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ALAN JENKINS

 

Alan Jenkins è una figura di spicco nel panorama della giovane poesia inglese. Nato nel 1955 a Kingston, nel Surrey, è cresciuto a Londra, dove ha intrapreso parte degli studi e dove vive tuttora. Dal 1981 lavora al Times Literary Supplement, prima come direttore della sezione poesia e romanzo, in seguito come vicedirettore della rivista; è stato inoltre critico di poesia sull’Observer e sull’Independent on Sunday. Dal 1981 ha pubblicato varie raccolte di poesia tra cui In the Hot-House (1988), Greenheart (1990), Harm (1994) – con cui ha vinto il «Forward Prize» per la migliore raccolta – e The Drift (2000). La poesia Brighton Return, ambientata in una città ben conosciuta dal poeta, che ha frequentato l’University of Sussex, fa parte di The Drift. Questa è una raccolta compatta, profondamente personale in cui Jenkins esplora la natura della memoria e della perdita. Siamo in presenza di una poesia ‘confessional’ in cui l’autore parla dei propri cari, della morte, di luoghi conosciuti e porta avanti un’onesta auto-analisi, che cerca di capire la natura della ricezione personale della realtà. Le ambizioni giovanili si scontrano con quello che il poeta è diventato e soprattutto con la realtà della vita, fatta di amori e amicizie perdute (proprio nella nostra poesia e in The Short Straw troviamo il lamento per la perdita fisica di una persona cara), di occasioni ‘sfuggite’ (e solo allora apprezzate), ma senza cadere nell’autocompiacimento o in un rimpianto ipocrita. Tutta la raccolta è costellata di immagini marine (l’acqua, le città di mare, la barca), come si vede in Brighton Return, in Galatea, ma anche in altre poesie. Quelli di Jenkins sono componimenti eruditi, pieni di riferimenti a poeti, scrittori, musicisti (Larkin, Sartre, Baudelaire, Debussy, Beethoven ...), dallo stile elegante, con molte rime, parole composte e versi dalla lunghezza prosastica, ma sempre familiari e mai pedanteschi.

 

Marta Penchini

 

 

 

 

 

BRIGHTON RETURN

 

A few days off for some fool conference,

and now you drag your hangover round what remains

of the place you wasted five of your best years in –

getting stoned on grass, going out and getting beers in

and getting up to start again at three

and getting off in bedsits, and not getting AIDS –

recalling last night’s ‘think tank’, and the nonsense

talked by G–, and how everyone seemed sober

except for you. The pale sun of late October

warms the stuccoed crescents, red-brick lanes,

shutters of Refreshment Rooms, boarded-up arcades,

 

 

 

 

 

and you remember how it was you found each other

in this past-its-best, out-of-season seaside town:

South London boys both mad to make your mark,

as hungry, fierce and hampered as the shark

in the sea-front aquarium, twitching for the sea.

You shared its rooming houses and its thousand pubs;

to you he was the chosen one, the brother

you’d never had, and you grew inseparable here,

among the swells of salt, wet rot, stale beer,

walking into wind and fine rain that would drown

the words you threw away like twice-smoked stubs.

 

 

 

 

 

Now he’s dead, you scan the all-absolving waters

as, once, you watched a speck far out, beyond the pier,

grow larger, more like him each time it rose and dipped

(always so far removed, so clenched and clipped)

when he swam back in towards you, waiting: he,

so like and unlike you – why should he have drawn

the short straw? Why should he – a wife, a son, two daughters...

while you... Gull-cries and a sudden rasp

of chains, your own life slipping from your grasp –

at the Mini-Golf you watch a golf-ball disappear

into the gulf below your feet, below the little lawn,

 

 

 

 

 

and shiver. Go on, past the wrought-iron terraces

of the prom, the storm-lashed, ocean-liner blocks,

blistered beach-huts, silent funfair, Family World’s

deserted paddling-pool – to the place that claimed your

girl’s

unhappiness and yours: a ‘clifftop eyrie’ –

a bay window, a patched and paper-peeling double room

where the gas fire sighed all winter at your carelessness,

the kitchen where you stirred hot drinks to nurse

her colds, her aches and pains, her ‘curse’;

past the wind-battered, sea-blue-painted box

(Lifeguard, First Aid) to the cliff-walk, ‘The Coombe’,

 

 

 

 

 

that sandy, scrubby, gorse-dotted bit of ground

where you got her to agree the thing had died

and she ran off in the rain to cry. Rigging whines

and rattles in the yacht marina where you wrote those lines,

‘through wood and weeds, washed up’ (alliteratively)

‘like bottles, torn shoes and a plastic cup, we walked

without

a word, and parted’; a giant claw dug up the drowned,

gouged up the sea-floor gravel, and you’d wake

with plaster in your hair, survivors of an earthquake,

or wet and raw, sea-creatures on a slab – she cried

to see these too. Back now, to the gulls’ angry shout,

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

the littered beach, the breakwaters’ ancient callouses;

last light on the grimy swell, the scum-topped surf.

Mast-lines clink in moorings that a salt wind scours.

Remember how you used to stand for hours,

hunched deep in your collar, staring out to sea?

The flag with ‘Lifeguard’ flaps, a swirling tidal wash

slaps the pier’s once pearl-white, rusting palaces;

slate-grey breakers chase the foam-tossed shingle

up the shore. Forty, scalding-eyed and single,

you turn back to the town that was your ‘turf ’.

What now? Refreshments? First Aid? Hours of tosh?

RITORNO A BRIGHTON

 

Alcuni giorni di ferie per un convegno idiota,

e ora ti trascini dietro i postumi della sbornia in ciò che

rimane

del posto dove sprecasti cinque dei tuoi anni migliori –

fumando erba, uscendo e comprando birre

e alzandoti per cominciare ancora alle tre

e scopando in topaie, e non beccandoti l’AIDS –

ricordando il ‘raduno’ della scorsa notte, e le fesserie

dette da G–, e come ognuno sembrava lucido

a parte te. Il sole smorto di fine ottobre

scalda le strade stuccate a semicerchio, vicoli di mattoni rossi,

persiane delle Sale Ristorazione, sale giochi coperte di assi,

 

 

 

 

e ti ricordi come fu che vi trovaste

in questa cittadina di mare scaduta, fuori stagione:

due maschi sudlondinesi entrambi pazzi di farsi conoscere,

affamati, feroci e impacciati come lo squalo

nell’acquario sul lungomare che si dibatte verso il mare.

Divideste le sue camere ammobiliate e i suoi mille locali;

per te lui fu il prescelto, il fratello

che non avevi mai avuto, e diventaste inseparabili qui,

tra gli odori di sale, di muffa, e di birra svaporata,

camminando verso il vento e la pioggia fine che affogava

le parole da voi scartate come cicche due volte fumate.

 

 

 

 

 

Adesso è morto, scruti le acque che tutto assolvono

come, una volta, guardavi un punto lontano, oltre il molo,

farsi più grande, più come lui ogni volta che sorgeva e

sprofondava

(sempre così distaccato, così serrato e preciso)

quando ritornava a nuoto verso te che lo aspettavi; lui

così simile e dissimile da te – perché è toccato a lui?

Perché lui – una moglie, un figlio, due figlie...

mentre tu... I gridi dei gabbiani e uno stridore repentino

di catene, la tua stessa vita che dalle mani ti sfugge –

al Mini-Golf guardi una pallina da golf sparire

nel golfo sotto ai tuoi piedi, sotto al praticello,

 

 

 

 

e rabbrividisci. Avanti, oltre il ferro battutto delle file di

case a schiera

della passeggiata, i massi transatlantici sferzati da tempeste,

cabine piene di vesciche, lunapark silenzioso, la piscina

di Family World deserta – al posto che rivendicava l’infelicità

della tua ragazza e tua: un ‘nido sulla scogliera’ –

un bovindo, una stanza doppia rattoppata e scrostata

dove la stufa a gas sospirò tutto l’inverno per la tua noncuranza,

la cucina dove mescolavi bevande calde per curare

i suoi raffreddori, i suoi malanni, il suo ‘ciclo’;

oltre la scatola flagellata dal vento, dipinta blu-mare

(Guardia Costiera, Pronto Soccorso) al sentiero sulla scogliera, ‘The Coombe’,

 

 

 

 

quel sabbioso pezzo di terra a macchia cosparso di ginestrone

dove la convincesti che la cosa era morta

e corse via lei a piangere sotto la pioggia. Sartiame geme

e sbatacchia nel porticciolo per panfili dove scrivesti quelle

righe,

‘attraverso il legname e le erbacce, lasciati dal mare’ (allitterativamente)

‘come bottiglie, scarpe lacere e un bicchiere di plastica,

camminammo

in silenzio, e ci lasciammo’: un artiglio gigante dissotterrò

gli annegati,

sradicando la ghiaia del fondale, e vi svegliavate

con intonaco nei capelli, superstiti di un terremoto,

oppure bagnate e crude, creature marine su una lastra –

lei pianse

anche alla loro vista. Di nuovo, il grido furioso dei gabbiani,

 

 

 

 

 

 

la spiaggia insudiciata, gli antichi calli dei frangiflutti;

ultime luci sul mare morto fuligginoso, i frangenti lerci.

Cordame tintinna su ormeggi che un vento salmastro picchia.

Ti ricordi i tempi in cui stavi per ore,

rannicchiato nel tuo bavero, a fissare il mare?

La bandiera ‘Guardia costiera’ sventola, uno sciabordio

vorticoso

si scaraventa contro i palazzi del molo rugginosi, una volta

biancoperla;

frangenti grigioardesia rincorrono i ciottoli ravvolti di spuma

sulla sponda. Quarant’anni, occhi infuocati e scapolo,

ti giri verso la città che era ‘tua’.

E adesso? Al bar? Pronto soccorso? Ore di scemenze?

 

(Traduzione a cura di John Butcher e Marta Penchini)

 


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