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MILO DE ANGELIS, Sotto la scure, Milano, Sàturos 2002, s.i.p.

 

 

In Sotto la scure silenziosa Milo de Angelis isola quattro temi del De rerum Natura: la natura, l’angoscia, la morte e la malattia per associarli a «motivi musicali, con i loro movimenti e le loro variazioni » (De Angelis).

La traduzione di De Angelis è un légein che musicalmente tiene insieme il cerchio ritornante della natura lucreziana, agendo tuttavia su una materia che non è più nel grembo del tò zòon del Vivente. Se per Lucrezio la Natura è la legge degli atomi e ciò che da essa procede, se il divenire del Tutto è Nómos e Thánatos, la voce di De Angelis è quella di un poeta assolto da ogni legge metafisica (quando invece l’atomismo lucreziano seppur non provvidenzialistico non di meno è lex). Ciò che in Lucrezio è vortice di atomi che si scontrano, in De Angelis diventa paesaggio lunare, desertificazione, musica di una materia che, spogliata di tutto, plotinianamente si rivela nulla. La materia di De Angelis arde di una passione smisurata e sconosciuta al mondo greco-latino: la passione della distanza, la passione per quella che Heidegger chiamerebbe differenza ontologica, ovvero lo scarto fra essere e ente che ritorce l’apophantikós nella sua impossibilità. Da quale distanza è possibile dire quello che segue, chi può dirlo? «Vedrai l’eterno agitarsi dei corpi nel vuoto» (p. 17).

E da quale prospettiva, per quale occhio, la seguente visione? «Guarda il mare, la terra, il cielo: tre forme della natura, tre masse di atomi, tre cose viventi. Ebbene, basterà un solo giorno a distruggerle. Sì, un solo giorno: crolleranno, finalmente insieme a tutta la materia, in un fragore assoluto» (p. 23).

Impossibilità che diventa produttiva, mater polisemica, generatrice di linguaggio: (ri)diventa paradossalmente natura. Natura sui generis, o meglio: extra genera. «Osservando il cielo e la terra, anche senza conoscere l’origine delle cose, posso affermarlo: il mondo non è stato creato per noi». E di qui il «come» dell’angoscia, della paura di Nulla: la belva ha paura della natura, mentre l’uomo si angoscia del nulla esibito dall’eclissi del naturale come dimora che accoglie. L’angoscia «ci domanda a sé, ci pretende»: «Forza, devi sbrigarti, devi arrenderti al tempo, devi morire». L’angoscia assedia la vita sfigurata e indebolentesi, la scava e, con una contiguità a tratti ironica, dona senso a partire dalla disperazione di Senso. E il Senso è figura di un’angoscia che non è mai inerte non senso. A proposito di De Angelis scrive Luigi Tassoni: il non senso è carico «di tracce di un surplus che nel discorso si amplifica piuttosto che ridursi all’insensato in sé e per sé». Il grado zero è il prisma dell’angoscia che scompone il Senso in policromia, disseminazione, esplosione.

In De Angelis, il «come» dell’angoscia è legato al vuoto pneumatico della modernità talmente assolta dal Tutto da non potersi che legare al proprio sgomento di libertà.

Terzo motivo di un Weltschmerz, il «chi» dell’angoscia è l’amore che De Angelis rende voce-corrispettivo uditivo della stasi allucinata della «pupilla tragica di Lucrezio». Se per Lucrezio, fedele ad Epicuro, l’amore è inganno che distoglie dal piacere catastematico cui il sapiente deve tendere, in De Angelis diventa forza desiderante e distruttiva, nevrosi dei sensi e ferita. «Alla fine, non appena il desiderio accumulato nel sangue trova uno sbocco, il loro agitarsi ha una pausa. Ma poi li riprende la stessa rabbia e la stessa frenesia. Non sanno cosa cercare e non possono trovare rimedio al loro male. Si decompongono così, in una misteriosa ferita».

Un amore carnefice e fisico, fatto di respiro cadenzato su cadute, di calamità, di semi di una morte concupiscente. «Oscuri impulsi li spingono ad aggredire il corpo. [...] Sperano sempre che l’essere capaci di accendere una fiamma così tremenda sia anche in grado di sopirla: illusione!» (p. 67).

Infine, in Lucrezio la malattia che colpisce lo stolto è sciagura, quella che affligge il sapiente è l’occasione perché la sapienza rifulga scacciando un timore ingiustificato. La malattia è invece trattata da De Angelis come teorema e come rivelazione, ovvero come due contraddizioni patentemente esibite l’una tramite l’esistenza dell’altra. «Il male li inghiottiva. Corpi essiccati» (p. 81). «Altri invocavano una briciola di vita, supplicavano di esistere ancora un giorno» (p. 83). La peste di Atene coincide con il senso del disfacimento, rivelazione che possiede l’evidenza d’un teorema (la peste è ineluttabile) e teorema che ferisce con la violenza di una rivelazione (la peste è ineluttabile per me).

E tutto questo fino a che «vedrai l’eterno agitarsi dei corpi nel vuoto», fino a che vedrai i primordia caeca, che compongono le stelle e la terra, il tempo e gli uomini.

«Quattro stagioni, senza una quinta per decidersi per una di esse» (Celan). Il luogo inesistente, l’impossibile quinta stagione che fa valere il suo nulla come intralcio e che rende inattuabile ogni decisione, è la quinta stagione sotto il segno della quale crediamo essere la poesia di De Angelis.

Essa sta negli accenti, nella monodia sospesa e ripresa, negli oblii necessari e senza misericordia, in un Lucrezio esposto ad una dimensione atopica eppure realissima, ucronica perché non più cadenzata sulle stagioni della natura; in De Angelis, anzi, la natura è divenuta una delle stagioni, insieme all’angoscia, alla morte, alla malattia, non è più lo spazio che, grecamente, contiene e serba tutte le altre.

Il confronto con Lucrezio è sempre un’infrazione, una personalissima presa di posizione, una violenza che suscita un páthos sconosciuto all’autore latino.

I trentasei frammenti scelti da De Angelis in Sotto la scure silenziosa hanno ricreato l’increato Lucreziano a partire dalla misteriosa alterità celaniana, «deserto buio di atomi, nulla», e ciò che resta è lo stupore per una voce inaudita.

 

(Lorenzo Chiuchiù)


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