« indietro NELVIA DI MONTE, Ombrenis (Ombre), prefazione di Franco Loi, Roma, Zone Editrice 2002, pp. 88, € 9, 00.
Nelvia Di Monte ha cominciato solo recentemente a utilizzare il friulano, ma da «straniera», come «lingua di un divieto, di una lontananza, di una perdita» nella quale identifica un che di inattuale, da intendere «proprio nel senso letterale di ciò che non appartiene alla mera attualità, alla moda, all’effimero: qualcosa di denso, di opaco, che resta sul fondo e che non si può cancellare perché è impastato alla stessa materia del mondo» (N.D.M., in Diverse Lingue,16, 1997). Coerente con la sua poetica della ‘realtà’, emersa nitidamente nei bellissimi Cianz da la Meriche (Canti dall’America, Firenze, Gazebo 1996), dove affidava a lettere di emigranti le memorie della terra e della lingua friulane, mischiate con storie di guerra, di fame e di sradicamento («Nikolajewka: fevelàvial / cualchidùn la mê lenghe? / Dulà ise / la femine che mi à butât dongje dal pît / une patate cjalde?», ‘Nikolajewka: parlava / qualcuno la mia lingua? Dov’è / la donna che mi ha buttato vicino al piede / una patata calda?’), in questo libro la Di Monte si ispira a ‘banali’ fatti di cronaca. Il poemetto che dà il titolo all’intera raccolta ed è strutturato come un testo teatrale, scandito in due cornici e quattro incontri, ruota attorno al suicidio di una sconosciuta, che dopo essersi lasciata scivolare una sera nelle acque di un fiume, partendo dalla conclusione del proprio segmento di vita (Scuasi une fin: ‘Quasi una fine’), fa affiorare il suo dramma in un muto involontario dialogo con quattro figure femminili immerse nei loro pensieri lungo le sponde di quello stesso corso d’acqua. Le sue parole oltrepassano le rive del fiume e quelle del tempo: alle soglie del nulla i fili di cinque vite si intersecano per qualche istante; cinque persone si interrogano sul senso del proprio esistere. Quel senso che la protagonista di Ombrenis non è riuscita a trovare. La sua era «la pôre – no sai – / di piardi e scomenzâ // masse o masse pôc: par vivi / no cjatavi misure» (‘la paura – non so – / di perdere e ricominciare // troppo o troppo poco: per vivere / non trovavo misura’). Fare un passo indietro, «tal grump de vite» (‘nel mucchio della vita’) non è stato possibile. Eppure, nel finale, che non senza ragione s’intitola Viars il princìpi (‘Verso l’inizio’), tutto sembra ricominciare daccapo, perché il cerchio della vita non si chiude mai veramente («si riavvolge al contrario la vita»). I personaggi di questo singolare poemetto filosofico, denso e profondo, rappresentano altrettante tessere di un mosaico esistenziale andato in pezzi. Perché, come dice uno di loro, «o sin duc’ discompagnâts, / modons di un paîs ch’al crès e al mûr / e – tal miez – sbregos di cîl» (‘siamo tutti scompagnati, / mattoni di un un paese che cresce e muore / e – nel mezzo – strappi di cielo’). Riordinarle forse si può, ma solo in quell’inesistente tempo aggiunto, una Spoon River gelida e fangosa come le acque del fiume che rotolano sulla voce narrante in «cheste gnot / ch’e distude stelis sot de cinise» (‘questa notte / che spegne stelle sotto la cenere’). La lingua utilizzata dall’autrice, la koinè, con varianti del basso Friuli, dà una connotazione timbrica aspra molto particolare alle voci femminili. Il medesimo registro espressivo cifra anche i testi brevi della seconda parte del volumetto, Ritarts (‘Ritardi’), ispirati essi pure a microdrammi del quotidiano e annodati insieme dalla tematica dichiarata dal titolo. A dominare la scena qui è proprio lei, la Siore, la Signora, metafora della morte, che se ne sta tranquilla nel bar di una stazione, dove gli smarriti caproniani viaggiatori della vita sostano tra un’attesa e l’altra, e aspetta le sue vittime, con la certezza della vittoria finale («...jo o stoi ferme: / timp o tart al vignarà ben lui a sbati / dentri la sô muse, falant colp, forsi // une sviste, un lizêr indurmidîsi / e al è tant facil sbagliâ stazion», ‘...io sto ferma: / prima o poi verrà ben lui a sbattere / dentro il suo muso, confondendosi, forse // una svista, un leggero appisolarsi / ed è così facile sbagliare stazione’, Polse, ‘Sosta’).
(Anna De Simone)
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