A WOMAN ALONE:
AFTER READING ELIZABETH BISHOP
She finds balance in maps, small
geographies unwound. Their pliant
contours are translated like an ancient language
when travelled by the simplest means.
She writes to the hum of mosquitoes
and museums. And now, older,
to paint peeling on the front porch.
She cannot release her birth-accent
wrapped around her like an uncut cord.
She could tell you of being detained in Brazil
by the unripe fruit of the almond
or a little girl scribbling away in a mining town.
Her voice is a gentle caress around you.
She draws others to her like moths to the moon
or repels them with the same mask.
Her lovers are anonymous in the crackle
of static electricity surrounding her.
Yet, she remains without connections,
only another exotic story in the pages
of a yellowed National Geographic.
THE MYTH OF THE EXPATRIATE
Hemingway’s generation lived with abandon;
in the bull-ring, in the alleys of Paris, on safari.
In a chaotic city they posed for artists
or began affairs with strangers. They relished
poverty, scraping together meals, living on pennies.
They existed on alcohol-nights, coffee-days,
writing with machine-gun energy in cafés
and dingy rooms between lovers and adventures.
Departure dates lend passion to chance meetings.
Three weeks to discover every inch of a body,
four months to learn a city’s backstreets.
I have worked illegally in restaurants and bars, come
back smelling of stale smoke and burnt meat.
I free myself from the red tape of visas
only to be caught up in unforeseen emotions.
When I lose my sense of direction I return
to my notebooks full of addresses, foreign
phrases, borrowed quotes to retrace my steps.
Home is a furled map I sketch between my passport
stamps, poems and memories of kisses. I chart
the dangerous waters I have chosen to sail
and imagine dragons I have yet to behold.
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UNA DONNA SOLA:
DOPO AVER LETTO ELIZABETH BISHOP
Trova equilibrio nelle mappe, piccole
geografie srotolate. I loro contorni
pieghevoli tradotti come una lingua antica
se percorsi dai più semplici mezzi.
Scrive al ronzio di zanzare
e musei. E ora, più vecchia,
allo scrostarsi di vernice nella veranda.
Non può liberare il suo accento natale
che l’avvolge come un cordone non tagliato.
Potrebbe dirti d’essere trattenuta in Brasile
dal frutto immaturo del mandorlo
o di una bambina che scarabocchia in una città mineraria.
La sua voce è una lieve carezza intorno a te.
Attrae altri a sé come falene alla luna
o li respinge con la stessa maschera.
I suoi amanti sono anonimi nel crepitio
dell’elettricità statica che la circonda.
Ma rimane senza connessioni,
solo un’altra storia esotica sulle pagine
di un National Geographic ingiallito.
IL MITO DELL’ESPATRIATO
La generazione di Hemingway visse con slancio;
nell’arena, nei vicoli di Parigi, nei safari.
Posarono per artisti in una città caotica
o iniziarono amori con stranieri. Gustarono
la povertà, racimolando pasti, vivendo con poco.
Vivevano notti d’alcool e giorni di caffè
scrivendo con energia da mitraglia in bar
e squallide stanze fra amanti e avventure.
Le date di partenza infondono passione a fortuiti incontri.
Tre settimane per scoprire ogni centimetro d’un corpo,
quattro mesi per imparare le vie periferiche d’una città.
Ho lavorato illegalmente in ristoranti e bar, sono rientrata
odorante di fumo stantio e carne bruciata.
Mi libero dalla burocrazia dei visti
solo per essere presa in emozioni impreviste.
Quando perdo il senso d’orientamento ritorno
ai miei taccuini pieni di indirizzi, frasi
straniere, citazioni prese in prestito per tornare sui miei passi.
Casa è una mappa arrotolata che tratteggio fra i timbri
del mio passaporto, poesie e memorie di baci. Traccio le rotte
sulle acque pericolose che ho scelto di solcare
ed immagino i draghi che devo ancora incontrare.
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