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ANTONIO MARIA PINTO, Sonàr, introduzione e commento di Francesco Muzzioli, Roma, Le impronte degli uccelli (via S. Michele 11, 00153 Roma) 2002, pp. 43 (s.i.p.).

 

È noto come Gide rifiutando la definizione di roman alla maggior parte dei suoi romanzi (con l’eccezione dei Faux monnaieurs) abbia sottotitolato Les caves du Vatican, une sottie. Così facendo, un genere comico medievale veniva suscitato per descrivere una (ma fosca, dostojevskiana) commedia di caratteri e costumi. Il traguardo era sempre quello di agganciare il comico alla morale, e oggi ancora il problema, dopo gli abbondanti recuperi di ‘stile chioccio’ operati soprattutto nell’area della cosiddetta ‘letteratura di ricerca’ (o ex-avanguardia, dato che tutto prende avvio dalle Malebolge di Sanguineti), si pone nei termini di preservare all’impiego di tale gamma stilistica l’intenzione comica, schivando le secche del moralismo-e-basta (ammettendo però che ciò che per Dante era ‘comico’, è ormai per noi il più delle volte stile ‘tragico’). Questo per dire che la corona di dodici sonetti (declinati metricamente secondo figure anche extracanoniche) allestiti da Pinto con la collaborazione di Francesco Muzzioli autore di commenti insieme liberi e puntuali, disposti pezzo per pezzo come un testo a fronte, pur affrontando temi di macelli e corruzioni del mondo contemporaneo, se ne esce in sostanza in buon equilibrio tra invettiva e carnevale. L’idea è quella di rovesciare una lingua fatta di gergo burchiellesco, e degli accostamenti pre-boschiani (Hieronimus Bosch) delle fatrasies, alla ricerca di un senso attraverso il nonsense. Sembra infatti che nel breve volgere di questo poetico carnevale che intreccia alle pieghe più inattese della lingua di tradizione abbondanti sortite veneziane (tra Giorgio Baffo, ma soprattutto il Casanova di Fellini/ Zanzotto, vedi anche «Con cauti guardamenti la giudecca / sommersa guata lemme la balena») e impasti ispano/franco- maccheronici, secondo i modi del descort plurilingue medievale, l’autore giochi una partita più libera di quella ingaggiata, nel segno di una articolata dimensione giullaresca, nella raccolta maggiore, Istoriette (Lecce, Manni 1999), dove il ‘tremendismo’ giunge a sfregi quasi pasoliniani, con le petrarchesche «Chiare, fresche e dolci acque» profanate dalle «Acque scure di bettola». L’invitation al viaggio testuale prende così avvio dalla melodica barcarola veneziano-spagnola: «Andémo, galantomo, / que la pequena barca / xe de martuffi [idioti, ma fools?] carca», e prosegue dopo tanto anche fieristico invito («venghino signori venghino », commenta Muzzioli, e pensiamo anche alla scena della grande Mòuna, sempre nel Casanova, per la penna di Tonino Guerra), tra mostri sessuali, scatologiche buccine («botto osé del cul del re»), rumorosi notturni («Luna falcata sornacchia sul core»), sfide iperboliche («Mademoiselle, xe el carnaval! / mal bonito, amour brûlé, / madre Morte che non c’è»), diaboliche ricette («Di noci e pistacchi ripiena ranocchia», e l’«abbacchio scortato da minchie a tocchetti» uscito, si direbbe, da un film di Greenaway). La barca contorna invelenita gli scogli difficili degli inferni militari e massmediali per finire nuovamente in musica e serenata, sulla «playa de la mort». Sul medioevo è passato il barocco, sul carnevale una metafisica paura: «Su sta palla plorosa possedette / certa certanza dell’anima niuno, / niuno crepò non pavendo il digiuno / dei vermi nelle bare benedette».

 

(Fabio Zinelli)


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