« indietro HOWARD A. FERGUS, Volcano Song. Montserrat: Poems of an Island in Agony, Illustrations by Chadd Cumberbatch, London and Oxford, Macmillan 2000, pp. 87, £ 7.95.
Montserrat è un’isola con un trauma. Parte delle Leeward Islands, a sud est di Puerto Rico nel Mar dei Caraibi, è di origine vulcanica. Il 18 luglio del 1995, Soufrière Hills, inattivo da 400 anni, si risvegliò e cominciò una serie di eruzioni che hanno segnato la biografia, la storia, e la mitologia dell’isola per sempre. Tutto quello che si può raccontare di Montserrat si divide in un «prima» e in un «dopo». Prima del 1995, l’economia si basava sul turismo e sull’esportazione di componenti elettroniche e dei prodotti agricoli ceduti dal terreno allora coltivabile dei 100 kmq dell’isola. Prima del 1995 la popolazione ammontava a 12.000 abitanti, due terzi dei quali sono fuggiti dall’isola, se sfuggiti alla distruzione. Dal 1998 qualcuno ha cominciato a tornare, ma la mancanza di case e di terra coltivabile frena tuttora questa tendenza. La «step mother England», come la chiama Fergus nella poesia Relocation, ha stanziato 123 milioni di sterline per la ricostruzione dell’economia del suo minuscolo territorio di oltremare, ma è previsto che metà dell’isola resterà inabitabile per un altro decennio. In realtà, le prospettive future dipendono dalle intenzioni del suo soufrière, che Fergus, dando voce a un sentimento (e risentimento) collettivo, personifica nel libro e apostrofa direttamente. Nel giugno del 1997 un’eruzione catastrofica fece chiudere porti e areoporti, aggiungendo rovina alla rovina. Due mesi dopo Fergus scriveva Volcano Fallout, una poesia sulla cenere vulcanica, nella quale paragona il corpo malato della «politricks» dell’isola (un termine creolo, che combina la parola politics con la parola tricks, alludendo satiricamente ai trucchi e alla corruzione dei politici) alla cattiva digestione e ai conati di vomito del suo vulcano: «Fallout is the nature of the volcano; / rich with gas it burps and vomits / to relieve congested innards / spreading waste too big for pits / to bury; Montserrat soufriere / has the record for choler and fallout; / it polluts politricks, and party / tongue and teeth fallout». È evidente come uno dei segni del trauma dell’isola sia il tono predominante della sua letteratura. La poesia di Fergus è dominata dalla nota della recriminazione e del sarcasmo nei confronti di una natura matrigna quanto la madre patria. La si potrebbe definire una «letteratura del lamento». La distanza dagli eventi che la provocano è ancora troppo breve. In Happy Birthday Mr. Volcano – datata 18 luglio 1997, a pochi giorni di distanza dal suo stesso compleanno – Fergus apostrofa di nuovo, con ironia, Soufrière Hills, e gli dice che è troppo presto per cantare «Happy Birthday» insieme, perché: «I still have memories / of the dead in June to bury; we are one family». In un’altra poesia, che cita ancora l’eruzione del giugno del ’97, definendola la «Guerra di Giugno» del «tiranno amico», che ha malamente «arrostito» i corpi di quella famiglia, l’amarezza di Fergus emerge ancora più incontrollata e sottolineata dalle rime finali e interne: «and please / Mr. Volcano cease your indecision / better death than torture and derision». La tortura sta nel fatto che la vita degli abitanti di Montserrat è scandita dai capricci del vulcano e dal fatto che l’imprevedibilità delle sue intenzioni colora di ansia i loro gesti quotidiani. Il libro, con le sue accurate annotazioni delle date di composizione dei testi, diventa un diario poetico dell’attività di Soufrière Hills, e si apre infatti con Eruption, datata «August 1995» e scandita dall’anafora «Here in the valley», che apre le prime tre quartine e chiude la quarta e ultima, sigillando il componimento in una cadenza di preghiera. È chiara l’allusione alla Valle di lacrime, che Fergus però, nella sua rivisitazione del linguaggio religioso che utilizza, ribattezza «valley of fear», dando voce così a uno stato d’animo comune tra gli abitanti dell’isola (Christmas with Soufrière). Volcano Song è anche una cronaca poetica della storia di Montserrat, ed è forse la sua caratteristica di eterno ripetersi della sofferenza che lega così saldamente la natura alla politica, per Fergus come per Edward Archie Markham, l’altro, più grande poeta dell’isola. All’altra piaga di Montserrat, che ha dato luogo alla «disaster literature», Markham ha dedicato gli Hugo Poems. Hugo è il nome dell’uragano più tremendo della storia di Montserrat, che distrusse l’isola il 15 settembre del 1989. Nel gioco di parole di Fergus, è un Caino che corre disseminando il terrore: «terror/ travelling like hurry Cain» (At Tar River). È forse proprio a causa delle sue caratteristiche geografiche – la sua origine vulcanica e la sua collocazione in una delle maggiori «hurricane belts» – che la storia di Montserrat si presta facilmente a essere descritta attraverso la cronologia e cantata in cronache e diari poetici. Il commento satirico sugli eventi contemporanei, d’altra parte, cantato in un ritmo sincopato, è tipico del calypso, una forma musicale originaria della cultura caraibica, che ne ha contaminato la poesia. In Letter from Jamaica, inserti di pura oralità si mescolano allo Standard English per imitare un ritmo musicale, con effetto satirico: «students / the elite, turn up the heat / the monotonous beat, yuh head in yuh feet». L’invenzione linguistica prova ancora una volta di essere spontanea per la letteratura dei Caraibi, sempre a cavallo tra più idiomi e culture: «a riot of rejoycing and / a new reggae dance on the road to France». L’immagine della resistenza agli ostacoli naturali è di nuovo veicolo dell’espressione della resistenza a quelli politici: «Ash in her eye, democracy too put on a mask / one man many votes and Jamaica quakes / on the edge of eruption». Howard Fergus, in effetti, è anche un uomo politico e uno storico che da sempre si distingue per il suo servizio alla comunità di Monserrat. Le parti della sua personalità – quella dell’uomo pubblico e quella del poeta – entrambe forti del suo impegno civile, sembrano formare un’unità ovvia, coesa. Esemplare di questo istinto a significare in forme poetiche il proprio senso di essere civico è la poesia Form, con cui si apre la seconda sezione del libro, intitolata «Occasional Poems», in controcanto alla prima, che è concepita come un unico Volcano Song, un poemetto dedicato a Soufrière Hills: «Form demands obeying rules / By strict pentameter pent / Rebellion comes more naturally / In sync with native bent // So I will write a riot / Unfenced with metric rods / My thoughts must flow tumultuously / Green peas that split the pod // I’ll hum if tuneful rhythms come / Naturally on foot / But if feelings get the upper hand / My lines are free to shout». Una delle più strutturate in una forma chiusa e in un tessuto sonoro, la poesia è al tempo stesso un manifesto poetico e politico, anzi, è una dichiarazione di intenti che vuole legare l’espressione poetica alle scelte politiche. La forma – l’ordine dettato dalla norma – è così posta in relazione dinamica e feconda con la ribellione – il ritmo sincopato dettato dalle origini native. La libertà di pensiero si esprimerà nella pentapodia che rispetta il ritmo naturale dell’eloquio, all’interno del quale i sentimenti saranno sempre pronti a urlare e a sottoscrivere la sommossa. È lo specchio fedele dello stile di Fergus in Volcano Song: il ritmo procede sulla base di un metro tradizionale di cui ha assorbito la cadenza ma di cui serra e accelera i battiti sotto la spinta dell’intenzione satirica, che si appoggia agli accenti e alle espressioni del Creole English; la rima si gioca lungo tutto il verso ed è rafforzata in posizione finale nelle stesse occasioni. Il repertorio degli espedienti tecnici dell’arte poetica, delle figure di significato e di quelle di suono, è utilizzato nella sua interezza e vivacizzato dagli usi ludici e satirici della tradizione locale – mai, però, per un puro fine estetico e sempre al servizio di un imperativo morale, e sociale, a volte forse troppo intransigente.
(Paola Loreto)
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