« indietro PHILIPPE JACCOTTET, Nuages, con disegni di A. Hollan, Montpellier, Fata Morgana, 2002, pp. 31.
Meditazione poetico-filosofica vicina alla tradizione idealistica, questa plaquette di Jaccottet riconferma la sua ispirazione fortemente intimistica, legata alla natura come ‘pura entità’ e non come principio di imitazione; è questa, forse, la principale ragione del suo vissuto come «écart» di natura (la Svizzera) rispetto al peso culturale della sua lingua. Il pretesto della meditazione è costituito da una lettura di Thoreau, scrittore statunitense del XIX secolo, rappresentante di una mistica naturale che influenzerà il pensiero di Gandhi. Appare infatti sensibile, benché in un autore occidentale (occidentalissimo, diremmo oggi, in piena polemica ‘culturale’ tra due emisferi) l’ispirazione orientale di questi pensieri che Jaccottet accoglie a fondamenti della sua propriocezione metafisica, nell’interrogarsi sulle modalità del proprio Essere-al-mondo. La ricerca iniziale, nel pensiero di Thoreau che Jaccottet accoglie con una minima clausola (quel «presque» che è forse la chiave di volta di tutto il testo), è quella di un endon, spazio centrale di sé ancora incerto ed oscillante tra le due estremità certe e sensibili, la vita e la morte: «Vie et mort, ce que nous exigeons, c’est la réalité. Si nous sommes réellement mourants, écoutons le râle de notre gorge et sentons le froid aux extrémités; si nous sommes en vie, vaquons à notre affaire». Un topos tra i più praticati, quello del tempo come fiume, si ripropone qui in una chiave inedita: la consunzione del fiume stesso mediante l’azione umana del bere, sperimenta la finitezza di quella risorsa. Allo stesso atto, consapevole, di consumare la vita, l’uomo ravvisa la necessità di «boire plus profond»; ovvero, in un itinerarium rovesciato e solo apparentemente paradossale, quello di riconoscere nella testa, acumen mentis, un «organe pour creuser». L’operazione metaforica dello scavo nel fiume del tempo equivale, in qualche modo, ad una domesticazione della morte, il cui approssimarsi altro non fa che dare più senso all’Essere-nel-mondo. Tutta proiettata verso l’assolutezza semantica della parola «dernier», la quête di Jaccottet procede verso il riconoscimento di una maggiore forza delle cose, nel loro impatto con l’esistenza umana; la vicinanza ‘cronologica’ della morte trasposta ad un fenomeno prospettico attribuisce alla natura una sovra determinazione fenomenologica che annulla la distanza tra il soggetto e l’oggetto, fino a far percepire al soggetto stesso il calore metafisico del contatto. Avendo misticamente penetrato l’endon paradossale, ovvero il fine stesso di una ricerca filosofica tesa alla domesticazione della morte, Jaccottet riconosce che l’individuo ha senso nella sua essenziale ‘transizione’ e transitorietà testimoniale. Ed ecco allora, nella seconda parte, un’altrettanto paradossale ed esemplare parousía: quella delle nuvole. Elemento tematico principale del testo, esse fanno la loro apparizione in una giornata caldissima dove, come il soggetto stesso, sperimentano la loro dialettica di presenza-assenza, iridescente e irradiante. Sono, com’egli scrive, cirri, ovvero nubi del vento. Attraverso queste forme fugaci («majestés» contaminate dalla umana dissolvenza) egli coglie, sub specie naturae, l’effetto di un pneumaignorato, causa prima di ogni Essereal-mondo; attraverso lo «spectacle du ciel» egli osserva il miracolo del suo esistere senza il peso che lo schiaccia a terra: il destino delle nubi è quello di una fertilità «sans germes de mort». La nube, invenzione del vento, com’egli scrive, e sua stessa terrena manifestazione sposata all’umidore terrestre, provoca nel poeta ricettivo lo slancio entusiastico di una dipartita. Esse infatti si fanno, come l’uomo stesso di cui illustrano la modalità di Essere al mondo, mediatrici del rapporto con le cose mediante l’idea del soffio sustanziato che nella sua medietà esita tra la pioggia (la vita) e l’inesistenza. Ed ecco che il loro ‘approssimarsi’ (l’effetto prospettico del loro ‘schiacciare’ l’uomo alla terra, che ben colse Baudelaire), analogo a quello della morte, è un assalto affatto temibile, né aggressivo: la forma, il simbolo, incessantemente, si espande per tramutarsi nel non-essere. Attestazione di realtà e di esistenza «inépuisable» nella sua essenza fantasmatica, la nube scambia con l’uomo, i liquori sacrificali; pioggia, come lacrime e sangue, assicurano infine una viva continuità, certa in uno spazio mobile e fecondo qual è, nel suo limite accolto, la modalità umana dell’Esserci.
(Michela Landi)
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