp. 118, € 12,00.
 
Il confronto creativo con Lucrezio, generatore di contemporaneità letteraria assai più attivo di Ovidio e forse anche di Virgilio, è uno degli esercizi che ha accomunato negli ultimi anni poetiche molto diverse e poeti molto remoti fra loro: basti pensare a Edoardo Sanguineti, che a Lucrezio dedica una parte consistente del Quaderno di traduzioni del 2006 e ovviamente dei testi che vi confluiscono da pubblicazioni precedenti - raro caso di subordinazione devota e prudente del Sanguineti riscrittore dinanzi a un’autorità che neppure il grande dissacratore ha la forza di sfidare o abbassare – e Milo De Angelis, che in Sotto la scure silenziosa del 2002 isola trentasei frammenti restituendoli in un’assorta luce celaniana, mentre nell’antologia Poeti latini tradotti da scrittori italiani contemporanei (1993) Vincenzo Guarracino ne aveva affidato alcuni brani a Rosita Copioli, Giorgio Orelli, allo stesso Sanguineti e a Jolanda Insana, con risultati diversi ma sempre all’interno della categoria ‘traduzioni’. E certo lucreziana può essere definita anche l’ispirazione profonda, anche se filologicamente più empedoclea, di Patrizia Vicinelli. Qui Giancarlo Alfano, guidato da raffinate suggestioni aganbeniane, sollecita dieci poeti nati fra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso a produrre riscritture creative dal classico latino che attira, sembra di capire dall’introduzione del curatore, soprattutto come cantore del mondo senza provvidenza, della storia priva di un disegno, di un universo - diciamo pure - senza manifestazioni apparenti di un Dio. Lucrezio è amato anche come poeta della libertà individuale dal determinismo fisico, garantita dall’imprevedibilità del clinamen, la deviazione spontanea degli atomi in movimento, e soprattutto come poeta del pensiero, espressione somma della capacità di cimentarsi con un contenuto filosofico senza rinunciare al linguaggio poetico, in una sorta di costruzione a ritroso dei predecessori di Leopardi, pur assai meno filosofo di Lucrezio ma ormai cristallizato in questo asfittico cliché quanto Lucrezio in quello, ancora più gravemente riduttivo, del poeta materialista. Il progetto – meritoriamente nato da interesse culturale autentico, senza legami con occasioni esterne o collaborazioni di studio – non segue strutturazioni coattive: ogni poeta è stato libero di attingere ai passi che preferiva, senza collegamenti interni e poematicità posticce e senza schemi guida o pattern condivisi. Eppure – forse anche per questo – è riuscito, direi, a produrre un impulso autenticamente creativo e a raccogliere esiti di buon livello in molti degli autori coinvolti. La sezione iniziale a dire il vero sembra quasi produrre una vera e propria unità concettuale, sia pure preterintenzionale, intorno alla fisica lucreziana, partendo con uno strepitoso Andrea Inglese vertiginosamente attratto dal concetto del vuoto del I libro, distribuito in 8 brani di una pagina ciascuno (uno dei quali purtroppo disturbato da un problema di impaginazione) riscritti in poemetti inventariali secondo il suo stile collaudato; nell’introduzione – che curiosamente presenta i poeti in ordine diverso da quello di pubblicazione – Alfano lo spinge un po’ sul pedale veteromarxista definendo la sua idea di universo lucreziano come «paradigma per ragionare sullo statuto della merce nel sistema del capitalismo» a proposito dei versi in cui si parla di «bunker della merce» e si scrive, più banalmente, che «non basta stipare la stiva / di spesa, qualcosa, nell’angolo, / rimane da colmare», mentre l’ultimo testo, una sorta di commosso inno all’autocoscienza del vuoto, chiude inaspettatamente con uno scioglimento elegiaco, quasi cantabile: «e gli anni / in cui noi eravamo, tu ed io, veri, / come il nostro amore, al massacro, / ora te lo chiedo, guardando le foto, / l’epistolario, i doni ben conservati, / dove siamo?». L’unità dedicata alla fisica prosegue con Letizia Leone, l’unica che non dichiara i versi precisi della sua ispirazione, ma è visibilmente impegnata in un «ritratto dei semi» (i semina rerum presenti nel de rerum matura da 1, 59 in poi) finemente artificiato («potresti arguirne angoli o gonie / le gole gonfie di note non umane», «agli atomi agri / agli aghi», «vocazione al vuoto», forse con rischio di artificialità nell’andamento un po’ ingessato dei versi. Laura Pugno, scrive Alfano, «sembra combattere corpo a corpo con l’autore latino» di cui sceglie il brano forse più difficile in sé e più distante dalle problematiche intellettuali a noi familiari, i settanta versi sul fuoco (I, 645-715), qui prosciugati in tre colonne di versicoli astratti e potenti che si concludono così: «quando qualcosa esce mutato / dalla sostanza propria dal confine / quando qualcosa non rimane intatto / è nulla // è molte cose / è nulla // e non cambia vicino o lontano / non trova pace non brucia», mentre Giulio Marzaioli decide, unico, per una sorta di versione in prosa della descrizione del vuoto e del clinamen di II 201-380, che assume la forma di un ben tornito monologo libero e ininterrotto, definito da Alfano «un muro di parole»; qui, eliminando le tracce di cordialità dialogica dell’originale (il tu del verso 216) Marzaioli riesce a dare il senso della vertigine che descrive, raggiungendo una tonalità invasata che serba più di tutti gli altri esercizi una traccia vibrante dell’impeto dell’originale: «e d’altronde, se ciascun moto è provocato dal precedente, se qualche germe primordiale deviando non genera il primo moto e se inclinando la traiettoria non si infrange la legge del fato, non può spiegarsi da dove tragga la propria origine il libero arbitrio». Vincenzo Frungillo da tre versi (con refuso) identificati dall’introduzione come 289-93 del secondo libro (anche questo sulla libertà della mente conseguenza del clinamen), ma in realtà inglobanti passaggi da altri libri (come quello sull’amore dal libro V) crea una suite di meditazioni su La fine di Lucrezio quasi in dialogo con Memmio (l’allievo di Lucrezio, destinatario esplicito del poema, a Pompei immaginata come città natale del poeta) unificate dal tema incipitario: «Finire non è uscire dalla vita / ma restare per sempre nella sua scena madre, / è un difetto della vista» e capaci di sfiorare il tema del sublime, concetto che fino a qualche anno fa gli esponenti di questa poetica avrebbero evitato come contaminazione neoorfica, qui sdoganata grazie alla nota introduzione scritta da Gian Biagio Conte all’edizione Dionigi Canali del Lucrezio Rizzoli, intitolata appunto Insegnamenti per un lettore sublime e aperta dalla definizione schilleriana del sublime come oggetto in cui la natura razionale avverte la propria superiorità rispetto ai limiti della natura sensibile. Frungillo sembra laicizzarla un po’ nel verso «Il sublime è la precisione», finale di un testo che comunque esalta (‘orficamente’?) la parola del poeta come quella che dà luce alle cose, poi la rinobilita schillerianamente come «iridescenza del clinamen», quindi fonte della libertà della mente, e dato che per Conte sublime deve essere il lettore, chiude con due appelli a Memmio, uno dei quali in rime abilmente trascurate, l’altro in disposizione centrata e simmetrica dei versi, prima brevissimi, poi brevi poi lunghi poi nuovamente brevi e brevissimi.
Andrea Raos si esercita in due stili contrapposti: uno frammentario e prosciugato, che si ispira al fraintendimento di III 257 («grazie a questo tratteniamo la vita», cioè grazie al fatto che il corpo si oppone alla dispersione degli atomi), l’altro che traduce in bei versi italiani una scelta dal celebre III 784-805 sulla materialità dell’anima, che Alfano espone introduttoriamente (à la Sanguineti) come manifesto ideologico dell’interpretazione lucreziana di questa riscrittura. Esercizio è anche quello di Sara Davidovics, che fondandosi sull’autocoscienza lucreziana dell’atomizzazione della lingua (ufficialmente su IV 26-175 e 269-323) scompone il testo originario in sillabe e le riproduce in sequenze apparentemente casuali (Sillabario), mentre Giovanna Marmo si adegua spontaneamente a quello che sembra il pattern comune, anche se preterintenzionale, di molte fra queste riscritture: il recupero del versicolo che qui, ispirandosi a passi del libro IV creativamente scomposti e rimescolati, assume un effetto sapienziale forse un po’ facile ma efficace nell’intento di liricizzare selettivamente l’epica lucreziana.
Di Elisa Biagini abbiamo solo un’avara riscrittura di IV 460-61 (l’unica a riportare la traduzione della fonte, il passo su come si parli nei sogni, mentre in realtà si tace) che travisa e trasfigura radicalmente l’originale in un lapidario e folgorante frammento sul sentimento di ineffabilità: «corde allentate / e la freccia non / parte, la voce / resta in sé, / la punta di / parola». L’introduzione di Alfano chiude, e chiudiamo anche noi, con Vito Bonito che tuttavia non è collocato a conclusione dell’antologia ma tra Raos e Davidovics, e che propone l’operazione forse più consapevole e costruita dell’antologia: una metariscrittura circolare, intitolata Non altro respiro, che partendo dall’originale latino torna gradualmente a un nuovo originale sempre più intensamente intriso di latino, sia lucreziano sia di altra provenienza, anch’esso invariabilmente versicolare ma personalizzato dal predominio musicale di un’accentazione sdrucciola, geniale nell’accettare all’interno del corpo stesso della riscrittura la sua resa all’impossibilità della medesima.
L’operazione di Alfano e dei suoi dieci poeti coglie il segno di una potente (ma, temiamo, occasionale) trasfusione di Essere in un panorama poetico che si vorrebbe dominato dal Reale nella sua accezione più banale ed esteriore: segno e testimonianza quasi dell’imbarazzo nel confronto con un problema e un’anima così sovra-dimensionata è la riduzione costante della dimensione del verso, che consente l’uscita laterale verso una lapidarietà biblica o blakiana come tacito riconoscimento di inattingibilità del respiro epico, sia pure di un’epica dell’Essere, ormai preclusa a una generazione che della rovina e del truciolo ha dovuto fare il proprio necessario idolo, proprio quando la Fisica ha aperto orizzonti inimmaginabili, forse impossibili da convertire in una scrittura poetica.
 
(Francesco Stella)

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