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ANDREA INGLESE, Inventari, con una nota di Biagio Cepollaro, Rapallo (GE), Editrice Zona 2001, pp. 96, € 7,23.

 

La silloge di poesie di Andrea Inglese presente nel Sesto quaderno italiano di Poesia contemporanea (Milano, 1998, cf. Semicerchio 20- 1, 1999) si apriva con un ormai tradizionale contratto col lettore, una poesia di poetica intitolata L’erista infelice. L’erista, ovvero colui che attende alla confutazione di qualsiasi affermazione, sia essa vera o falsa, non sarebbe il poeta bensì l’immaginario interlocutore cui sembra rivolgersi l’io ragionante. So che l’erista non approverebbe – dice in sintesi la poesia – so di non avere risposte o affermazioni inconfutabili, tuttavia io continuo imperterrito a ragionare, ovvero a parlare e a scrivere, perché solo così io sopravvivo, rimandando continuamente «l’esecuzione cruenta del mentitore». Il poeta è un mentitore, sia esso un affabulatore alla maniera di Sherazade, oppure, come Cisti fornaio per Geri Spina, uno capace di ‘rimettere gli occhi dello intelletto’, cioè di far riflettere l’ascoltatore. Il poeta mente, ovvero scrive per motivi pratici, radicalmente estranei ad ogni ontologia e non per questo meno cogenti. Sono motivi sociali, analoghi a quelli che spingono Chichibio a costruire le sue invenzioni verbali ad uso di Currado Gianfigliazzi, com’è esplicitamente dichiarato nell’Erista infelice: «Io ragiono / non per le verità eterne / le leggi profonde della storia / ma per spostare l’accento / d’umore del tiranno / come Chichibio salvarmi / con giochi di parole». Inglese si colloca così, con la sua ostentazione di consapevolezza (del valore convenzionale e intersoggettivo della lingua e della letteratura; della possibilità di fondare la comunicazione su una base eticopragmatica) all’interno del moderno allegorismo poetico, a fianco dei compagni di strada di Baldus e quindi del cosiddetto Gruppo ’93. Il libro degli Inventari non è introdotto da dichiarazioni di poetica, e l’autore saggiamente resiste alla tentazione di allegarne in fondo al volume. Ma in questo caso il titolo vale più di qualsiasi manifesto, e serve a collocare più esattamente il libro nell’orizzonte individuato. Perché l’inventario è un ordinamento arbitrario e convenzionale (convenzionale perché arbitrario) che interviene a dare una sistemazione – generalmente seriale – a un caos preesistente, originario. Lungi dall’eliminare o negare il caos, l’inventario lo riconosce per confinarlo in un orizzonte controllabile. L’inventario conferma  il caos, attestandone l’insensatezza senza però rinunciare alla partita della comprensione, sia pure limitata, che cerca la sua validità nell’efficacia e nel rapporto intersoggettivo. Non saprei dire se dietro al titolo si nasconda la ricerca di una funzione del poeta e del poetare – l’addomesticamento del mondo? –, ma di sicuro il problema incombe e questo libro ne è un’allegorica rappresentazione: la messinscena d’una ricerca inesausta e inesaudita, che trova nell’inventariare una delle sue declinazioni. Quando Inglese tenta d’inventariare il rapporto amoroso (più che egregiamente l’amplesso), la donna – il suo nome – ci appare come il punto di fuga di ogni senso, di ogni direzione, di ogni verso: «Sono chiuso in un diamante di frasi / tagliate nette, dentro cui il tuo nome / ritorna: scossa di sonaglio, timpano, / nel variopinto errare della danza, / monotona cadenza, ipnosi, mantra, / mitraglia che al pensiero il verso / toglie, il senso, l’arco logico, e benda / di luce ogni tua visione» (p. 43). Non produce, la donna, un verso senza pensiero, ma un pensiero senza verso, dove il verso è a un tempo la direzione e la ‘versura’, l’a capo, il segno privilegiato della poeticità. Un’ambiguità che si scioglie qualora si intenda la contorta verticalità della poesia come la sola possibilità di conferire un ‘verso’ al mondo, ovvero ai discorsi degli uomini in cui il mondo parrebbe risolversi. La poesia dà senso al pensiero, in quanto la sua evidente convenzionalità – il suo essere allegoria della convenzionalità stessa – l’autorizza a non nascondere la funzione eminentemente sociale della lingua. La poesia è una forza contraria al puro nome della donna, che tuttavia viene assorbito e messo in scena dalla poesia, viene non razionalizzato ma reso comprensibile, quindi condivisibile. La poesia d’apertura del libro, l’Inventario dell’aria, torna su una frequentatissima cadenza dannunziana per imbastire un fittissimo e mimetico rincorrersi di suoni. Piove polline dal cielo e tutto viene avvolto e travolto dalla sua melassa bianca, mentre il lettore è travolto da una pioggia di sdrucciole variamente incatenate: «Nevica ora polline e luccica come manna / in alpe d’ocra incendiata, nevica / controluce albumi di lana come in taciturni / campi di cotone, le lanugini, i bioccoli, / nevica in cenni di ciclone, in baraonda di luce, / nevica fiamme di soffioni, fiocchi, grappoli / d’aria / ... le gonne / ombrellano atomi d’ovatta, s’intana  rapida / una polvere tra le trine che inguantano/ l’inguine, e le spore più rade nel pube / spannano, dove io le seguo, fiutando / l’incenso delle carni che ribollono ». Non c’è fonosimbolismo; semmai un abile sfruttamento della dimensione fonica della lingua. Le figure di suono sono una parte della retorica, quindi persuadono, convincono, veicolano sensi (non il senso) giusto il tempo che occorre perché l’erista infelice non li distrugga col suo nichilismo. È quest’aria che soffia il vero leit motiv del libro.

 

(Simone Giusti)


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