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STEFANO RAIMONDI, La città dell’orto, Bellinzona, Casagrande 2002, pp. 118,   15,00.

 

Nel suo Elogio di Milano per la sua fertilità e la sovrabbondanza di ogni bene (che occupa per intero il quarto capitolo del De magnalibus Mediolani) Bonvesin de la Riva osservava : «Vi sono anche gli orti, che fioriscono per l’intero corso dell’anno e producono abbondanza di legumi di ogni genere». E forse Stefano Raimondi, ordinando le sue poesie sotto il titolo La città dell’orto, potrebbe strizzare l’occhio al suo grande antenato duecentesco: benché gli orti, come tutte le altre bellezze naturali elencate da Bonvesin (frutteti, castagneti, dolcissime vigne, fertili fiumi e infiniti ruscelli di fonte etc.), sembrino oggi del tutto estranei alla realtà milanese. E proprio in questo senso già il titolo scelto dall’autore suggerisce una dolorosa antitesi, che sarà poi sviluppata ed elaborata nel corso della raccolta. L’argomento principale del volume, il tema della morte del padre, è infatti sin dall’inizio inserito in una cornice metropolitana che complica e arricchisce la meditazione poetica di Raimondi. Se l’«orto» richiama una dimensione umana umile e familiare, una memoria operaia di lavoro e di affetti che rimanda alla figura paterna, l’altro termine «città» parla invece della Milano odierna, frenetica e spietata, «malabolgia fatta a cerchio» in cui i destini individuali sembrano perdersi nel nulla e svanire. Cos’è la morte, nella Milano contemporanea? Quale spazio sa schiudere la città «costato di calcine» alla pietà del dolore e del lutto, alla dolcezza del ricordo e dei baci? E in che modo il transito delle vite umane modifica e rifonda la stessa città, passando il testimone della memoria dal padre al figlio (ma in questo scambio, la memoria stessa non muta? e come? «Sono io adesso, ad avere memoria...», recita uno dei versi più belli)? Sono questi, e altri di analoga intensità, gli interrogativi che Raimondi insegue nei suoi versi, entro i quali la vicenda biografica, appena accennata con pudore, si intreccia e si fonde con il paesaggio urbano, colto nei suoi rari momenti di apertura, di squarcio in chiaroscuro: giardini, parchi, spiazzi, dove per un istante le case si aprono, e le figure umane si rivelano nella loro precaria individualità, nel loro divenire tormentato, più purgatoriale che infernale (le «ombre che vanno» di Purgatorio XXIII, per esempio; ma il canto VIII della stessa cantica è esplicitamente rammentato in uno dei testi finali  del libro, che cita per esteso l’Inno della Compieta). Uno degli aspetti più interessanti del libro risiede appunto in questa sovrapposizione drammatica, che si manifesta soprattutto nelle parole e nelle immagini : come se un lessico cittadino pietroso, secco e scarno, fosse centrifugato insieme al vocabolario pietoso dei sentimenti, alle formule quasi liturgiche del compianto funebre. Per questa via, ecco generarsi ora una lacerazione semantica  («per restare fatti / di pietà e di pietra»; «ghiaccio sui tombini come sopra bocche »; «da qui non s’indovinano i perdoni. / Solo la luce rasa tiene / il conto dei tetti risparmiati, / delle cantine tenute premute / con il buio bendato alle porte / rifugiato dentro»), ora una sorta di misteriosa fusione («La pietra ora è nel mio sangue. / Non so chi di noi due è più solo / chi forte e d’ora in poi / per sempre»; «Un’ombra fa più alta la casa / e dentro è un cortile che tace tutto / anche l’ultimo piano che si sbraccia»; «Tienile al buio le mie parole. / Hanno ancora un’ombra / una sola città dove farsi capire ») che sembra poter trasformare anche il dolore in una luce  commossa: sicché nella poesia conclusiva, ma anche in molte altre parti della raccolta, «Tremano anche le stelle: brillano».

 

(Fabio Pusterla)


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