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PRESENZE

OVVERO IOSIF BRODSKIJ A FIRENZE

di Stefania Pavan

 

Scopo di questo saggio, ammesso che mai un saggio possa veramente avere uno scopo che non muta, non si deforma, non devia dal cammino originario man mano che si sviluppa, è il mettere in luce i documenti che evidenziano i rapporti realizzatisi, i fatti concreti avvenuti, tra Iosif Brodskij e Firenze. Ma la semplice documentazione della presenza o, per meglio dire, delle innumerevoli presenze di un poeta in uno spazio storico-culturale non è sufficiente; essa trascina inevitabilmente con sé il tentativo di capire cosa possa essere considerato ‘memorabile’, cioè degno di memoria, nella lettura e nella costruzione di un «luogo comune di identità» tra il poeta e la città.

La memoria ha un peso specifico nell’esistenza dell’uomo e del poeta, tanto più di un uomo e di un poeta che è anche un izgnannik [un esule]. La memoria, scrive Brodskij nel 1985 nel saggio In a Room and a Half [Una stanza e mezzo], ha il dono della scelta, il gusto del particolare; caratteristiche che la apparentano all’arte ma, soprattutto, all’arte della prosa perché la poesia riesce, invece, sempre e comunque a ricostruire con il dono della parola poetica una storia il cui senso è completo.

Sempre e comunque, poesia e prosa, ogni parola detta esige una continuazione: logica, fonetica, grammaticale. Quello che è già stato detto rappresenta il margine, il limen da cui prendere nuovamente le distanze, per pronunciare una parola in ogni caso più significante di quella già pronunciata «e non più a causa del tempo, ma piuttosto nonostante il tempo».(1) Leggiamo, per capire, le poesie raccolte nella prima edizione di Čast’ reči [Parte del discorso] del 1977,(2) per non citarne che alcune.

In tal senso, limen per Iosif Brodskij significa un confine necessariamente da oltrepassare; esso è formato dalle parole che i poeti hanno già detto; esso è dato dai poeti stessi che già sono vissuti, unici veri interlocutori del dialogo poetico. Il confine brodskiano astrae da un significato geopolitico, per collocarsi in uno spazio storico-poetico, se non addirittura mitopoietico. Una simile interpretazione di limen, del connubio tra Urania e Clio, può forse aiutarci a meglio comprendere la sostanziale universalità della poesia di Iosif Brodskij.

Non a caso, a proposito di Auden e della sua movimentata biografia, Brodskij avanza l’ipotesi che una delle cause del trasferimento negli Stati Uniti sia stato il fascino che esercitava su di lui l’idioma americano; il fatto che egli sentiva che gli americanismi potevano vivificare il tessuto del verso inglese; che la metrica utilizzata è la spia della nazionalità del poeta; e:

 

 

Le parole, il loro suono, sono per il poeta più importanti delle idee e delle convinzioni. Quando si tratta di versi, prima di tutto, c’è la parola.(3)

 

 

Il poeta si muove nello spazio alla ricerca di una parola nuova, dettata da un ambiente nuovo; ma, al contempo, anche nel tempo, alla ricerca della parola nuova che gli può venire dall’interloquire con chi e con che cosa lo hanno preceduto. Il metro precede il poeta, esiste prima di lui e continuerà ad esistere dopo. Anche se qualcuno lo ha già usato prima, questo metro risuona nella testa del poeta, egli lo sente adatto ad esprimere quello che sente in quel momento, adatto a quella poesia, a quelle strofe, lo utilizza e, così facendo, lo rinnova e lo rende proprio, inequivocabilmente proprio. Ricordiamo le considerazioni di Brodskij sulla strofe di Poèma bez geroja [«Poema senza eroe»] di Anna Achmatova, il suo negare una dipendenza sostanziale da Kuzmin perché, anche se effettivamente Kuzmin aveva già usato la stessa strofe, quella del Poèma è indubitabilmente e solo achmatoviana. Non si tratta di stabilire gerarchie; semplicemente, ogni metro può essere adatto a sentimenti diversi, a idee e convinzioni diverse, a immagini diverse; quello che conta è chi lo usa, il suo essere o meno un vero poeta, e non un epigone.

Iosif Brodskij ha scritto che Firenze dà senso alla soglia ultima di tutti:

 

Potomu čto smert’ - èto vsegda vtoraja

Florencija s architekturoj Raja.

[perché la morte è sempre una seconda Firenze

con l’architettura del Paradiso.]

 

Il poeta lega l’architettura di Firenze, condensato ed espressione visibile e tangibile dell’ideale di perfezione, compiutezza, armonia ed equilibrio rinascimentali (la geometria), a quella che dovrebbe essere l’architettura del Paradiso. Soprattutto, però, lega Firenze e la sua perfezione apparente, nel senso che appare, ad una soglia, ad un limen, questa volta invalicabile: la morte. Solo il poeta, identificato nell’urpoeta, in Orfeo, è in grado di compiere un movimento bustrofedico e ritornare dal regno dei morti, così come bustrofedico può essere il verso.(4)

Più di una volta, nei saggi, nei dialoghi, nelle interviste, Brodskij ha sottolineato che la madre della bellezza è il dubbio, perché la bellezza non appartiene all’uomo, come si sente chiaramente quando la si incontra. Per cui, tu senti il dubbio, il dubbio ti prende, e significa che ti senti e sei vicino alla bellezza. L’assenza di certezze dogmatiche crea l’atmosfera favorevole alla creazione della bellezza. La bellezza viene quindi dall’esterno, non dall’interno dell’uomo. Firenze, la realizzazione della bellezza rinascimentale, dovrebbe essere il topos più adatto per ingenerare altra bellezza, ma essa ha un difetto, probabilmente insormontabile per il poeta: al suo apice ha eliminato il dubbio.

L’opposizione a Venezia, la città proiettata verso l’eternità

 

ètot pejzaž

sposoben obojtis’ bez menja.

[questo paesaggio

in grado di fare a meno di me.]

 

ci aiuta a capire meglio il significato e il ruolo di Firenze.

Brodskij avverte Firenze come umana, terrena; città dell’uomo, che celebra la grandezza dell’uomo, una grandezza enorme, per quanto fisica e concreta. Non si può sfuggire all’architettura, pur anche paradisiaca, di Firenze. Mentre Venezia è il tempo; è lo spazio metafisico che trascende l’uomo stesso; che forse non è dato comprendere sino in fondo neanche al poeta; non è il Paradiso, in quanto topos che va oltre il Paradiso stesso, Paradiso Perduto. Venezia è la realizzazione più prossima della categoria estetica. Firenze non è Terra Promessa; come non lo sono New York e neppure Roma; forse, l’unica che ha qualche possibilità di esserlo, è Venezia. In tal senso è, forse, accettabile che lì Iosif Brodskij sia stato sepolto: topos ultimo, topos della non esistenza, alla confluenza tra Storia e Mito.

Ha scritto Ernesto Livorni, nel saggio dedicato all’emigrazione, all’esilio e all’esodo:

 

Il tragitto che porta dall’emigrazione all’esilio costringe a un discorso che coinvolge i due poli della Storia e del Mito, dell’etica e dell’estetica. Brodskij è perfettamente consapevole di ciò quando afferma che «questa gente rende assai difficile ogni discorso a cuor sereno sulla sorte dello scrittore in esilio», aggiungendo più tardi che «l’estetica è la madre dell’etica».(5)

 

E ancor più chiaramente Brodskij stesso in A condition we call exile [«Una condizione che chiamiamo esilio»]:

 

L’origine, fosse essa soltanto la nascita, accompagna e perseguita tutti; con essa, implicita in essa, viaggia anche la coscienza della fine, fosse essa soltanto la morte. Ma tra un’origine che si perde nella notte dei tempi e una fine di là da venire permane proprio il viaggio, ed il senso del suo andare. Per chi è nato in un luogo ed emigrato in un altro, quel viaggio è più che tangibile, vivo ogni momento dentro di lui.(6)

 

L’esilio di Iosif Brodskij, perché certo non di un’emigrazione si è trattato, è stato un exemplum, un paradigma di esperienza e umana e poetica, descritto dalla lingua della poesia con tracce incancellabili. Brodskij è stato definito «un esiliato molto tempo prima dell’emigrazione », con talmente tanta forza e tanto successo ha ribadito il proprio diritto di poeta di restare da una parte, non in disparte, ma a latere della «pazza folla».(7) Firenze è stata una tappa, un punto, un segmento di questo viaggio incessante; non certo il topos universale e universalizzante. Firenze ammirata, osservata, capita, ma non modello di esistenza.

L’esilio, inteso come paradigma dell’esistenza, come viaggio incessante, come forza centrifuga che allontana da un’origine la cui presenza resta comunque costante, comporta l’estraneità, lo sguardo altro, la capacità di estraniarsi da se stesso e dalle proprie personali vicende, quell’ostranenie [straniamento] che Iosif Brodskij ha più volte sottolineato essere elemento ineludibile della poesia in particolare e dell’arte in generale. San Pietroburgo, città che è di per sé un paradigma di culture, nella quale gli opposti si sono fusi per dare luogo a una sempre nuova metamorfosi, è l’origine che al contempo allontana e richiama a sé. Come egli stesso ha detto nella sua famosa lettera a Brežnev, allora Segretario del PCUS, quando venne esiliato nel 1972:

 

Non smetto di essere un poeta russo e credo che ritornerò. I poeti ritornano sempre, di persona o con i loro versi.(8)

 

E, nel 1978 nel saggio Posle putešestvija, ili pozvjaščaetsja Pozvonočniku [Dopo il viaggio, ovvero dedicato ad una colonna vertebrale]:

 

Comunque siano iniziati i viaggi, essi terminano tutti allo stesso modo: nel proprio angolo, nel proprio letto, sul quale, dopo esserti lasciato cadere, ti dimentichi quello che è appena accaduto. È poco probabile che torni di nuovo in quel paese e in quell’emisfero ma, almeno, il mio letto, al ritorno, è ancora più «mio», e questo è già sufficiente per un uomo, che acquista i mobili anziché riceverli in eredità, per trovare un senso nei più inutili spostamenti.(9)

 

Constatazioni che rimangono vere, anche se, in seguito, Brodskij si è sempre definito un poeta russo, un saggista inglese e un cittadino americano, mescolando il criterio linguistico a quello geografico.

L’estraneità, in tal senso, non è stata chiusura all’altro, all’altrui, a quanto è appunto čužoe, ma al contrario il fondamento del dialogo, della struttura principe del pensiero. Questo dialogo si realizza con le parole, benché esse possano essere anche soltanto nella mente dell’uomo comune, ma non avviene soltanto tra uomo e uomo. Il dialogo è con tutto il luogo in cui ti trovi, con tutto quello che questo luogo significa e rappresenta; solo così è possibile comprendere perché Iosif Brodskij privilegiasse i luoghi dove c’è l’acqua: forma condensata del tempo.(10)

Abbiamo appena citato il saggio di Livori e non a caso, poiché emigrazione ed esilio non sono certamente sinonimi, e l’intercambiabilità dei termini è impossibile. Brodskij non è mai stato un cosiddetto émigré, un emigrato; il suo è stato il viaggio dell’esiliato, un esilio che ha comunque avuto connotati poetici, filosofici, metafisici, non certo banalmente politici. Il suo incessante movimento ha avuto lo scopo di riconoscere metamorfosi sempre nuove; di trovare una parola poetica rinnovata e rinnovantesi; di sforzarsi di capire i perché ultimi, forse per concludere che questi perché non ci sono.

Emigrazione viene dal latino tardo emigratio e ha in sé un elemento propulsore di volontà, pur anche determinato da necessità economiche.

Esilio viene pure dal latino ex(s)ilium e indica l’allontanamento forzato dalla patria, la pena comminata dal potere, politico o religioso, a colui che gli è estraneo od ostile. Questo allontanamento può essere volontario, ma l’elemento di estraneità al potere vigente rimane costante. In un caso e nell’altro, evidenzia una situazione penosa, forzata, innaturale e faticosa per l’esiliato. In un caso e nell’altro, l’esilio ha in sé il senso della soglia da oltrepassare; soglia fisica e, soprattutto, di sentimenti, di abitudini, di certezze, di tradizioni, di cultura, in altre parole, di lingua.

Cassiodoro: «ex solo enim ire est, quasi exsolium».

Dante in Purgatorio II, 46-48, nel descrivere le anime traghettate dalla foce del Tevere all’isola del Purgatorio: «In exitu Israel de Aegypto / cantavan tutti insieme ad una voce / con quanto di quel salmo è poscia scripto».

Il salmo di cui parla Dante è il CXIII che allude all’uscita dall’Egitto del popolo di Israele. Siamo all’esodo, al viaggio forzato, ma inteso come il cammino verso la Terra Promessa, per ritrovare il luogo perfetto.

Essenziale il fatto che Aristotele chiami esodo, inserendolo fra le parti sceniche della tragedia, la parte finale che segue lo stasimo. Dove stasimo indica il canto sul posto; il canto tenuto dal coro nell’orchestra, fra un episodio e l’altro, nell’antica tragedia greca; canto costituito da uno o più gruppi triadici di strofe, antistrofe ed epòdo, con accompagnamento di danza e di musica. Si tratta, quindi, di un canto corale, che Brodskij non poteva non avere presente quando ha parlato del suo e dell’altrui esilio.

E chissà che Iosif Brodskij non pensasse proprio al suo esilio, forzato per lui come per tanti altri artisti, primo fra tutti, emblematico, quello dell’amatissimo Dante, come ad un movimento che aveva quasi assunto i contorni di un esodo; dove però la Terra Promessa non era al termine di un segmento lineare, ma al ritorno al punto di origine, sottolineatura fornita dalla riflessione brodskiana sulla scrittura bustrofedica. Nel saggio Ninety Years Later [Novant’anni dopo], già del 1994, Brodskij ha scritto:

 

Non dimenticate che il momento in cui Orfeo si volta è il momento decisivo del mito. Non dimenticate che verso significa «svolta». Non dimenticate, soprattutto, che «Non voltarti» era il comando divino. Riferito a Orfeo, significa: «Nel sottomondo non comportarti come un poeta». O anche: come un verso. Orfeo si volta, però, giacché non può farne a meno, giacché il verso è la sua seconda natura – o forse la prima. Perciò si volta, e, bustrophedón o no, la sua mente e la sua vista tornano indietro, violando il divieto.(11)

Il poeta si identifica con il verso, con il girarsi indietro per vedere, con il tornare sui propri passi; solo il poeta può violare il tabù divino, ed essere un «abitante del cielo» ovvero un «eresiarca».(12)

Ma cos’è la Terra Promessa? Livorni scrive:

 

La Terra Promessa è diventata la metafora privilegiata per definire l’utopia, cioè quella visione che, nella sua proiezione verso il futuro, valorizza nella sua stessa etimologia l’assenza di luogo. La particolarità etimologica aiuta a captare ogni possibile connubio epistemologico tra esilio e utopia. Lo stesso Thomas More, che coniò il termine, lo accompagna in maniera pressoché indissolubile a quello di eutopia, marcando il passaggio dall’assenza di luogo alla bontà del luogo.

 

Iosif Brodskij ha avuto presente utopia o meglio eutopia, e questa eutopia era la poesia, per la quale in Italia il topos privilegiato è stato per lui Venezia e non Firenze. Paradossalmente, lo strappo più doloroso, quello dallo spazio che ci ha visti nascere e formarci, diviene l’unico vero e possibile inizio di un viaggio dai chiari contorni soteriologici.

Il mondo della Storia assorbe e dà un valore ideologico al mondo della Geografia, nel bene e nel male. Il poeta esiliato non va verso la Terra Promessa, come verso un luogo paradisiaco; bensì viene scagliato verso uno spazio altrui, né totalmente utopico né totalmente eutopico; al contempo, viene dotato dall’esilio di una più ampia visione prospettica e storica e geografica.

L’esilio come distacco, allontanamento, che permette di riconoscere la propria origine, la propria nascita, il proprio inizio e come chiarificazione del punto estremo, della soglia, verso il quale l’uomo è proiettato, il non punto, la morte. L’esilio, in tal senso, è condizione privilegiata che pone di fronte alla verità, alla realtà del Mito, ad una «condizione metafisica». Sempre Livorni:

 

L’esilio pone allora il migrante sul piano del Mito, lo pone davanti all’universale mistero della Morte, di fronte al quale egli non può divertere con problematiche della contingenza, di fronte al quale non gli è più possibile divertere se stesso. [...] La Terra Promessa è ancora di là da venire, perché il viaggio continua, ed ancora il migrante trascina con peso il suo corpo, recupera i segni, disperde le tracce della Storia e già si proietta nel Mito: entrambe le dimensioni si abbracciano e si confondono in quella che è «la condizione che chiamiamo esilio».

 

Passando, ora, all’esame della documentazione sulle presenze di Iosif Brodskij a Firenze, purtroppo non è stato possibile rintracciare alcuna testimonianza del suo primo viaggio in questa città nel dicembre 1976. Mentre sono numerose quelle della prima metà degli anni Novanta.

Nel 1976 Brodskij non era ancora un poeta molto conosciuto, non aveva ancora ricevuto il premio Nobel; egli vagabonda per la città, si potrebbe dire, in incognito, accompagnato principalmente da Dante, una delle ombre dei grandi poeti del passato che egli vuole compiacere. Il suo rapporto di allora con la città, quello che essa rappresenta, e continuerà a rappresentare, è condensato nella poesia Dekabr’ vo Florencii [Dicembre a Firenze]. La rivista «Semicerchio» la pubblicherà nel 1995, in traduzione inglese dello stesso Brodskij e in versione italiana di Massimiliano Chiamenti.

Ugualmente, non ci sono tracce di un altro suo viaggio a Firenze, nel 1985, in occasione di un convegno internazionale di poesia. Si potrebbe dire che la città ha riconosciuto il genio poetico di Brodskij solo dopo il conferimento del Nobel nel 1987 e della qualifica di poeta emerito dalla Library of Congress nel 1991.

Essenziale è stata in seguito, nel 1995, la collaborazione con la rivista «Semicerchio», fondata a Firenze nel 1985. Francesco Stella e Antonella Francini vogliono assolutamente che egli venga per partecipare al corso di scrittura creativa che la rivista organizza ogni anno assieme al Cenobio fiorentino, e per tenere delle lezioni pubbliche. Oltre all’ovvio coinvolgimento dell’Università di Siena e della Syracuse University a Firenze, sedi di lavoro dei promotori, riescono a coinvolgere anche l’Università di Firenze, il Comune, la Provincia e l’U.S.I.S.

 

Il nostro invito a Brodskij si inserisce nel tentativo di dare impulso costruttivo a una vita culturale di basso profilo, recuperando un rapporto tra cultura universitaria e cultura militante. Quello che desideriamo è che l’uomo di lettere russo-americano, che ha il merito di avere restituito alla pratica letteraria una dignità e una responsabilità morale e politica che sembravano dominate dalla retorica e dall’ipocrisia, lasci una traccia tangibile del suo metodo, delle sue concezioni, del suo retroterra. La nostra è una richiesta di cultura non come orpello o spettacolo, ma come lavoro e valore.(13)

 

Le parole di Francesco Stella sottolineano la responsabilità che Brodskij restituisce alla pratica poetica, quella famosa frase per cui «l’estetica è la madre dell’etica» che tanto ha coinvolto e coinvolge chi si interessa della sua poesia, l’altissimo ruolo che egli attribuisce alla poesia come unica possibile barriera ad una dilagante barbarie. La poesia, la musica che per Brodskij è «la vera madre del montaggio» e insegna veramente a comporre, cioè a mettere assieme, l’arte tutta possono insegnare a dare un senso al mondo, a riordinare il caos.(14)

In conseguenza a questo, è interessante la distanza che separa il «barbaro» Publio dal «non barbaro romano» Tullio che informerà di sé la pièce Mramor [Marmi], iniziata ancora negli anni sessanta, quando il poeta viveva in Russia, ma terminata solo nel 1984, già negli Stati Uniti. In essa, infatti, la barbarie diviene una categoria filosofica, piuttosto che culturale, opposta alla civiltà, termine che Brodskij ha usato come sinonimo di cultura, eliminandone la dicotomia romantica. E, non a caso, barbarie e civiltà sono identificate in due personaggi coesistenti in un’epoca non determinata, il non luogo (utopia) è logicamente accompagnato da un non tempo (ucronia), ma identificabile con Roma in senso lato e con ciò che essa ha rappresentato. Ma questa linea ci porterebbe molto lontano dal tema di questo saggio.

Intervistato circa l’effetto che gli fa Firenze, Brodskij non a caso la definisce «città della memoria» e la contrappone a Venezia, «città dell’occhio». Sottolinea, in tal modo, l’importanza che egli attribuisce al retaggio culturale di cui Firenze è il segno palese, ma, al contempo, la valenza metamorfica, la capacità di rinnovarsi e di essere quindi sempre «nuova ed estranea» dell’amata Venezia. Firenze è:

 

sogno che ritorna per il resto di una vita. L’effetto che mi fa è quello di una capitale abbandonata, di una nobiltà decaduta, che ora vive in ristrettezze, ma per capirla meglio dovrei starci di più.(15)

 

Queste parole, e soprattutto la poesia dedicata a Firenze, hanno provocato reazioni e suggestioni disparate: Piero Bigongiari parla di un Brodskij che sente una città brulicante e impenetrabile, che ne esaspera le ossessioni, lo spirito stralunato e ossessivo; Francesco Stella evidenzia la Firenze vissuta come mito letterario, filtrato dalla Divina Commedia, dunque città di morte alla quale non si torna; Cesare Mazzonis sente emergere le sensazioni di chi vede un luogo molto bello, ma non sente la città in quanto tale; Giorgio Van Straten vede una Firenze con più tradizione che non presente, le cui potenzialità sono dimenticate; Enzo Siciliano, infine, sembra mettere Firenze e Venezia sulla stesso piano e affermare che Brodskij vive ambedue come luoghi di abbandono e metafisici.(16) Dobbiamo dire che condividere le parole di Bigongiari, Mazzoni e Van Straten è semplice, così come contestare quelle di Enzo Siciliano, ma l’interpretazione più acuta e penetrante è quella di Francesco Stella che, pur non conoscendo tutte le poesie e la prosa di Iosif Brodskij, ha percepito i contorni mitopoietici, letterari, di spazio terreno, chiuso, non proiettato verso quella metamorfosi che secondo Brodskij sola permette la dimensione metafisica e temporale del futuro, quel grjaduščee così poetico e nella tradizione della poesia russa, che si ritrova nei suoi versi. Ma il sostantivo è, morfologicamente, il participio presente del verbo grjastí, equivalente in un linguaggio alto e letterario di «andare». L’uso più conosciuto di questo verbo, oltre che nel modo di dire Prošlogo pominaem, Grjaduščego čaem [Il passato lo ricordiamo, il futuro lo attendiamo], è nell’espressione kàmo grjadéši? La frase letteralmente si traduce «dove vai?», si ritrova nel testo cerkovno-slavjanskij della Bibbia ed è diventata famosa grazie alla traduzione in russo del titolo latino del romanzo dello scrittore polacco Sienkiewicz Quo vadis?. Certo, nel titolo non compare il vocativo latino Domine, ma chiara è la coincidenza di una domanda con avverbio di luogo con il suo senso di luogo metaforico, di fine ultimo, di meta al termine di un futuro ancora non verificatosi. Futuro che Brodskij non vedeva per il mito culturale fiorentino.

Domenica 19 marzo 1995, alle ore 18, a Palazzo Vecchio, Brodskij riceve il Fiorino d’oro dalle mani del Sindaco Giorgio Morales e legge alcune sue poesie in russo, lettura cui fa seguito quella delle traduzioni italiane da parte di Rosaria Lo Russo. Tutti coloro che lo hanno ascoltato in questa lettura pubblica sottolineano ancora oggi la «solennità» di questa lettura, il ritmo e l’intonazione che «ricordano quelli di un testo sacro», i «toni salmodianti di una preghiera cantata». Una volta di più, riflettere su ciò porterebbe ad un’analisi di tutti i metri utilizzati da Brodskij, per definire l’eventuale, ma non necessaria, esistenza di un metro privilegiato ed i suoi perché.

Il testo del conferimento recita:

 

La città di Firenze conferisce il fiorino d’oro a Iosif Brodskij per l’alto valore letterario della sua poesia che lo lega alla nostra cultura e testimonia il senso di un rapporto vivo e fecondo con la tradizione umanistica nel suo significato più profondo e universale.

 

Tra il pubblico ci sono, oltre ai promotori, Roberto Calasso, editore italiano del poeta; l’allora direttore artistico del teatro Comunale Cesare Mazzonis; i professori Gaetano Prampolini, Guido Fink e Francesco Binni; soprattutto i poeti Roberto Carifi, Peter Levy e Piero Bigongiari, che gli porta i saluti di tutti i poeti italiani e che, acutamente, sottolinea la capacità di Brodskij di ricreare una patria universale, in un’immensità mondiale, approfondendo i temi della sua poesia in un lato universo interiore che appartiene, quindi, a tutti gli uomini.

Brodskij stesso sceglie le poesie da leggere nell’occasione: Sreten’e [Epifania], Babočka [Farfalla], Tors [Torso],  Čast’ reči [Parte del discorso], Iork [York] dedicata alla memoria di W.H.Auden, Pjataja godovščina [Quinto anniversario], Pis’ma dinastii Min’ [Lettere della dinastia Ming], Kvintet [Quintetto], Rimskie èlegii [Elegie romane], K Uranii [Per Urania]. L’assenza di Dekabr’ vo Florencii salta agli occhi.

Robero Carifi scriverà poi un articolo interessante, dal titolo altamente significante: Il destino schiacciante del poeta.(17) In esso sottolinea il legame strettissimo tra il destino

del poeta, non di Brodskij in particolare ma del poeta in quanto tale, e la parola «da scontare come una colpa anteriore e immemorabile», e «come tutti i poeti, paga con la parola l’azzardo e il rischio della verità». Carifi ha messo in luce particolare la valenza filosofica della poetica brodskiana, la sua profonda riflessione sul male e sulla colpa dell’esistere, il suo essere metafisicamente sospesa tra ciò che è e l’attesa di ciò che sarà. Carifi, però, non sottolinea al contempo la lucidità del pensiero di Brodskij; la pacatezza apparente della sua parola, di matrice classica e, per la cultura russa, principalmente pietroburghese, ricordiamoci che egli ha più volte parlato di sderžannost’ [ritegno, riservatezza, reticenza] a proposito della città, della sua cultura e dei suoi abitanti; la presenza quasi costante del distacco ironico, che accresce il disincanto, la disillusione. Tutto ciò non significa, però, assenza di speranza e di attesa, perché l’estetica, madre dell’etica, ha possibilità eterne e autorinnovantesi nel dialogo incessante che porta il poeta a confrontarsi sempre e solo con i poeti che lo hanno preceduto.

Lunedì 20 marzo, tiene una lezione dedicata all’amatissimo alter ego W. H. Auden, nella sala Est-Ovest e il giorno seguente, alla Facoltà di Lettere, una lezione dedicata a Robert Frost. Purtroppo, questi momenti didattici sono riservati, non aperti al pubblico, su invito e, quindi, molti, studiosi e non, ne sono rimasti esclusi. Si può notare come nessuna delle due lezioni venga dedicata, né abbia parentela alcuna, con quella cultura russo-pietroburghese con la quale, pur nella sua universalità, ha costantemente dialogato la poetica brodskiana. La Russia, San Pietroburgo, città alla quale il nome storico è stato restituito nel 1991, rimangono in questa straordinaria occasione defilati, se non addirittura assenti. In apparenza, l’unica spia sembra essere l’insopprimibile nascita russa del poeta.

Gli incontri ufficiali terminano martedì 21 marzo, con un affollato cocktail di congedo alla Syracuse University.

Straordinario, ma solo in apparenza, che Iosif Brodskij abbia saputo improvvisare le sue letture, poiché nel viaggio dagli Stati Uniti a Firenze le sue valigie erano andate perse, assieme ai libri e agli appunti. La riflessione sull’apparenza del carattere straordinario è giustificata dal fatto che le due lezioni, se pur non perfettamente sovrapponibili ai saggi che già Brodskij aveva scritto e pubblicato sui due poeti, riflettono comunque le sue sostanziali e costanti considerazioni sull’opera e di Robert Frost e di W.H. Auden. Questi eccezionali momenti sono stati poi pubblicati in Lezioni di poesia.(18)

Si è già accennato all’articolo di Francesco Stella, cui fa seguito un saggio nel numero di maggio della rivista «Poesia».(19) In esso Stella, pur non conoscendo la lingua russa, dimostra di avere chiare alcune delle fondamentali componenti della poetica brodskiana: l’esigenza di un significato morale della scrittura poetica; l’individualità dell’espressione artistica; la riluttanza ad assumere un ruolo sociale; la poesia come mezzo di attivazione della coscienza di fronte agli inganni della storia; il poeta quale portatore di un ruolo linguistico e non socio-politico; il verso, il ritmo, il piede, la rima come forme dell’unico e vero rapporto con il passato; la poesia quale unica e vera eredità storica.

 

Perché l’invito a Brodsky? Perché è l’unico poeta contemporaneo che unisca una notorietà mondiale e una riconosciuta autorevolezza a una voce che sia in grado di parlare a generazioni diverse senza risultare immediatamente datata. È il poeta che è riuscito a superare le distinzioni di stili e tendenze per rifondare n colloquio fecondo con i classici di ogni lingua e una nuova potenzialità dell’idea stessa di classico nel Novecento.

 

Un Brodskij che, quindi, dialoga con un passato che suo e della sua città e della sua cultura al contempo, Deržavin, Puškin, Baratynskij, Blok, Mandel’štam, Achmatova,

Dostoevskij, gli oberjuty, in un elenco lunghissimo. Ma il dialogo è anche con il suo presente, geograficamente vicino e lontano, Tomas Venclova e Evgenij Rejn, Aleksandr Kušner e Lev Losev, Dovlatov e Jakov Gordin, Michail Baryšnikov e Solomon Volkov. Per non parlare delle altre culture, pur sempre nella consapevolezza che per lui la poesia era quasi una categoria a sé, priva di confini, persino di lingua poiché essi erano superabili dalla musica del ritmo, e quindi Kavafis e Frost, John Donne e Umberto Saba, Antonio Machado e Eugenio Montale, Sheamus Heany e Derek Walcott, per non parlare di quello che egli definiva suo alter ego, Wistan Hugh Auden. Indietro, in questa ricerca di predecessori e interlocutori, sino a Dante, e ancora Ovidio, Orazio, Virgilio e l’Esiodo della Teogonia;(20) tutto in un elenco confuso e quasi senza fine. Dialogo che, unico, è in grado di dare all’uomo una parvenza di storia.

 

Per ogni poeta, al mondo, c’è solo il mattino, e la Storia è una notte insonne dimenticata... Il fato della poesia è innamorarsi del mondo, a dispetto della Storia.

 

Parole che potrebbero essere state pronunciate da Iosif Brodskij e che sono invece di un altro poeta, del quale egli è, forse, stato un alter ego, Derek Walcott. Quel poeta che ha parlato, dialogato con lui anche dopo la sua morte, dando vita a quello che è uno dei migliori e più significativi tributi alla poesia e alla parola di colui che era appena morto, e che inizia con una domanda la cui inequivocabile fatalità non necessita di spiegazioni «...Joseph, perché sto scrivendo questo / se tu non puoi più leggerlo? » e che termina con un’immagine densa di significati: «la tua ombra gira gli angoli / di un libro e resta in fine della prospettiva, in attesa di me».

 

...Joseph, why am I writing this

When you cannot read it? The windows of a book spine open

On a courtyard where every cupola is a practice

For your soul encircling the coined water of Venice

Like a slate pigeon and the light hurts like a rain.

Sunday. The bells of the campaniles’ deranged tolling

For you who felt this stone-laced city healed our sins,

Like the lion whose iron paw keeps out orb from rolling

Under guardian wings. Craft with the necks of violins

And girls with the necks of gondolas were your province.

How ordained, on your birthday, to talk of you to Venice.

These days, in bookstores I drift towards Biography,

My hand gliding over names with a pigeon’s opening claws.

The cupolas enclose their parentheses over the sea

Beyond the lagoon. Off the ferry, your shade turns the corners

Of a book and stands at the end of perspective, waiting for me.

 

Walcott è certo che l’ombra di Brodskij lo attende, perché ogni poeta attende chi viene dopo di lui, chi continua il dialogo; come Brodskij stesso ha detto:

 

Un giorno, quando finirò nel tuo settore dell’aldilà, la mia entità aeriforme chiederà alla tua entità aeriforme se hai letto questa lettera. E se la tua entità aeriforme risponderà no, la mia non si sentirà offesa. Al contrario, gioirà di fronte a un dato di

fatto che dimostra come la realtà si prolunghi fin nel territorio delle ombre. [...] Credo perciò che noi due potremmo intenderci a meraviglia. Quanto alla lingua, è molto probabile che il reame, come ho detto, sia poli- o sovra-glotta. E poi tu, fresco dell’esperienza fatta nei panni di Auden mentre esaurivi la tua quota pitagorica,

ricorderai forse un po’ d’ inglese. Può darsi che io ti riconosca proprio per questo. Anche se lui, senza dubbio, era un poeta molto più grande di te. Ma proprio questo è il motivo per cui tu hai cercato di assumerne le sembianze l’ultima volta che sei

stato dalle nostre parti, nella realtà.(21)

 

Le due lezioni a Firenze erano basate sul metodo usuale di Brodskij: la spiegazione del testo. A questo proposito, nella fase preparatoria del suo soggiorno, egli si è preoccupato di chiedere che gli ascoltatori leggessero in precedenza alcune poesie, in modo tale da poter agevolmente seguire la sua disamina. Arriva a proporre di mandare

le poesie per fax lui stesso, se il reperirle a Firenze fosse stato difficile. Per Frost: Provide, Provide; Come in; Acquainted with the Night; Desert Places; Did Man’s Winter; Night Wood Pile; per Auden: As I Walked out one Evening; In Memory of Yeats; Shield of Achilles; Fall of Rome.

La lezione su Robert Frost prende chiaramente le mosse dal precedente saggio On Grief and Reason («Dolore e ragione») del 1994.(22) L’ analisi contrastiva ci aiuta a sottolineare il nucleo del pensiero di Brodskij sul poeta americano e a chiarirne le particolarità, alcune delle quali preziose per la comprensione dello stesso Brodskij.

Egli rileva l’equivoco generalizzato che vede in Frost la quintessenza del poeta americano, e contrappone a questa generalizzazione la propria percezione del carattere terrifico della poetica frostiana. È interessante in che senso e per quale ragione Brodskij decida di contrassegnare questo terrore; nel testo russo egli ha utilizzato il sostantivo užas [terrore] e il corrispondente aggettivo užasnyj [terribile, terrificante], contrapponendolo alla tragedia e al tragico: la tragedia e il tragico sono un fatto compiuto, sono storia, fatti tremendi ma comunque concreti; užas è il terrore, l’orrore di fronte ad un evento che ci si aspetta, perché lo si avverte, ma che è ignoto e che, quindi, vede l’uomo bespomoščnyj [impotente]. Brodskij ci costringe a collegarci al presentimento, all’orrifico, alla sensazione dell’ abisso inevitabile, al fato che stravolge i piani umani, ad un tempo non legato alla storia bensì alla profezia. I protagonisti delle poesie di Frost, perché di veri e propri protagonisti di una narrazione si tratta, hanno presentimenti, destati in loro da visioni.

Questo prendere in qualche modo le distanze dalla storia fa parte dell’americanità di Frost, del suo appartenere ad una cultura dove ogni più piccolo uomo, oggetto e avvenimento non è necessariamente impregnato di strati molteplici di incrostazione storica, che forniscono loro un’inevitabile capacità associativa. Evidente appare la consonanza con la poetica brodskiana.(23)

Una riflessione analoga provocano queste parole di Brodskij:

 

Frost riteneva semplicemente che in poesia si dovessero rispettare le regole del gioco, giacché non si gioca a tennis con la rete per terra.(24)

 

Anche per Brodskij il distico, il ritmo – ricordiamoci ’affermazione per cui la musica è la madre del montaggio e non il cinema, la rima, le regole della versificazione per cui non si possono usare indifferentemente i metri e mescolare i generi poetici – sono qualcosa di molto semplice ed inevitabile, sono «le regole del gioco».

Volendo enucleare da questa lezione soltanto quello che può collegarla a Firenze, è ovvio il richiamo a Dante. I primi versi di Come in recitano:

 

As I came to the edge of the woods,

Thrush music – hark!,

 

Brodskij vede in questo edge of the woods, in questo limitare del bosco lungo il quale l’eroe passeggia cercando accuratamente di non addentrarsi, un chiaro riferimento alla selva oscura di Dante. Ci sono, quindi, due regni contrapposti: quello dove esiste la luce e quello dove regna l’oscurità. A differenza di Dante, Frost non entra nel regno oscuro, lui non è Dante, non lo eguaglia né come uomo né come poeta e in lui prevale il terrore, l’orrore dell’ignoto e rifiuta l’invito del titolo: come in [entra]. Potremmo aggiungere che, in tal modo, Frost nega a se stesso l’opportunità del versus, della scrittura bustrofedica; che, forse, Frost non aveva il suo Virgilio; che, forse, Brodskij si è voltato, come Orfeo; ma questo ci porterebbe troppo lontano.

Per la lezione dedicata a Auden, Brodskij ha scelto di analizzare principalmente la poesia in tre tempi In memory of W.B.Yeats [In memoria di W.B. Yeats], la cui disamina occupa la parte preponderante della lezione, anche se alcune parole le ha spese anche per le altre poesie da lui indicate.

Possiamo già fare alcune considerazioni: che quelle di Firenze sono state veramente «lezioni di poesia» e non semplicemente un’analisi di alcuni versi di altri poeti, in tal senso, il titolo della raccolta è in questo caso più che appropriato; che sarebbe interessante, ma ancora una volta ci porterebbe troppo lontano, contrapporre a questa lezione il precedente saggio su Auden del 1984 e le poesie per la sua morte, la prefazione che Auden ha scritto per la pubblicazione di Selected Poems [Poesie scelte];(25) che questa su Auden è una lezione principe per rilevare l’abitudine brodskiana ad analizzare le poesie verso per verso, in modo quasi puntiglioso.

Quest’ultima abitudine, oltre che portare a risultati interpretativi di una finezza e di una capacità di penetrazione nel testo geniali, dipende senza dubbio dall’importanza dominante che Brodskij ha sempre attribuito alla lingua del poeta, intesa come un tutto unico, onnicomprensivo e inscindibile, di parola, ritmo, rima, metro, verso e strofe. La percezione di tale unitarietà permette la sua personale ermeneutica del testo. Il saggio «Primo settembre 1939» di W.H. Auden, ancora del 1984, perché nato come lezione alla Columbia University, inizia con queste parole:

 

Abbiamo davanti una poesia di novantanove strofe e, se il tempo ce lo permetterà, le analizzeremo uno per uno. La cosa può apparire, e in effetti apparirà, noiosa; tuttavia, in questo modo abbiamo maggiori probabilità di conoscere qualcosa del suo autore, e insieme anche della generale strategia della poesia lirica. Poiché, senza tener conto del soggetto, questa è una poesia lirica.

 

Lirica è questa poesia di Auden; un’elegia composta da un lato come pubblica e da un altro come privata; in parte recitata come da un pulpito e quindi rivolta ai presenti; in parte dialogo di un poeta con un altro poeta, con uno dei suoi interlocutori e quindi fenomeno privato. In tal senso, ci è facile comprendere che questa elegia coinvolge ambedue gli aspetti, e quello pubblico e quello privato, del commemorato ma anche del commemorante. Quest’ultimo, infatti, interloquendo con il suo simile, rivela anche se stesso. In altre parole, Auden ci rivela Yeats, a un po’ rivela anche Auden stesso.

Si capisce, inoltre, l’apparente controsenso brodskiano: asserisce costantemente che la biografia del poeta non serve a giudicare la poesia, però egli questa biografia dimostra sempre di conoscerla perfettamente. Quella di Brodskij è conoscenza attraverso la poesia; prima egli conosce i versi del poeta e, solo dopo, ne conosce la biografia, che è già tutta presente nelle sue opere. In un certo qual modo, la biografia, l’esistenza stessa del poeta sono giustificate unicamente dalla creazione poetica; una volta di più, per usare le parole di Brodskij, la lingua poetica è «un idioma di esistenza».

Nel corso della sua disamina, Brodskij si sofferma in modo particolare sull’interpretazione del famoso verso:

 

For poetry makes nothing happen: it survives

 

Su di esso, su cosa Auden intendesse dire, si sono spese pagine e pagine, Brodskij dà la sua interpretazione, che equivale a: la distruzione non è la fine delle cose, bensì il mezzo che assicura la loro persistenza.(26) La poesia diventa, in tal modo, veicolo di eternità, di un eterno rinnovarsi di persone e cose. Ci si può, qui, riallacciare a quanto scritto all’inizio di questo saggio sulla lingua come molla propulsiva del perenne movimento del poeta, sulla sua naturale funzione poetica.

Anche Auden, infine, cita Dante, nel verso:

 

To find his happiness in another kind of wood

 

Questo ritornare dell’immagine della selva dantesca, questo insistere di Brodskij nel ritrovare echi di Dante negli altri, è senz’altro una spia del fascino che Dante ha esercitato sempre su lui stesso. Non tanto la poetica, ma la lingua della poesia dantesca, quella che, una volta di più, deve essere definita «un idioma di esistenza», non poteva non incantare Brodskij.

La presenza di Iosif Brodskij a Firenze va però addirittura oltre la morte, non termina con la scomparsa del poeta.

Nell’ottobre 1997 Michail Baryšnikov è in Italia per quello che è stato definito «one-man-show» [spettacolo per solo] dal titolo Una serata di musica e danza. Coreografie del nostro tempo; per la prima volta, dopo molto tempo, il ballerino è in tournée senza il suo famoso White Oak Dance Project. La prima tappa, il 10 ottobre, è alla Fenice di Venezia e Baryšnikov dedica questa serata alla memoria di Iosif Brodskij, scomparso da quasi due anni. Intervistato sul perché ha voluto iniziare proprio da Venezia, Baryšnikov ha risposto:

 

Ho ricordi felici di questa incredibile città, ma di recente sono venuto qui in un’occasione molto triste: la morte di Iosif Brodskij, ora sepolto qui sull’isola di San Michele, alla cui memoria dedico questo mio nuovo spettacolo (Il Messaggero, 11 ottobre 1997).

Ballando in laguna vivo un’esperienza personale e particolare, visto che vi è seppellito il mio amico Iosif Brodskij (La Repubblica, 12 ottobre 1997).

In omaggio alla Fenice e al mio caro amico Brodskij, che è sepolto qui, al cimitero di San Michele (Il Giorno, 11 ottobre 1997).

 

La stessa frase appare anche sul programma della serata, e Baryšnikov presenta Piano bar di Maurice Béjart, Chaconne di Jose Limon, Tryst di Kraig Patterson, Pergolesi di Twila Tharp, Tre preludi russi di Mark Morris, Unspoken territories di Dana Reitz.

Dopo essere stato al Politeama di Trieste, alla Scala di Milano, al Ponchielli di Cremona, nuovamente a Milano al Piccolo, il 1° dicembre Baryšnikov arriva al Comunale di Firenze.

Sul «Corriere della sera» del 28 novembre 1997, in un articolo-intervista di Margherita d’Amico, Baryšnikov ribadisce come l’intera tournée sia dedicata a Iosif Brodskij e, soprattutto, alla sua idea di creare a Roma un’Accademia in grado di ospitare artisti russi per soggiorni di formazione. Si incontrano per la prima volta a New York nel 1974, a una festa in onore di Rostropovič; Trotskij è in esilio già da due anni e Baryšnikov ha da poco messo in atto la fuga in Canada.

 

Mi disse semplicemente: «salve, sono Iosif Brodskij» e, dal momento che lui viveva già da un po’ negli States, mi diede qualche consiglio. Conversammo su come fosse la gente lì in America e su questioni di immigrazione. Lasciata insieme la festa, ci incamminammo giù verso il Greenwich Village, continuando a parlare fino alle tre del mattino. Dopo un paio di giorni gli telefonai e da allora incominciammo a vederci spesso. Sono passati ventitré anni, ma sembra ieri; il tempo passa molto in fretta. Iosif è stato la persona più bella e completa che io abbia mai conosciuto. [...] Figlio di russi, io ho vissuto nella Lettonia occupata per sedici anni e poi in Russia per dieci. Quando però sono arrivato negli Stati Uniti sapevo che quella sarebbe stata casa mia. Per Brodskij è stato più difficile; c’ era anzitutto la questione della lingua. E poi lui non voleva appartenere a niente, è sempre stato al di sopra di qualsiasi struttura politica e culturale. Dal canto mio, ero in qualche modo un girovago. Sono certo che per lui Leningrado, oggi San Pietroburgo, abbia rappresentato un’ancora, in un modo molto diverso rispetto a quanto non sia valso per me. E d’altro canto io mi sento molto più americano di quanto, con ogni probabilità, non si sia mai sentito lui.

 

Baryšnikov coglie l’occasione della serata fiorentina per sottolineare il progetto che ha visto Brodskij impegnarsi negli ultimi due anni di esistenza: la creazione di un’Accademia Russa a Roma, dove gli artisti che ogni campo dell’arte esprime possano soggiornare, studiare, affinare i propri mezzi espressivi in quel dialogo incessante che solo un luogo così privilegiato può consentire. Egli si spinge oltre, e parte dell’incasso della serata fiorentina è devoluto alla realizzazione di questo progetto.

Purtroppo, il sogno si è avverato solo parzialmente; solo i poeti russi hanno la possibilità di questo soggiorno, per le altre arti non si sono trovati fondi sufficienti; anche la sede, nonostante la dichiarata disponibilità del Sindaco e del Comune di Roma, ancora non esiste e i poeti, che un’apposita commissione sceglie ogni anno, trovano ospitalità presso l’American Academy, della quale Brodskij stesso era socio e che lo aveva accolto anni prima.

 

La bozza di suo pugno dello statuto di questa Accademia sognata è interessante per comprendere il suo rapporto con l’Italia e meriterebbe di essere resa pubblica, come documento da analizzare per gli studiosi. L’ambasciatore Boris Banchieri, Presidente dell’Associazione Iosif Brodskij che si è costituita allo scopo di realizzare questa iniziativa, ne ha resi pubblici alcuni stralci:

 

L’Accademia Russa si impone per l’ovvia verità che la cultura italiana è senz’altro la madre dell’estetica russa e che per settant’anni, nel nostro secolo, questo legame tra madre e figlia è stato artificialmente troncato. Molto di ciò che è venuto fuori in Russia, nel suo clima mentale in particolare, è conseguenza diretta di questa sciagurata frattura, e l’idea di istituire l’Accademia Russa di Roma nasce anche dal desiderio di restituire a quella figlia un buono stato di salute.(27)

 

Brodskij vede, quindi, la ragione dell’esistenza di questa Accademia nel legame da figlia a madre esistente tra l’estetica russa e quella italiana. Egli sente un legame diretto tra le categorie estetiche dei due paesi; un legame che egli vuole riportare alla luce, rendere nuovamente sensibile. Sembra di intuire che, pur conscio dei rapporti strettissimi e innegabili con la Francia, l’Inghilterra, la ermania, Brodskij desiderasse rendere gli artisti russi nuovamente consapevoli di quelle loro radici che affondano nella cultura italiana, su su fino alla grande stagione dei classici latini, eredi naturali dei greci. Il paese non come meta ambita e privilegiata di un tour più o meno grande, ma come spazio entro il quale la cultura, la civiltà si è realizzata. In tal senso si comprende la sua frase all’amico Baryšnikov:

 

Il marmo, il marmo di Roma mi stringe l’aorta.

 

Le presenze continuano, perché il 18 maggio 2000 Derek Walcott inaugura il Cipresso Tecnologico della Fondazione il Fiore e la Fondazione, per presentare Walcott, ricorre al saggio di Brodskij del 1991.(28) I lettori italiani conoscono questo saggio soprattutto quale introduzione alla raccolta di versi del poeta inglese, edita da Adelphi nel 1992 con il titolo Mappa del Nuovo Mondo. n esso Brodskij riprende un tema a lui caro per cui

 

la poesia non è l’arte del silenzio, bensì l’arte dell’eloquio, dell’affermazione. [...] Compito della poesia è opporsi alla realtà, farla sopravanzare dall’alternativa linguistica, temprare il cuore davanti ad ogni possibilità, compresa la propria sconfitta finale.(29)

 

Tema già ampiamente trattato nel saggio di due anni precedente Poèzija kak forma soprotivlenija real’nosti [La poesia come forma di opposizione alla realtà], dove scrive incisivamente della poesia dell’ amico Tomas Venclova.(30) Tutto questo a riprova del fatto che la vera poesia, i veri poeti, pur nella loro individualità irripetibile, hanno tratti che li accomunano. E Derek Walcott, con i suoi versi basati sulla rima piuttosto che sul ritmo, particolarità che li apparenta all’immagine dell’oceano con le sue onde, ha dato voce alla cultura, alla storia dei suoi Caraibi con la lingua di coloro che li avevano assoggettati. In modo molto simile aveva già scritto di sé circa venti anni prima, nella lettera-articolo del 1972, scritta al e per il «New York Times»:

 

La Russia è la mia casa, ho passato lì tutta la mia vita e devo a lei e al suo popolo tutto quello che ho nell’anima. Soprattutto, la sua lingua. La lingua, come ho già scritto, è una cosa più antica e più inevitabile di qualunque forma di stato e essa evita, stranamente, allo scrittore molte funzioni sociali. In questo momento provo una strana sensazione, nel fare di questa lingua l’oggetto delle mie considerazioni, nel guardare ad essa a latere, poiché proprio essa ha condizionato questo sguardo alquanto estraniato all’ambiente, all’humus sociale, cioè quella qualità dello sguardo di cui ho parlato più sopra.(31)

 

«Il più grande poeta di lingua inglese, oggi, è un nero.»

 

Ricordiamo che anche Walcott ha vinto il Nobel per la poesia, nel 1992. Ma ricordiamo, soprattutto, che Derek Walcott ha dedicato le sue Italian Eclogues a Brodskij, al poeta morto nel 1996; le ha chiamate Italian, forse a sottolineare una marca che li contrassegnava, forse o per lo meno un po’, ambedue. La dedica è in larga misura dovuta alla recente morte di Brodskij; resta questo aggettivo Italian, che meriterebbe un’indagine più approfondita e che, forse, getterebbe una luce maggiore su quello che l’Italia, intesa come segno culturale, come unico ed esteso genius loci, ha significato per questi due poeti, così diversi tra loro, così geograficamente distanti e, al contempo, unificati dal loro essere poeti. Walcott ha scritto:

 

Italian eclogues (for Joseph Brodsky)

 

On the bright road to Rome, beyond Mantua, there were reeds

of rice, and I heard, in the wind’s elation, the brown dogs

of Latin panting alongside the car,

their shadows sliding on the verge in smooth translation,

past fields fenced by poplars, stone farms in character,

nouns from a schoolboy’s text, Virgilian, Horatian,

phrases from Ovid passing in a green blur,

heading towards perspectives of noiseless busts,

open-mouthed ruins, and roofless corridors

of Caesars whose second mantle is now dust’s,

and this voice that rustles out of the reeds is yours.

To every line there is a time and a season.

You refreshed forms and stanzas; these cropped fields are

your stubble grating my cheeks with departure,

grey irises, your corn-wisps of hair blowing away

say you haven’t vanished, you’re still in Italy.

Yeah. Very still. God. Still as the turning fields

of Lombardy, still as the white wastes of that prison

like pages erased by a regime. Though his landscape heals

the exile you shared with Naso, poetry is still treason

because it is truth. Your poplars spin in the sun.

 

 

Ecloga italiana (a Joseph Brodsky)

 

Nella luce viva della strada che va a Roma, dopo Mantova,

ecco gli steli del riso, e nell’ebbrezza del vento

io sento il latino in affanno che tiene dietro all’auto

in corsa come un cane scuro, un’ombra di velluto che scivola

sul ciglio in traduzione, e oltre il limite dei pioppi, nei campi,

le cascine di mattoni, com’è nell’uso, e quei nomi che sanno

di libro di scuola, Orazio e Virgilio, o anche un frammento

di Ovidio che si perde nel verde lungo il percorso,

verso prospettive di busti camusi,

privi di naso, e quelle rovine

a bocca aperta, i corridoi senza un tetto e i Cesari di marmo

ormai ricoperti dalla polvere come un secondo mantello,

e tra questi steli la voce che fruscia è la tua, Joseph.

C’è un tempo per ogni verso e c’è una stagione. Tu hai dato

fiato alle forme e vigore alle strofe; nei campi a coltivo

le tue stoppie sono ruvide sulle mie guance come un commiato,

iridi grigie, e i pennacchi del grano sono capelli nel soffio

del vento. Dimmi che non sei svanito. Dio. Che è qui la tua pace.

Si, che in Italia ancora ci sei. In questa pace dei campi

di Lombardia che girano come raggi e via da quella prigione

che tace laggiù nelle bianche distese simili a pagine

cadute nelle mani di un regime che cancella. È nel paesaggio

che cerca salvezza chi muore in esilio e tu, come Ovidio,

lo sai che dentro la poesia si trova una verità che da sola

è tradimento. I tuoi pioppi, ritti come fusi, filano nel sole.

 

(traduzione di Luigi Sampietro)

 

 

Il concetto di genius loci, in Brodskij, vede la parola genio recuperata nel suo valore primario, di generatore della vita, dio particolare di ogni uomo che veglia su di lui dalla nascita alla morte, prendendo parte alle sue gioie e ai suoi dolori, e sparisce quindi con lui; come ogni persona, così ogni luogo, ogni città, ogni Stato, ogni cosa ha il suo genio protettore, che ne rappresenta lo spirito, l’essenza metafisica. Oggi, invece, questo termine solitamente indica il carattere di un luogo, le suggestioni, l’aria che vi si respira, in qualche modo pur sempre erede del suo genio. Ci possiamo collegare al saggio di Petr Vajl’ Genij mesta. Semejnoe delo(32); il saggio è stato scritto dopo il viaggio di Petr Vajl’ in Italia, durante il quale, nel settembre 1995, egli è ospite di Iosif Brodskij per una settimana in una casa sulle colline di Lucca. Brodskij, dunque, ha da pochi mesi ricevuto il «Fiorino d’oro» e tenuto le sue lezioni fiorentine.

Nel saggio Vajl’ riflette su due città italiane distantissime tra loro, e come spazio e come cultura, Firenze e Palermo, vedendole soprattutto come origine di due figure che ne rappresentano appunto il «genio»: Machiavelli e Puzo. Vajl’, nel parlare di Firenze e di Machiavelli, cita Brodskij e la poesia Dekabr’ vo Florencii. Nulla di particolare, se si considera l’amicizia di lunga data che li ha legati, interessante è il divario di posizione nei confronti del «genio» della città. La posizione di Vajl’ è senz’altro più dichiaratamente positiva rispetto a quella di Brodskij; egli ammira senza condizioni l’architettura della città, dove arte e vita si intrecciano in modo così stretto da non poter essere scisse l’una dall’altra; sindrome che Brodskij, non va dimenticato, ha passato sotto silenzio a differenza di quasi chiunque parli di Firenze. Firenze per Vajl’ è soprattutto il luogo il cui genio ha espresso la figura complessa di Machiavelli; Vajl’ analizza in modo puntuale Il principe e, in modo più parziale, La mandragora. L’analisi del penultimo capitolo del Principe, Il Signore, lo riavvicina al pensiero brodskiano. Egli riporta il passo in cui Machiavelli abbandona la logica del pensiero politico; in cui il discorso si fa quasi frammentato e acquisisce un’intonazione privata, da individuo singolo:

 

Spesso si è detto che tutto al mondo viene guidato dal destino e da Dio.

 

Vajl’ scrive:

 

Con stupore vediamo come trionfi un modo di pensare puramente artistico.

 

Al pensiero politico, che fa di Machiavelli quasi l’ipostasi di uomo del Rinascimento, subentra una riflessione divergente: il destino dell’uomo è segnato dall’alto, in un connubio che unisce destino e Dio, sacro e profano, la cultura classica e la religione cristiana; ma all’uomo è conservata la volontà e, quasi a non far torto a nessuno, ogni agente può determinare circa la metà delle azioni umane. Machiavelli, però, alle liberatorie asserzioni cristiane preferisce l’etica romana, con il suo insistere sul predominio del bene della res publica e dell’uomo come valore principale di essa. Le categorie di «qui» e «adesso » vengono superate e sostituite da quelle di «ovunque» e «sempre». In questa riflessione di Vajl’ echeggiano analoghe riflessioni di Brodskij, che non ha mai parlato di Machiavelli, ma la cui poetica è fondata sull’azione etica espressa dalle categorie estetiche.

Si può concludere, richiamando il libro a cura di Francesco Bellino Dialettica interculturale e perfezionamento dell’uomo(33) dove, nel capitolo 9, si legge che oggi l’umanità ha il problema di trovare il proprio ethos (Eraclito), ovvero la propria dimora. E Bellino non trova di meglio che citare Brodskij, un poeta russo, emigrato negli Stati Uniti, che non si era formato su studi classici:

 

«Le culture sono simili ad alberi, che hanno bisogno di radici per vivere e ramificare».

 

Questa frase di Iosif Brodskij sottrae la dialettica interculturale all’ideologia del sangue e della terra; l’uomo e la sua cultura divengono invece una sorta di albero capovolto, le cui radici non sono chiuse nel buio della terra, bensì si trovano in alto, radicate nell’ aria, nel cielo aperto, nel vento, nella luce, tra i volti umani.

Qua Bellino interpreta ethos come dimora, come cultura nel senso più ampio del termine e Brodskij ha formulato le parole che riportano alla luce questo ampio significato. Di conseguenza, ogni individuo deve ritrovare la propria dimora, senza obbligatoriamente farla coincidere con lo spazio della nascita, con uno qualunque degli elementi a cui si è soliti aggiungere l’aggettivo «natale» ovvero «natio».

Sarebbe, però, preferibile riferirsi in modo più attento al famoso aforisma di Eraclito, secondo il quale: ethos, il carattere, per l’uomo è daimon, un demone; aforisma oscuro come oscuro fu Eraclito, colui che pronunciava massime misteriose e profonde, che neanche Socrate fu in grado di penetrare sino in fondo; perché oscuro, misterioso e profondo era il modello stilistico eracliteo, paradossale, formulato in modo sorprendente per coloro, la quasi totalità, che non erano in grado di percepirne subito il senso. Sorprendente l’analogia con il modello stilistico brodskiano e seducente per la profonda convinzione del ruolo fondamentale giocato dalla cultura greca antica nella poetica e nella metafisica di Brodskij.(34)

Tornando all’aforisma, esso può essere interpretato in due modi divergenti: gli uomini credono che li guidi un demone, ma invece è il loro carattere; oppure: quello che gli uomini chiamano carattere è, in realtà, una forza demoniaca. Questa seconda interpretazione è il senso tragico, la tragedia che mostra come dietro alla volontà dell’uomo ci sia la presenza delle decisioni divine, dei progetti degli dei. Ogni azione umana, ogni atto dell’uomo proviene da lui; traduce il suo carattere, il suo ethos, la sua maniera interna di essere; allo stesso tempo, rappresenta il modo in cui gli dei hanno guidata questa azione, senza che il soggetto umano ne fosse consapevole. Chi è cosciente di questo, Brodskij il poeta, sa che la sua conoscenza è la conoscenza di ciò che è già accaduto e, al contempo, l’ignoranza di se stesso. Eraclito ha scritto che:

 

Confini (peirata) all’anima peregrinando non troverai pur se tenti ogni via, a tal punto profondo è il suo logos.

 

L’interpretazione potrebbe essere: non puoi trovare nell’ anima altro che l’anima, non certo mai lo scontro con i limiti di una cosiddetta realtà, giacché a ogni moto dell’anima corrisponde precisamente un allontanarsi di tali limiti. Nei pensieri non si trova mai altro che la necessità del loro concatenarsi, nei sentimenti il modo del loro associarsi e variare, nelle passioni altro che la natura del loro impeto.(35)

Brodskij ha ripetutamente asserito che l’arte è prima di tutto organizzazione; cosa viene dopo cosa; come suoni parole, immagini si susseguono gli uni agli altri, in un senso che diviene unico e irripetibile; che il montaggio è stato inventato dall’arte e non dal cinema e che i più grandi maestri del montaggio sono i musicisti. La parola, il canto dei greci (melos), non è il solo modo di esprimere la realtà; qualunque forma di espressione di una società, e in esse rientra il suo ethos, è però sottesa e sostenuta dall’impulso della parola, che è impulso di scelta, di ordine e di comunicazione, di logos. Ma questa è già materia per un altro studio.

 

 

 

NOTE

 

(1) Cfr. J. Brodsky, A Poet and Prose, in Less than One, New York 1986, p. 187; J. Brodsky, A Room and a Half, in Less than One, cit.; S. Pavan, Un poeta e la lingua: Iosif Brodskij, in «Quaderni del Diaprtimento di Linguistica», 12/2002, pp. 151-167

(2) Cfr. I. Brodskij, Čast’ reči: Stichotvorenija 1972-1976, Ardis, Ann Arbor 1977.

(3) J. Brodsky, On «September 1, 1939» by W.H. Auden, in Less Than One, cit. p. 305.

(4) Cfr. S. Pavan, About the Concept of «Muse» in Brodsky’s Poetics. Atti del XIII Congresso Internazionale degli Slavisti, Ljubljana 2003.

(5) E. Livorni, Dall’ emigrazione all’esilio: il paradosso dell’esodo, Yale University

(6) Cfr. J. Brodsky, A Condition We Call Exile, in On Grief and Reason, New York 1995, pp. 22-34.

(7) A. Genis, Brodskij i Dovlatov, Petropol’, pp. 234.

(8) Cfr. Ja. Gordin, Delo Brodskogo, «Neva», n. 2, 1989, pp. 134-166.

(9) I. Brodskij, Sočinenija, Sankt-Peterburg 2000, tom VI, p. 66.

(10) Cfr. L.Losev, La Venezia di Iosif Brodskij, in I Russi e l’ Italia, Milano 1995, pp. 217-226.

(11) I. Brodskij, Ninety Years Later, in On Grief and Reason, cit., p. 423; cfr. S.Pavan, About the Concept of Muse..., cit.

(12) Cfr. I. Brodskij, Razgovor s nebožitelem, del 1978; Ja.Gordin, žizn’ na vozdušnom potoke, in Razgovor..., Sankt-Peterburg 2001, pp. 435-441.

(13) F. Stella, «La Repubblica», 18 marzo 1995.

(14) Cfr. S. Pavan, About the Concept..., cit.

(15) «La Repubblica », 22 marzo 1995, intervista di Lorenza Pampaloni.

(16)L. Pampaloni, «La Repubblica», 23 marzo 1995.

(17) R. Carifi, Il destino schiacciante del poeta, l’«Unità», 23 marzo 1995.

(18) I. Brodskij, Sulla poesia di W.H. Auden, in Lezioni di poesia, Le Lettere, Firenze 2000, pp. 35-54; Sulla poesia di Robert Frost, ibidem, pp. 55-83.

(19) F. Stella, Joseph Brodsky a Firenze, «Poesia», maggio 1995, p. 37.

(20) Cfr. S. Pavan, About the Concept of Muse..., cit.

(21) I. Brodskij, Lettera a Orazio, in Dolore e ragione, Milano 1998, pp. 80-81.

(22) J. Brodsky, On Grief and Reason, in On Grief and Reason, New York 1995, pp. 223-266.

(23) Cfr. J. Brodsky, Profile of Clio, in On Greaf and Reason, cit., pp. 114-137.

(24) I. Brodskij, Sulla poesia di Robert Frost, cit., p. 69.

(25) J. Brodsky, On «September 1, 1939» by W.H. Auden, in Less Than One, cit., pp. 304-356; I. Brodskij, Jork, Babočki Severnoj Anglii Plauto nad lebedoju, del 1976; J. Brodsky, Selected Poems, New York 1973, forward by W.H. Auden.

(26) Cfr. I. Brodskij, Sulla poesia di W.H. Auden, cit., p. 50.

(27) «La Nazione», 29 novembre 1977.

(28) J. Brodsky, Derek Walcott, il saggio, scritto in inglese, fu pubblicato per la prima volta come prefazione alla traduzione svedese di alcune poesie di D. Walcott, Vinterlampor, Stockholm, 1991.

(29) Si cita dalla traduzione russa del saggio, I. Brodskij, O Dereke Uolkotte, in Sočinenija, vol. VII, Sankt-Peterburg 2001, pp. 166-169.

(30) I. Brodskij, Poèzija kak forma soprotivlenija real’nosti, in Sočinenija, tom VII, cit., pp. 119-128.

(31) I. Brodskij, Pisatel’ – odinokij putešestvennik, ibidem, pp. 62- 71.

(32) «Inostrannaja literatura», n. 6, 1997.

(33) Roma 1996.

(34) Cfr. S. Pavan, About the Concept of Muse..., cit.

(35) Cfr. Nicola Chiaromonte, Il tarlo della coscienza, Il Mulino, Bologna 1992.


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