« indietro POESIA COREANA
Inauguriamo questa nuova sezione per festeggiare la collana del «Center for Comparative Studies of Korean Poetry», promossa dall’Università di Siena con la sponsorizzazione della Korean Foundation di Seul e stampata dall’editore tedesco Peperkorn, che dal 2000 ha reso disponibili per la prima volta in traduzione inglese opere fondamentali della letteratura poetica coreana. Per l’occasione presentiamo un saggio di I Deug-Su, direttore della collana, sul rapporto ideologia-letteratura nella storia culturale della Corea.
I Deug-Su
Le fonti per la storia della cultura coreana(1)
La storia coreana non è antica. Quando Agostino, Ambrogio di Milano e altri grandi Padri della Chiesa erano in piena attività, la penisola coreana e la Manciuria erano appena uscite dallo stato tribale per dar origine ai 3 regni che rappresentano l’inizio dell’era storiografica in Corea. È solo un mito l’antica fondazione del regno Cho-Sun più di 3000 anni fa nella regione intorno all’umbilicus mundi, che sarebbe il monte più alto di Corea, un vulcano spento situato al confine tra la penisola e la Manciuria. Il vulcano si trovava al centro del territorio occupato anticamente dai Coreani: infatti la dimensione geografica di uno dei 3 regni, Ko-Gu-Ryo, si estendeva dalla parte settentrionale della penisola alla Manciuria. Il mito della fondazione di Chosun è attestato per la prima volta nel secolo XII. L’epoca dei 3 regni dura fino al secolo VII, quando Sil-La, uno di essi, unifica gli altri due. Questa unificazione segna nella storiografia coreana una svolta importante per l’identità nazionale della Corea di oggi. Infatti nella penisola avvenne la successione da Sil-La al regno Ko-Ryo (da cui deriva l’attuale denominazione Korea) e da quest’ultimo regno al regno della dinastia I che durò fino al 1910. Durante il periodo del regno Ko-Ryo risorse il regno settentrionale sotto il nuovo nome di Par-Hae che tuttavia non ebbe una lunga vita. La scomparsa dei due regni settentrionali, Ko-Gu-Ryo e Par-Hae, fu così repentina che anche i contemporanei rimasero sorpresi, come testimoniano gli storiografi dell’ultima dinastia, che tentarono di recuperare attraverso nuove redazioni e revisioni dei documenti storici una completa visione della storia coreana, in cui si cercava di includere la parte della Manciuria, ma non riuscirono a realizzare questo progetto per mancanza di documentazione. La storiografia coreana comincia sostanzialmente nel secolo XII e si limita alla penisola. La civilizzazione in Corea diventa significativa per l’intera penisola con l’introduzione del Buddismo attraverso la Cina, che avviene durante il periodo dei 3 regni a partire dal secolo IV. Il Buddismo approda al Nord, scende poi all’Ovest, successivamente all’Est, dove raggiunge una maggior affermazione, che si rafforza ulteriormente attraverso l’unificazione della Penisola appunto sotto il regno sud-est, cioè Sil-La, in cui si intreccia anche con il Confucianesimo. La giovane civiltà coreana si connette in tal modo con l’antica cultura cinese e compie un percorso assai complesso, il cui itinerario si delinea in modo esemplare dalle fonti riunite con un’accorta scelta e tradotte nello studio che stiamo presentando.
Un breve cenno alla storia coreana
Da quando perde la parte continentale della Manciuria, la Corea diventa praticamente un vassallo della Cina per trovarsi poi ad essere teatro delle invasioni mongole e giapponesi. All’inizio dell’unificazione realizzata da Sil-La in alleanza con la Cina nel secolo VII, la Cina della dinastia Tang occupò la Manciuria e una parte settentrionale della penisola. Sil-La ebbe molte difficoltà a recuperare almeno l’intera penisola e dovette sottoporsi ai forti condizionamenti cinesi. Il regno successivo Ko-Ryo ebbe l’ambizione di ripristinare la potenza del regno settentrionale Ko-Gu-Ryo, traendo da questo ultimo anche la denominazione del regno, chiamato appunto Ko-Ryo in forma accorciata, ma non riuscì a liberarsi dal legame di vassallaggio con la Cina che si era già installato nell’epoca precedente. Nel secolo XIV, nonostante il fresco ricordo delle devastanti invasioni mongole, si tentò un’ultima volta di realizzare il sogno anacronistico dell’antica gloria continentale contro la nascente dinastia Ming della Cina. Tuttavia il tentativo non andò oltre il fiume che delimita il confine settentrionale della penisola: infatti il generale I che doveva guidare la spedizione in Cina fece retromarcia insieme all’esercito per abbattere il regno Ko-Ryo e fondò l’ultima dinastia che durò fino al 1910, l’anno di annessione del regno coreano al Giappone. La Corea aveva avuto con il Giappone contatti commerciali e rapporti conflittuali per pirateria e per azioni militari già a partire dall’ultimo periodo del regno Ko-Ryo, nel secolo XIII. Le invasioni a cavallo tra i secoli XVI e XVII furono massicce e costrinsero la Corea ad avvicinarsi sempre più alla Cina. In seguito la Corea venne a trovarsi nella situazione di cuscinetto per le potenze limitrofe, tra le quali il Giappone ebbe la meglio. La ben nota faziosità dei coreani divenne un fenomeno dominante durante la dinastia I, lasciando profonde impronte nella mentalità del popolo coreano, che si rivelarono radicate nelle situazioni più recenti di scontri tra i filo-cinesi, i filogiapponesi e i filo-russi, cui si aggiungevano i filo-americani, ma sono ancora oggi vive in vario modo sotto ogni possibilità di divisione e a qualsiasi livello. La Corea ottenne l’indipendenza al termine della II guerra mondiale, nel 1945, dopo 35 anni di dominio giapponese, ma fu investita subito dopo da enormi disordini e conflitti interni, seguiti poi dalla guerra coreana e dalla dittatura dei primi regimi coreani, civile e militare, sotto le costanti minacce di un nuovo conflitto tra il sud e il nord.
Nella storia coreana non mancano eroi nazionali sul piano politico e importanti eventi culturali, tra i quali il più rilevante è senz’altro l’invenzione dell’alfabeto fonetico coreano sotto la guida di Sae-Jong il Grande, il quarto re della dinastia I. Tuttavia un aspetto particolarmente significativo e poco studiato della storia coreana è a mio parere l’utopismo politico, che si fonda sulla fede nell’Assoluto di stampo buddista e confuciano, almeno in riferimento all’epoca degli ultimi due regni, che si conoscono meglio. Anche in Occidente naturalmente non sono mancati gli utopismi: fra questi l’impostazione cristiana, ad esempio, ebbe una componente utopica che però si dimostrò spesso flessibile alle esigenze politiche. Questa flessibilità mancava in Corea, indirizzando il paese sempre più verso l’isolamento e chiudendolo in uno stato paragonabile a quello di una pentola a pressione per i fermenti interni che aumentavano continuamente. Queste situazioni si svilupparono in vario modo, perdurando fino ad oggi. Per comprenderle meglio sarebbe importante risalire alle loro radici attraverso l’esame delle fonti, che sono tuttavia di difficile accesso e di difficile lettura anche per gli specialisti coreani. Perciò le traduzioni delle fonti raccolte in questi volumi e i commenti premessi ad esse offrono un importante contributo. Il Buddismo in Corea raggiunse nel secolo VI una prima significativa affermazione come ideologia politica con delle elaborazioni dottrinali ottenute attraverso le sintesi tra le diverse scuole buddiste. Una prima significativa sintesi si realizza nel secolo VII nei commenti del bizzarro monaco Won-Hyo. Un po’ più tardi Ui-Sang, dopo un lungo soggiorno di studio in Cina, dà inizio alla sua scuola, focalizzando l’attenzione nella fusione tra l’unità assoluta del principio metafisico e la molteplicità del mondo fenomenico, le quali si compenetrano, costituendo la rappresentazione universale della mente suprema del Buddha. Questa visione unitaria, quando si applica all’idealizzazione del rapporto armonioso tra l’individuo e il regno o tra il popolo e il re, diventa un’ideologia politica, che comporta anche la sanzione sacra dell’autorità regia e della sua emanazione centrifuga nell’amministrazione del regno. Del resto tale ideologia giustifica pienamente uno dei 5 precetti che il Buddismo aveva imposto fin dall’ingresso in Corea, cioè il divieto di fuga in guerra. In seguito l’implicazione politica del Buddismo comincia ad essere sostituita dal Confucianesimo che subentra gradualmente, rivelandosi più efficiente per la funzione e le istituzioni del regno. In questo contesto il Buddismo trova una via di sviluppo nella fede esoterica nella salvezza individuale indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, guadagnando anche la fede popolare, ma anche la contaminazione di credenze indigene. È interessante il fatto che ad indirizzare il Buddismo verso questa direzione contribuirono grandi monaci di origine umile, quali Hye-Gong, figlio di schiava, e Ung-Myong, un altro figlio di schiava. La fede esoterica trova un terreno fecondo in particolare nella scuola della Meditazione (cosiddetto Zen in giapponese e Sun in coreano), che si opponeva alle strumentalizzazioni politiche della fede. La medesima scuola si diffondeva rapidamente presso il popolo ed ebbe notevole fortuna anche presso la corte. Tuttavia anch’essa non riesce ad evitare del tutto l’interesse politico che gli aristocratici provinciali hanno nell’aderirvi per opporsi al potere centrale. In ogni caso la fede nella salvezza individuale si radica sempre più in profondità in tutti gli ambiti buddisti, così che il destino della dinastia e dell’intero popolo si affida all’aiuto del Buddha. In questa situazione nel regno Ko-Ryo, tra i secoli X-XIV, il Buddismo ritorna ad essere dominante e viene ad intrecciarsi con il Confucianesimo, con il Taoismo, con la geomanzia e con lo sciamanesimo indigeno. Si tratta, per l’eterogeneità delle credenze, dell’epoca più eclettica che la Corea abbia avuto nella storia. Il collante delle diverse correnti religiose o filosofiche fu la fede nell’Assoluto. Le virtù morali fondamentali che avevano in comune erano la pietà, la lealtà, la sincerità, la frugalità, ecc., ma la fede nell’Assoluto significava fondamentalmente la devozione della mente pura o vuota e l’osservanza sincera ai valori assoluti. Tra gli atti devozionali rientravano anche la ricerca e la trascrizione dei libri sacri, secondo la tradizione risalente all’epoca anteriore. A questo proposito è interessante la precisa procedura rituale come atto di devozione e di preghiera, testimoniata nella prefazione alla Scrittura della ghirlanda di fiori che si può leggere in questo studio: «La copiatura incominciò il primo giorno dell’ottavo mese del tredicesimo anno, kabo, di T’ien-pao [23 agosto 754] e fu completata il quattordicesimo giorno del secondo mese dell’anno successivo, ulmi [30 marzo]. Uno che fece voto di copiare questa scrittura è il Maestro del Dharma Yongi del Monastero di Hwangyong. I suoi scopi erano ripagare l’amore dei genitori e pregare per tutti gli esseri viventi nella sfera del dharma per giungere al sentiero del Buddha. La scrittura viene composta come segue. Prima, acqua profumata viene aspersa attorno alle radici dell’albero del gelso con la corteccia per la carta, così da accelerarne la crescita; la corteccia viene poi staccata e pestata in modo da ricavarne una carta con la superficie pulita. I copisti, gli artigiani che fanno il pezzo centrale del rotolo e i pittori che disegnano le immagini dei buddha e dei bodhisattva ricevono tutti l’ordinazione di bodhisattva e osservano l’astinenza. Dopo che si sono liberati, hanno dormito, mangiato o bevuto, fanno un bagno in acqua profumata prima di tornare al lavoro. I copisti sono rivestiti di nuovi abiti immacolati, calzoni sciolti, un copricapo semplice e una ghirlanda da deva. Due ragazzi vestiti di azzurro aspergono acqua sulle loro teste ... ragazzi vestiti di azzurro e musicisti suonano. Le processioni verso il sito della copiatura sono precedute da una persona che asperge acqua profumata sul loro sentiero, un’altra che sparge fiori, un Maestro del Dharma che reca un incensiere e un altro Maestro del Dharma che canta versi buddisti. Ognuno dei copisti reca incenso e fuori e invoca il nome del Buddha a mano a mano che procede. Raggiunto il sito, tutti prendono rifugio nei Tre Gioielli (il Buddha, il Dharma e l’Ordine), fanno tre inchini e offrono la Scrittura della ghirlanda di fiori e altre ai buddha e ai bodhisattva. Poi, siedono e copiano la scrittura, fanno il pezzo centrale del rotolo e dipingono i buddha e i bodhisattva. Così ragazzi vestiti di azzurro e musicisti puliscono ogni cosa prima che il pezzo di una reliquia sia posto nel centro. Ora io faccio voto che la scrittura copiata non si corrompa fino alla fine del futuro, anche quando un grande chilocosmo sia distrutto dalle tre calamità, questa scrittura sarà intatta come il vuoto. Se tutti gli esseri viventi avranno fede in questa scrittura, essi testimonieranno il Buddha, ascolteranno il suo dharma, adoreranno la reliquia, aspireranno all’illuminazione senza ricadere nel vizio, coltiveranno i voti del Bodhisattva Universalmente Degno e raggiungeranno la buddhità. [Seguono i nomi delle diciannove persone: un artigiano della carta, undici copisti, due artigiani creatori del pezzo centrale, quattro pittori e il redattore del titolo della scrittura]» (I, 194-195). Queste attitudini nell’epoca di Ko-Ryo si traducono in imprese grandiose di raccolta dei testi canonici del Buddismo (Tripitaka) in tutto l’Estremo Oriente. Il monaco Uy-Chun realizzò questa raccolta e anche un supplemento delle opere degli esegeti e autori cinesi. Il catalogo del Supplemento comprendeva 1010 titoli in 4740 rotoli. Tutti i testi raccolti furono poi incisi sui blocchi di legno, matrici per la stampa. Il lavoro d’incisione durò circa 70 anni, cominciando dal 1011 nel pieno dell’attacco dei «barbari» di Manciuria. I blocchi di legno in seguito andarono perduti per un incendio durante un’altra invasione dei Mongoli nel 1231. I testi canonici furono di nuovo incisi in 15 anni tra il 1236 e il 1251 senza però poter realizzare la nuova incisione del Supplemento, di cui è trasmesso il catalogo. Quest’ultima incisione fu intrapresa come la precedente in atto di fede e di preghiera per implorare al Buddha la difesa dai Mongoli. 81.000 blocchi di legno furono incisi e sono conservati ancora presso un celebre tempio in mezzo ad una catena di altissimi monti del sud. A proposito della fede è interessante la sintesi che Ji-Nul nel secolo XII operò tra la scuola della Meditazione e quella della Scrittura della ghirlanda di fiori. Come si sa, la scuola della Meditazione mira all’illuminazione improvvisa o al risveglio improvviso. Egli sostiene che questa non è altro che un’illuminazione innata nella mente. La mente tuttavia va educata gradualmente attraverso lo studio delle dottrine per recuperare la piena fede nella propria divinità. Dunque la fede è la chiave della sintesi di Jinul, che scrive infatti nel Commento alla Scrittura della ghirlanda di fiori: «La fede è la sorgente della vita e la madre di tutte le qualità meritevoli. Essa nutre tutte le facoltà sane. Anche i testi della Coscienza Assoluta dicono: ‘La fede è come un cristallo che può purificare l’acqua torbida’. È chiaro che la fede è all’avanguardia per lo sviluppo di miriadi di qualità sane. È per questo motivo che le scritture buddiste iniziano sempre con ‘Così appresi...’, un’espressione volta a suscitare la fede» (I, 394). L’integrazione del Confucianesimo nel mondo buddista avvenne senza conflitti nel regno Ko-Ryo, anche perché, come abbiamo visto, il Buddismo consolidò la propria sfera nell’ambito interiore di spiritualità (a cui anche il Taoismo concorreva, perché era un atteggiamento filosofico mirante allo spirito di libertà individuale), mentre il Confucianesimo interessava l’etica sociale e le organizzazioni amministrative. I punti d’incontro tra il Buddismo e il Confucianesimo si trovano, oltre che nel comune riferimento alle virtù fondamentali, nell’attenzione allo studio e all’educazione. Tale attenzione diventava un’importante attitudine generale non solo presso le famiglie aristocratiche, ma anche presso il popolo, anche perché gli esami pubblici di corte furono la via principale per la carriera o per l’emancipazione da un ceto ad un altro più alto, esclusi solo quelli per gli alti uffici riservati ai figli legittimi dei nobili. In queste circostanze si idealizzava al massimo lo studio e si creavano anche dei miti di talenti prodigio, ma era notevole la pressione dei genitori: si preparava soprattutto un contesto familiare idoneo per lo studio, riservando rispetto e riverenza a chi studiava, secondo la consuetudine confuciana. Mentre quest’attitudine cresceva ulteriormente con l’introduzione del Neoconfucianesimo di Chu-Hsi (1130-1200) verso la fine del regno Ko-Ryo a cavallo tra i secoli XIII e XIV, il Buddismo diventava bersaglio di ostilità dei Neoconfuciani quasi come una conseguenza inevitabile, dal momento che il principio confuciano di razionalità che regola la vita di questo mondo si assolutizza sul piano metafisico sulla base del Neoconfucianesimo, che è intollerante nei confronti di qualsiasi altra dottrina o fede che rinneghi questo mondo. Questa intolleranza non era un fenomeno isolato coreano, ma in Corea era assai più rigorosa che altrove per la rigida fede nelle proprie dottrine. Il concetto di principio assoluto del Neoconfucianesimo è un concetto metafisico, da cui discende l’esistenza della mente e di ogni altro elemento della natura, compresi il cielo e la terra. Ma l’umanità si pone al centro dell’universo per la sua funzione di contenere in sé la forza vitale celeste, cioè il principio positivo, e la forza vitale terrestre, cioè il principio negativo. Perciò i pensieri e i sentimenti che nascono nella mente hanno una precisa ragion d’essere e non vanno eliminati, a differenza di quanto predicavano i principi buddisti che miravano a svuotare la mente. La mente va solo riordinata alla rettitudine, alla giustizia e ad altre virtù senza alcun rinvio al mondo dell’al di là. In questa prospettiva si spiegano la polemica e l’ostilità dei Neoconfuciani nei confronti del Buddismo e del Taoismo. L’atteggiamento dei Neoconfuciani si radicalizza ulteriormente durante il successivo regno della dinastia I (1392-1910) con un maggiore impatto sulla società sotto l’istanza o fede utopica nei valori confuciani e nelle istituzioni attuate sulla base di essi. La dinastia I si organizza infatti fin dalla fondazione secondo il criterio neoconfuciano. L’educazione assume maggior importanza. È emblematico il fatto che s’inserisce l’ascolto quotidiano delle lezioni confuciane tra i consigli rivolti al re: «Il Vostro servitore esprime rispettosamente il desiderio che, nonostante l’eccellenza dei Vostri talenti naturali o l’inadeguatezza degli studiosi confuciani, Vostra Maestà assista ogni giorno alle lezioni reali e, con mente libera da pregiudizi, oltre che accompagnata da un’umile risoluzione, si dedichi agli studi. Che possiate non sospendere mai le lezioni, neppure per un solo giorno! Nel giorno in cui doveste sospenderle per un qualunque motivo, è nondimeno appropriato che riceviate i maestri, li informiate direttamente e poi li congediate» (II, p.472). I Neoconfuciani miravano a creare un governo perfetto sotto un sovrano virtuoso. Tuttavia il loro idealismo, dopo l’iniziale entusiasmo, si perse in una mera precettistica, lasciando comunque impronte durature nei secoli successivi fino all’apertura del regno ai contatti con l’Occidente, che avvenne nella seconda metà del secolo XIX. Il regno rimase chiuso quasi ermeticamente fino ad allora nei propri ideali. La chiusura era favorita anche dall’impostazione della politica economica, che si basava quasi esclusivamente sull’agricoltura, esaltata secondo la morale confuciana della frugalità. Infatti il lavoro nei campi rappresentava un banco di prova di questa virtù, mentre il commercio era basato sull’opportunismo disonesto e su profitti occasionali. La proliferazione delle scuole pubbliche e private, avvenuta sotto la spinta dell’idealismo confuciano e anche sotto la necessità di avere valenti candidati agli esami pubblici, ebbe a lungo andare svariate conseguenze negative: tra l’altro studi sterili si limitavano all’imitazione dei classici cinesi; le scuole diventavano spesso covi delle fazioni politiche in reciproco conflitto che si scontravano con crescente accanimento. I letterati confuciani che dominavano la scena politica del regno erano veri campioni ben allenati a denunce, calunnie e pratiche di vendetta. Un importante fenomeno dell’ultima dinastia è l’interesse per la documentazione e per i libri. Gli archivi pubblici e le biblioteche erano istituzioni importanti, anche perché, grazie alla tecnica di stampa a carattere metallico mobile già in uso dalla fine del secolo XII in Corea, i testi da copiare a mano venivano stampati e distribuiti a vari centri scrittori e così venivano facilmente moltiplicati, pur mantenendo la consuetudine di copiatura a mano, che ha un significato religioso. La documentazione, strettamente legata all’interesse per l’educazione, riguarda principalmente opere letterarie, storie, cronache, ecc. che sono utili ai fini educativi. Per esempio presso la corte c’era un archivio regio, in cui si raccoglievano le cronache degli atti dei re, ma solo quelle ritenute esemplari per i posteri. Anche le storie delle fondazioni delle dinastie e dei regni o di altri soggetti venivano ripulite secondo il medesimo interesse. In queste storie episodi triviali non trovavano spazio, se non nel caso che fossero indispensabili per la narrazione di eventi importanti. Perciò i Neoconfuciani, quando lessero per la prima volta libri di storie occidentali ricolmi di fatti negativi, ne furono enormemente scandalizzati. Documentazione significava per i Neoconfuciani attualizzazione degli eventi passati, così come l’adorazione degli antenati significava recuperare la loro forza vitale, facendola scorrere nei posteri ed evitando così di perderla e di lasciarla svanire a causa della sua disintegrazione nel principio positivo e nel principio negativo. Secondo i Neoconfuciani il morto non rinasce in nessun’altra forma di vita e tanto meno approda alla sponda dell’al di là. La documentazione deve essere pura non solo per i testi, oggetti di trascrizione, ma anche per lo spirito impegnato nella medesima documentazione. Questo modo di considerare la documentazione non è diverso dal significato confuciano del rito di adorazione degli antenati e di altri, quali l’imposizione del copricapo, il matrimonio, il funerale, che nella purezza di forma e di spirito garantiscono la pace e la prosperità della famiglia incidendo direttamente sulla salute del regno. I libri genealogici che cominciarono ad essere prodotti nel primo periodo dell’ultima dinastia riassumono nell’unità familiare il credo confuciano appena descritto. Questo si può dire anche perché secondo il Confucianesimo l’ambito vitale dell’uomo è fondamentalmente la famiglia. I precetti confuciani riguardanti la vita di famiglia regolano con precisione tutti i rapporti tra i membri familiari, che si basano soprattutto sulla reciproca dedizione, sulla reciproca sincerità e sulla reciproca lealtà, e presuppongono la più stretta osservanza all’ordine gerarchico interno. Anticamente la gelosia della moglie veniva punita anche con la morte, ma nel regime neoconfuciano la moglie rappresenta l’autorità di chi detiene il ruolo portante della famiglia. La sua autorità rispetto alle concubine era assoluta. Shin-Suck-Choo, un eminente neoconfuciano dell’ultima dinastia, detta le regole per la conduzione della famiglia, tra le quali quella relativa all’istruzione delle donne prescrive: «La moglie è la compagna del padrone di casa e ha la direzione domestica nelle sue mani. L’ascesa e il crollo di una famiglia dipendono da lei. Di solito le persone sanno come istruire i figli maschi, ma non come istruire le figlie. Questo è sbagliato. La moglie deve essere leale e pura, misurata, duttile (e obbediente), oltre che sollecita. Ella bada esclusivamente alla sfera domestica e non si preoccupa degli affari pubblici. In alto, serve i suoceri; se non è sincera e rispettosa, non può adempiere alla sua devozione filiale. In basso, tratta bene gli schiavi; se non è gentile e benevola, non può guadagnarsi i loro cuori. Solo se è sincera e rispettosa nel servire i superiori e gentile e benevola nel trattare i subordinati tra lei e il marito c’è un affetto completo. In generale, dovrebbe essere esperta nei compiti femminili. Se non è diligente, manca delle capacità necessarie a guidare i suoi subordinati» (II, 542). Dunque la vita ordinata della famiglia consente e rafforza anche l’affetto coniugale. Le discordie familiari erano materia di pubblica punizione. Così anche il marito che maltrattava la moglie veniva punito pubblicamente. Atti scomposti e sconci in famiglia non erano permessi. Le condizioni di base per la buona convivenza familiare erano la frugalità e il rispetto da parte di ognuno del proprio codice di comportamento. La massima attenzione che i Neoconfuciani pongono per la famiglia ha un fondamento metafisico: il principio assoluto che governa l’universo, il mondo, la vita e la morte è un concetto trascendente e astratto, ma si può sperimentare solo nella mente umana attraverso i sentimenti e gli imperativi morali «categorici» (mi scuso di prendere in prestito il termine kantiano) che essa registra; in questa funzione la mente diventa il ricettacolo dell’energia vitale che gli antenati trasmettono. L’energia vitale degli antenati dopo la morte si disperde, come abbiamo visto, a causa della scissione della medesima energia nel principio positivo e nel principio negativo, scissione che appunto provoca la morte. La pietà e devozione filiale, mediante la sincerità e la purezza interiore e la correttezza dei riti che le esprimono, ricompongono il principio positivo e il principio negativo dello spirito degli antenati, recuperando così la loro energia vitale. In questo modo la mente quasi ricrea l’energia vitale degli antenati e in qualche modo anche il principio assoluto stesso. È interessante vedere che tra l’altro la sincerità, un comune concetto morale, si riveste di una semantica metafisica ed è emblematica dell’assolutizzazione dei valori confuciani presso i Neoconfuciani. Il modello della famiglia si applica a tutti i livelli fino al regno. Come la continuità ininterrotta della famiglia per le discendenze è una necessità assoluta, così anche la continuità della dinastia non deve interrompersi per il bene del regno e del popolo. Questo quadro filosofico rimase praticamente inalterato per secoli (e dura in qualche senso tutt’oggi) e contribuì sicuramente a mantenere per più di 5 secoli l’ultima dinastia che finì nel 1910 con l’occupazione giapponese. Il regno dell’ultima dinastia fu noto come un regno «eremita» con lo sguardo rivolto alla Cina, paese della cultura madre. Questo isolamento può essere determinato da fattori esterni, ma fondamentalmente è sostenuto dall’«integralismo» neoconfuciano dalla natura autosufficiente ed esclusiva. Nell’ultimo periodo di questo isolamento il Cristianesimo ebbe ampio successo in Cina, ma non in Corea, dove fu contestato dai Neoconfuciani che lo accostarono al Buddismo, in quanto ambedue le religioni rinnegano questo mondo e il corpo (sacro per i Confuciani) e mirano al Paradiso-Nirvana. Specialmente il Cristianesimo rinnegava la famiglia per amore di Dio. Inoltre per i Confuciani le azioni di buona volontà, fatte per guadagnarsi una forma migliore di vita nel rinascere, erano considerate motivate dall’egoismo e anche non responsabili delle proprie imperfezioni, che venivano addossate al Diavolo nello sforzo dell’ascesi. I Cristiani furono perseguitati a diverse riprese nel secolo XIX, quando i primi missionari predicarono l’esistenza del regno celeste e incoraggiarono tra l’altro le giovani a non sposarsi, perché erano spose di Cristo, dovevano cioè rimanere sterili. Questo discorso fu di fatto uno degli scandali che turbarono maggiormente i Neoconfuciani. La chiesa cattolica coreana si vanta di aver introdotto il Cristianesimo per spontanea volontà dei Coreani che avevano avuto primi contatti con i missionari in Cina, come è accennato brevemente anche in questi volumi. Tuttavia questa ipotesi va verificata meglio in altra sede.
Le osservazioni finora presentate sono una sommaria indicazione di quanto si può leggere nelle fonti raccolte in questi volumi, che in realtà mettono in luce le situazioni della storia coreana in prospettive ancor più complesse. I volumi non si limitano agli aspetti ideologici della tradizione coreana. Troviamo infatti svariati altri argomenti, che sono altrettanto interessanti e anche curiosi: miti, costumi, stramberie, prodigi, gigantismi fantasiosi, singolari episodi politici, ecc. Possiamo cogliere anche alcuni indizi del fatto che la società nell’impostazione utopica dei Neoconfuciani non è così monotona e non è solo votata alle virtù. Tuttavia la realtà che si nasconde sotto l’«integralismo» confuciano non emerge abbastanza dalle fonti raccolte in questi volumi. Questo dipende sicuramente dal fatto che nei volumi è dedicato poco spazio alla letteratura. Con questa osservazione non intendo assolutamente sminuire l’immenso lavoro condotto dai curatori e l’importanza che esso assume. Ma desidero far notare che nella loro scelta di fonti sembra quasi trapelare il retaggio neoconfuciano. In altri termini sono esclusi interamente, ad esempio, i componimenti satirici in prosa e in versi e i testi di contenuto satirico, che sono spesso anche invettive sconce e volgari e sembrano specchio di una società ipocrita: infatti la correttezza dei riti è facilmente controllabile, mentre la sincerità e la purezza della pietà o della devozione rimangono nel mistero, ma si rivelano agli occhi acuti. Tra i letterati ci furono spiriti critici, che tra l’altro ridicolizzavano le sterili produzioni dei Confuciani composte a imitazione letterale dei modelli cinesi. Possiamo leggere, per esempio, uno dei racconti satirici di Gang-Huy-Maeng del secolo XV, uno dei letterati più celebri dell’epoca: Uno studioso aveva una bellissima concubina. Un giorno essa desidera andare a trovare i propri genitori, che abitano lontano. Lo studioso, essendo molto geloso, non la lascia viaggiare da sola e la fa accompagnare da un servo idiota. Nonostante ciò, non si sente del tutto tranquillo, corre a vedere che cosa facciano la concubina e il servo e li scopre mentre si stanno divertendo sulla sponda di un fiume. Ma il servo spiega con aria d’innocenza che durante il guado del fiume la donna era inciampata nell’acqua, procurandosi sotto l’ombelico un taglio, ed egli stava cercando di curarlo. Allora lo studioso assicura il servo, dicendo con un atteggiamento di chi sta per esternare una grande dottrina che quella cosa c’era già prima che la donna inciampasse, e se ne tornò a casa sollevato, lasciandosi in tal modo prendere in giro persino dal servo idiota. Si scrivevano delle feroci invettive sotto l’apparenza di raffinati componimenti encomiastici in ideogramma cinese, che però suonano in coreano in senso del tutto opposto. Le satire e le invettive sono normalmente di carattere bonario e spesso burlesco e sono in origine battute scambiate per animare incontri gioviali tra gli amici senza pretesa di rettificare le storture della società. Esse sono però segni di uno spazio di libertà non del tutto soffocato dall’etica confuciana. Questa libertà sembra quasi irrompere nelle spropositate esagerazioni che le caratterizzano. In questo senso si può citare un altro tipo di svago letterario che consiste nell’autoironia. Si tratta delle pseudo-autobiografie che sono prosopopee, cioè personificazioni di svariati oggetti o elementi della natura. Tali narrazioni sono di carattere burlesco e hanno come protagonista il «Generalissimo sopra il cielo», il quale rappresenta il narratore stesso e la grandezza che questi attribuisce a sé. È bene chiarire che questa denominazione deriva dall’antica rappresentazione del maschio e della femmina, costituita da due pali infissi nel terreno: il palo, raffigurante il membro maschile, si chiama «Generalissimo sotto il cielo» e quello, simboleggiante l’apparato genitale femminile, si chiama «Generalissima sotto la terra». Entrambi sono oggetto di venerazione popolare per assicurarsi la fertilità della terra. In Corea questi testi si evitano tuttora, sempre sotto l’influsso confuciano, ma sono assenti anche in questi volumi redatti da studiosi che operano in Occidente. La maggior parte di questi studiosi sono di origine coreana. È interessante notare che persino questi sembrano ancora legati alla tradizione confuciana. Un altro importante genere letterario, poco studiato in Corea e del tutto sconosciuto in Occidente, riguarda i componimenti di autrici. Numerose poesie sono scritte dalle donne, non solo dalle nobildonne, ma anche dalle intrattenitrici che si chiamano Ghi-Seng e in giapponese Ghaei-Sha. Tra queste ultime è celebre Hwang-Jin-Yi. Le sue toccanti e delicate poesie esprimono con semplicità profonde riflessioni sull’amore e sulla vita in strofe di 3 versi ritmicamente accurati. È famoso l’episodio di un nobile che durante un viaggio di missione ufficiale si fermò alla tomba di Hwang-Jin-Yi e pianse perché non aveva potuto conoscerla da viva. L’attività letteraria delle donne diventa quasi esplosiva nei secoli XVIII e XIX. Finora sono individuati circa 1000 titoli di narrazioni, tra cui più di 30 sono romanzi fiume con più di 2000 pagine manoscritte. La maggior parte di queste narrazioni restano ancora inedite e meriterebbero un approfondito studio per conoscere meglio la tradizione coreana, in cui del resto si conoscono regine e celebri madri e spose. È indicativo anche il fatto che l’elitario gruppo di ragazzi selezionati tra le famiglie aristocratiche del regno Sil-La fu capeggiato da due bellissime ragazze. I ragazzi venivano truccati presumibilmente per uniformarli nell’aspetto ad esse. Questo gruppo elitario fu un vanto del regno Sil-La e anche della Corea di oggi. Infatti il generale più celebrato dalla storiografia coreana, Kim-Yoo-Sin, colui che unificò la penisola coreana sotto il regno Sil-La, fu uno di loro. In ogni caso il mondo delle donne nella storia coreana e in particolare sotto il regime confuciano è ancora tutto da scoprire. A proposito delle integrazioni letterarie che potremmo suggerire a questi volumi, tengo a precisare che sarebbe rischioso studiare i testi letterari non ‘canonici’ senza un’approfondita conoscenza delle situazioni ideologiche, per le quali questi volumi offrono un importante aiuto. Queste fonti, come abbiamo detto all’inizio, sono di difficile accesso e di difficile comprensione nelle versioni originali, scritte in maggior parte in ideogramma cinese e in un linguaggio ambiguo, sommerso dalla retorica tradizionale. È perciò assai opportuno anche per gli specialisti coreani rileggere queste fonti nelle versioni occidentali per i chiarimenti che la struttura logica delle lingue europee e il loro sostrato culturale comportano. In questo senso dobbiamo riconoscere l’importante contributo che le versioni inglese e italiana di questo studio offrono. In fine mi permetto di ricordare il problema della terminologia orientale di comune matrice cinese, usata nei volumi, che in numerosi casi risale al sanscritto. La terminologia diventa problematica, in quanto, com’ è noto, ogni paese di Estremo Oriente ha la propria pronuncia, mentre nelle traduzioni in altre lingue e in particolare in quelle di lingue occidentali si verifica spesso l’oscillazione tra diverse pronunce. Questa oscillazione costituisce motivo di impedimento nella lettura non tanto per i lettori occidentali, quanto piuttosto per i lettori orientali che hanno già assimilato la cultura orientale nella propria lingua. Occorrerebbe perciò segnalare in parentesi puntualmente le equivalenze nel glossario.
Un’ultima segnalazione. Per gli studi letterari in Corea non si è giunti ancora ad approfondire l’esame delle singole fonti negli aspetti paleografici, codicologici ed ecdotici, nonostante la maggior parte delle fonti siano manoscritte in «carta di riso». Il compito più urgente degli studiosi di letteratura coreana in Corea sarebbe quello di trascrivere e tradurre in coreano le fonti in ideogramma cinese che rappresentano più della metà di quelle reperite finora. Pochi si occupano dell’iter attraverso il quale i testi delle fonti sono giunti alle redazioni che si conoscono attualmente. Sarebbe importante anche solo presentare i dati noti e i problemi che restano ancora aperti, oltre che elencare le fonti usate nella Bibliografia, come è stato fatto utilmente in questo studio. I temi ecdotici e filolgici potrebbero costituire un interessante campo di studi comparati con la filologia occidentale che ha accumulato feconde esperienze nella sua lunga tradizione. Per questi studi si trovano stimolanti indicazioni in questi volumi.
(1) Discorso tenuto il 15 ottobre 2002 a Palazzo Strozzi in occasione della presentazione dei volumi: Fonti per lo studio della civiltà coreana, I-III, ObarraO edizioni, Milano 2000-2002 (traduzione di: Sourcebook of Korean Civilization, Columbia University Press, New York; Chichester, West Sussex, I (Part I, Part II, Part III); II (Part IV), ed. by Peter H.Lee). ¬ top of page |
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